Il Regno degli Amici
Lasciare
il rumore al rumore e ad ogni rumore un suono: realtà due volte opposte e
complementari. Placare la forza che viene da fuori a distrarre e sapere le cose
che bisogna fare nell’immediato, spillate a una finta noncuranza e allungate
con mosse oziose come le file indiane dei bambini. E poi mani appiccicate alle
mani, nasi all’insù e occhi puntati lontano, a far sbiadire gli orizzonti.
Infilate nel nascondigli propri dell’oblio, le lunghe e disordinate liste di cose
da fare stilate controvoglia e scordate in un cassetto: le cose pratiche,
finite e solo utili, talvolta sono brutture proprio misere davanti al bello che
c'è. Solo i condizionali sono desiderabili. E le supposizioni. L’imperfetto è
per gli adulti, il futuro semplice è per gli anni che ancora restano protetti e
liberi sul serio. Il futuro anteriore pare uno sgambetto, una cosa acchiappata
tra i banchi di scuola solo perché serviva ripeterlo ad alta voce, borbottarlo,
appiattirlo in un suggerimento mimato al compagno di sventure con la bocca e
con le mani in un alfabeto muto e di soppiatto, per riuscire a saltare
l’ostacolo delle temute insufficienze e andare avanti. Si recitava ad alta voce
un verbo, una coniugazione italiana, latina, una lingua straniera: il piacere della
scoperta ha un sapore tutto nuovo nell’adolescenza che è un’età che appare fresca
d’infanzia e non più infantile.
Ma volere
assaggiare ogni cosa con grande impeto, non è mica detto si fermi ai soli anni
che portano il numero uno davanti, che è come una specie di diga, una linea
verticale con uncino, che corre prima del due che fa il dodici e del tre panciuto
dei tredici anni; a quattordici anni il quattro si siede e accavalla una gamba
per vedere un po’ quello che si è combinato nel fragore dei tanti giorni alle prese
con le prime volte intese in senso largo, avventato e imprevedibile. Poi viene
il sei che è molle. Diciassette è quasi agli sgoccioli, diciannove occhieggia:
la diga del numero uno sta per crollare. Il due dei vent’anni ha il collo lungo
delle giraffe, vede le cose dall’alto per tuffarcisi meglio.
Tuffarsi,
ora che è estate. Tuffarsi nelle acque in solitaria, saltare ad occhi
chiusi dentro un tempo pigro, dilatato; tempo di cose da poco. Tempo che è facile
nel silenzio di certe ore accarezzare un libro, prenderlo con mani salde e un
contorno di presentimenti buoni: era estate ne Il Regno degli Amici di Raul Montanari (Einaudi): estate radiosa,
estate da sudare l’anima dentro un pensiero ripetuto cento volte in pochi
istanti, lì dove c’è lei che è amore,
prima ancora che l’amore si formuli. La
ninfa della Martesana, la pescatrice:
non ha ancora quattordici anni quando sceglie di adottare un sentimento di
fiducia verso cose e persone sconosciute, a piccole dosi, convinta che nulla le
si ritorcerà mai contro. La bontà delle visioni integre, fertili, andrebbero
serbate intatte nel cuore dei giorni e degli anni, e invece si sgretolano pian
piano e dopo un po’ pure in silenzio: si perde tanto senza neppure saperlo; nel
vedere una crepa verrebbe voglia di porvi rimedio, e si rattoppa l’errore
finendo poi col coprire un guasto con altri guasti.
La
ninfa dai capelli lunghi e gli occhi verdi dal nome smilzo come gli anni, si
avventura nei territori di una Milano vista di lato, nell’ombra, lontana dalla
calca. Il suo nome è Valli, e lei stessa lo impara con felicità rinnovata da voci amiche. Del resto sappiamo il nostro nome da quando abbiamo
memoria, ma lo apprendiamo con vigore allegro e sorprendente quando qualcuno lo
affianca con musicalità insperate e con affetto, a un’identità più o meno acerba.
Valli
sente di appartenere al suo stesso nome e a chi lo usa, e dunque a un Demo
venuto per abbreviazione, sbucato dal nulla: ragazzino timido dagli sguardi
audaci, col rossore delle voglie e delle insicurezze impastato con le parole
buone per dissimulare, avanzare, promettere, raccontare; e poi scrivere,
invitare, tacere, con la bocca deliziosa quando è per i baci; e vivo,
sbigottito, quando la voce muore in gola e rinasce in un sospiro per il peccato
che viene solo quando non si ha tenacia e fame per desiderare con forza: è
cruciale e clamorosa la bellezza di chi si scopre a chiedersi fra i denti dove
fossero stati mai fino ad allora, la grazia e lo scompiglio; e la smania di due
corpi ancora incerti che si cercano e respingono per un istinto scherzoso,
agitato. Demo e Valli si amano senza sapere l’amore, restano nei dintorni delle
mani, delle cosce, del sesso da sperimentare; traggono bocconi rapidi dal poco
tempo che trascorrono in solitudine, lontani da un gruppetto di amici che si
direbbero pronti a tutto per difendere un angolo di paradiso, lo stesso Regno
che dà il titolo a un libro dall’impronta salda e incantevole: una casa nei
pressi di strisce d’acqua limacciose, coi pesci buoni per la pescatrice che dorme sopra un albero, e per il ragazzo con un
tic soffiato tra naso e mugolii a bocca chiusa a spezzare i discorsi, certe
volte, ma non il suo sguardo acuto su situazioni e persone: uno sguardo spoglio di
preamboli.
Poi
c'è un profeta senza pulpito, un
profeta per gioco con pezzetti di religione presi per contagio da una famiglia
stretta; lui si rintana in casa e poi fugge, torna al Regno con gli amici e con
la musica, amica anch’essa, pronto a prestare traduzioni sghembe ai pezzi rock
cantati e suonati in gruppo per finta: è vera l’energia, però, tra i Talking
Heads e Jimmy Page: Whole Lotta Love
è il pezzo forte, il pezzo di apertura, l’inaugurazione di una casa tutta per
loro. Sono vere le smorfie, la gestione del respiro che al cantante vero non
mancava mai; semmai quello si trovava a grattare la gola con gli ultimi residui
di voce, e allora tutto era più carnale e autentico, per forza.
Il
profeta somigliava in altezza a Fabiano. Fabiano il belloccio, Fabiano che si
perde in fantasie scure e in pensieri di morte ad annebbiare lo sguardo, ad
anticipare un futuro infausto tratteggiato appena alla fine di serate dedicate
alle baldorie di un’estate afosa e forse ultima: vi sono eventi che una volta
oltrepassati segnano una fine senza appello. E nel migliore dei casi a quella
seguiranno degli inizi non voluti, inizi a sorpresa, destabilizzanti. È proprio
questo il gioco della vita: una promessa mantenuta e il dolore appreso in mille
forme; dolore che annienta anche se diviso con altri, a prescindere da colpe e
responsabilità.
Raul
Montanari inventa, segue e rimarca un profilo non sempre dolce per ciascuno dei
personaggi e delle vicende confidate a un libro che a sua volta consegna al
lettore una malinconia sottile e un sorriso agrodolce, quando tutto finalmente
si svela per ciò che è, e per quanto è stato. L’irreparabile resta tale, ma una
scia sottile luccica sullo sfondo di visioni non proprio nitide, certe volte. Offre
un riparo alle membra stanche, e una possibilità di risanamento per chi prima o
poi si spezza e si ricuce partendo da uno strappo profondo. Alla fine gli anni
ammonticchiati sulle spalle si riveleranno fugaci e leggeri, almeno per un
momento. E sarà ancora estate nei sogni ad occhi aperti, nelle voglie accese,
nella fine priva di superlativi; e adattata, smussata, recepita con occhi e
maturità nuove. E nonostante tutto, bella da crederci a stento.
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