giovedì 10 dicembre 2020

Gabbie Per Sirene


«Era come neve, la tua presenza. Era gelo a gravare sui rami spezzati delle ossa. Tu non avevi argini, ma fuori si: fuori ti ritraevi, scomparivi».
Finito di parlare, la donna con cent'anni sul volto e sette lustri raschiati sul registro dell'anagrafe si alza dalla sedia. Toglie il cappello, lo accartoccia tra le mani. Torna a sedersi con l'aria rassegnata di chi colleziona risposte giunte in ritardo o andate smarrite; ma a volte intercetta con occhi e agilità di lepre, appena un sibilo, una crepa nel corpo amato e ricurvo gettato come una cosa che non serve sopra una sedia e un tavolino spoglio: c’è chi ascolta lunghi racconti con la segreta pretesa che vadano a segnare per tutti un risveglio. E chi si limita ad annuire, allacciando le mani alle mani già incontrate con fame d'affetto, fame di rapace. Quante calorie conta l'aria ingerita? 
«Cosa hai mangiato ieri»?
«Pulviscolo e luccicore di stelle».
«Ti si vedono le ossa». 
«Quelle non sono ossa, sono sbarre. Sono gabbie per sirene».





















Una stanza e tre tavolini: uno è risolto, ne restano due. Come un vecchio gioco di prestigio compaiono dal nulla mani piccole e nervose, sporche di colore; allungano un dipinto all'ospite desiderato e silenzioso. Dai polsi arrossati e abbandonati si risale a un viso che sospira, sbuffa e piega l'aria intorno con lo sguardo. Spuntano di nuovo le mani e coprono il volto; poi provano a inventare le reazioni sperate: hanno giallo il pollice, rosso l'anulare, verde l'indice che disegna un sorriso sul volto amato giunto fin lì da tre quarti di mondo più in là per offrire coraggio, con in mano una valigia di cartone, un fiore di cartapesta all'occhiello, e lenti tonde e spesse a puntare un foglio candido con il disegno di una grossa bocca di roccia e argilla che vomita la parola fame nelle lingue di tutti i continenti; e in una marziana, inventata in una notte insonne. Amore è scritto un poco più giù, con una grafia sottile e falcate di gazzella. L’autore del disegno cattivo, bisbiglia d’un tratto: «l’amore bisogna dirlo in fretta, masticarlo appena. Senti come riempie? Ora devo sputarlo via. Tu intanto resta qui e aspettami».
«Cosa hai mangiato ieri?»
«Ogni cosa, lo diresti mai?»
«Che ti è rimasto nello stomaco?»
«Oltre il rimorso? nulla. La gola è un varco segreto che le mie dita conoscono bene». 
 
Ultimo tavolo, ultimo incontro. «Chi è che cantava La Donna Cannone? Aspetta, ora mi viene. Tu intanto vieni qui e non mi toccare.
(E toccami, ti prego. Ti prego. Se no come faccio a ricordarmi di me?)».
«Cosa non hai mangiato ieri»?
«Ho scansato solo il gusto, il poco e l’utile; al centro del mio vuoto esasperato, divoravo tutto e non sentivo niente. Ora resto ben piantata qui, ma non fiorisco».
 
È come neve, pure lei. Non un fiocco solo: una valanga. Guarda gli assenti nella stanza come da un angolo di purgatorio: il corpo è un luogo inospitale e allora lo lasciano, almeno con la mente. Sono presenti altrove, ciascuno col proprio dolore. Eppure riescono ad allacciare uno sguardo d'intesa: sotto la scorza smezzano una comunione stramba dagli intenti nebulosi. Sono un racconto e una ferita affine, distanti solo a uno sguardo disattento.
Una vita dopo, qualcuno giurò di aver visto tre ombre per strada in una notte di luna piena, notte di incontri da ladri di tempo e di speranze. Un’ombra valeva per quattro e contava i granelli di sabbia in riva al mare. Aveva dita agili, d’avorio, serrate una ad una con un nastro rosso per apparire più esili. Era meglio che saperle come sempre: dita tonde, sgraziate, che sapevano ogni gentilezza, ogni fuga, solletico, carezza furtiva. Dita nascoste, dita senza gioco. Un granello di sabbia, più uno, più uno, e avanti per chissà quante notti: era un pegno, un giaciglio da sistemare per l’amore perduto o inventato, per l’amore di sé.
Oltre una piccola piramide di sabbia sostava la seconda ombra, intenta a soffiare su un biscotto appena sfornato. Teneva appesi al collo un lucchetto e due chiavi ramate a sbucare da un taschino ad altezza cuore. Vomitava sospiri, e i piedi si staccavano da terra. Inspirava e atterrava, addentava il biscotto e osava una specie di tiptap. Finito di sgranocchiare il dolce pasto chiudeva con cura il lucchetto. E mormorava: «ora tu resti lì, biscotto. Tu resti lì e mi fai fare sogni di zucchero».
L’ultima ombra pareva un filo orfano di palloncino, un filo d’ossa, filo di vertebre come anelli senza fede, e rincorreva nuvole vaporose appese a un cielo guasto. Giocava ad indossarle: somigliavano ad abiti di pregevole fattura da imparare a riempire con una fame finalmente zitta, e sogni tondi e languidi come lune d’argento.














Per le illustrazioni, ringrazio moltissimo Simona Fiori 🌸