sabato 27 giugno 2020

Il Regno degli Amici




Lasciare il rumore al rumore e ad ogni rumore un suono: realtà due volte opposte e complementari. Placare la forza che viene da fuori a distrarre e sapere le cose che bisogna fare nell’immediato, spillate a una finta noncuranza e allungate con mosse oziose come le file indiane dei bambini. E poi mani appiccicate alle mani, nasi all’insù e occhi puntati lontano, a far sbiadire gli orizzonti. Infilate nel nascondigli propri dell’oblio, le lunghe e disordinate liste di cose da fare stilate controvoglia e scordate in un cassetto: le cose pratiche, finite e solo utili, talvolta sono brutture proprio misere davanti al bello che c'è. Solo i condizionali sono desiderabili. E le supposizioni. L’imperfetto è per gli adulti, il futuro semplice è per gli anni che ancora restano protetti e liberi sul serio. Il futuro anteriore pare uno sgambetto, una cosa acchiappata tra i banchi di scuola solo perché serviva ripeterlo ad alta voce, borbottarlo, appiattirlo in un suggerimento mimato al compagno di sventure con la bocca e con le mani in un alfabeto muto e di soppiatto, per riuscire a saltare l’ostacolo delle temute insufficienze e andare avanti. Si recitava ad alta voce un verbo, una coniugazione italiana, latina, una lingua straniera: il piacere della scoperta ha un sapore tutto nuovo nell’adolescenza che è un’età che appare fresca d’infanzia e non più infantile.
Ma volere assaggiare ogni cosa con grande impeto, non è mica detto si fermi ai soli anni che portano il numero uno davanti, che è come una specie di diga, una linea verticale con uncino, che corre prima del due che fa il dodici e del tre panciuto dei tredici anni; a quattordici anni il quattro si siede e accavalla una gamba per vedere un po’ quello che si è combinato nel fragore dei tanti giorni alle prese con le prime volte intese in senso largo, avventato e imprevedibile. Poi viene il sei che è molle. Diciassette è quasi agli sgoccioli, diciannove occhieggia: la diga del numero uno sta per crollare. Il due dei vent’anni ha il collo lungo delle giraffe, vede le cose dall’alto per tuffarcisi meglio.
 
Tuffarsi, ora che è estate. Tuffarsi nelle acque in solitaria, saltare ad occhi chiusi dentro un tempo pigro, dilatato; tempo di cose da poco. Tempo che è facile nel silenzio di certe ore accarezzare un libro, prenderlo con mani salde e un contorno di presentimenti buoni: era estate ne Il Regno degli Amici di Raul Montanari (Einaudi): estate radiosa, estate da sudare l’anima dentro un pensiero ripetuto cento volte in pochi istanti, lì dove c’è lei che è amore, prima ancora che l’amore si formuli. La ninfa della Martesana, la pescatrice: non ha ancora quattordici anni quando sceglie di adottare un sentimento di fiducia verso cose e persone sconosciute, a piccole dosi, convinta che nulla le si ritorcerà mai contro. La bontà delle visioni integre, fertili, andrebbero serbate intatte nel cuore dei giorni e degli anni, e invece si sgretolano pian piano e dopo un po’ pure in silenzio: si perde tanto senza neppure saperlo; nel vedere una crepa verrebbe voglia di porvi rimedio, e si rattoppa l’errore finendo poi col coprire un guasto con altri guasti.
La ninfa dai capelli lunghi e gli occhi verdi dal nome smilzo come gli anni, si avventura nei territori di una Milano vista di lato, nell’ombra, lontana dalla calca. Il suo nome è Valli, e lei stessa lo impara con felicità rinnovata da voci amiche. Del resto sappiamo il nostro nome da quando abbiamo memoria, ma lo apprendiamo con vigore allegro e sorprendente quando qualcuno lo affianca con musicalità insperate e con affetto, a un’identità più o meno acerba.
Valli sente di appartenere al suo stesso nome e a chi lo usa, e dunque a un Demo venuto per abbreviazione, sbucato dal nulla: ragazzino timido dagli sguardi audaci, col rossore delle voglie e delle insicurezze impastato con le parole buone per dissimulare, avanzare, promettere, raccontare; e poi scrivere, invitare, tacere, con la bocca deliziosa quando è per i baci; e vivo, sbigottito, quando la voce muore in gola e rinasce in un sospiro per il peccato che viene solo quando non si ha tenacia e fame per desiderare con forza: è cruciale e clamorosa la bellezza di chi si scopre a chiedersi fra i denti dove fossero stati mai fino ad allora, la grazia e lo scompiglio; e la smania di due corpi ancora incerti che si cercano e respingono per un istinto scherzoso, agitato. Demo e Valli si amano senza sapere l’amore, restano nei dintorni delle mani, delle cosce, del sesso da sperimentare; traggono bocconi rapidi dal poco tempo che trascorrono in solitudine, lontani da un gruppetto di amici che si direbbero pronti a tutto per difendere un angolo di paradiso, lo stesso Regno che dà il titolo a un libro dall’impronta salda e incantevole: una casa nei pressi di strisce d’acqua limacciose, coi pesci buoni per la pescatrice che dorme sopra un albero, e per il ragazzo con un tic soffiato tra naso e mugolii a bocca chiusa a spezzare i discorsi, certe volte, ma non il suo sguardo acuto su situazioni e persone: uno sguardo spoglio di preamboli.
Poi c'è un profeta senza pulpito, un profeta per gioco con pezzetti di religione presi per contagio da una famiglia stretta; lui si rintana in casa e poi fugge, torna al Regno con gli amici e con la musica, amica anch’essa, pronto a prestare traduzioni sghembe ai pezzi rock cantati e suonati in gruppo per finta: è vera l’energia, però, tra i Talking Heads e Jimmy Page: Whole Lotta Love è il pezzo forte, il pezzo di apertura, l’inaugurazione di una casa tutta per loro. Sono vere le smorfie, la gestione del respiro che al cantante vero non mancava mai; semmai quello si trovava a grattare la gola con gli ultimi residui di voce, e allora tutto era più carnale e autentico, per forza.
Il profeta somigliava in altezza a Fabiano. Fabiano il belloccio, Fabiano che si perde in fantasie scure e in pensieri di morte ad annebbiare lo sguardo, ad anticipare un futuro infausto tratteggiato appena alla fine di serate dedicate alle baldorie di un’estate afosa e forse ultima: vi sono eventi che una volta oltrepassati segnano una fine senza appello. E nel migliore dei casi a quella seguiranno degli inizi non voluti, inizi a sorpresa, destabilizzanti. È proprio questo il gioco della vita: una promessa mantenuta e il dolore appreso in mille forme; dolore che annienta anche se diviso con altri, a prescindere da colpe e responsabilità.
 
Raul Montanari inventa, segue e rimarca un profilo non sempre dolce per ciascuno dei personaggi e delle vicende confidate a un libro che a sua volta consegna al lettore una malinconia sottile e un sorriso agrodolce, quando tutto finalmente si svela per ciò che è, e per quanto è stato. L’irreparabile resta tale, ma una scia sottile luccica sullo sfondo di visioni non proprio nitide, certe volte. Offre un riparo alle membra stanche, e una possibilità di risanamento per chi prima o poi si spezza e si ricuce partendo da uno strappo profondo. Alla fine gli anni ammonticchiati sulle spalle si riveleranno fugaci e leggeri, almeno per un momento. E sarà ancora estate nei sogni ad occhi aperti, nelle voglie accese, nella fine priva di superlativi; e adattata, smussata, recepita con occhi e maturità nuove. E nonostante tutto, bella da crederci a stento.






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