martedì 28 dicembre 2021

Nothing's Gonna Hurt You Baby

 
Ricorda di colorare forte sopra i muri. Tu non ne sei capace, tu muovi le mani come in una danza sospetta, sorvoli l’aria con faccia contrita, con faccia distratta, turbata e in estasi. Ma l’aria non trasuda la tempera, gli acquerelli sbiadiscono ai primi cenni d’umido; il gesso si impasta con la pioggia, crea miscele che vedi solo tu, al netto delle vesti: la sera quando nessuno ti vede; la notte, quando ai pensieri si accosta a malapena il tuo respiro.
 
Niente potrà più ferirti: Nothing’s Gonna Hurt You Baby, le diceva lui. Poi precisava quanto fosse da rivedere la follia del pensarsi indenni davanti ai fatti della vita. E che ferirsi era una pratica come un’altra, un male necessario, la vanità rivista e da esibire dopo averci fatto pace due o tre secoli più in là. Niente potrà più ferirti fino a ucciderti, ecco. Come quelle smagliature: merletti senza lode e tanta infamia, messi lì per dire a tutti quanto costa sopravviversi, e quanto viversi invece, tagliando di netto le cose che nessuno vede, strato su strato, fino a raggiungere un segno e un senso più profondo. Vivere prestando fede al gioco crudele di chi si espande e si ritrae, come l’onda che abbraccia lo scoglio, il fiore che beve il sole e poi si piega, piccino, a baciare la terra.
Lei non sapeva colorare solo i muri, però. Allora pensò bene di imprimere bocconi di esistenza sulla pelle, significati emersi di soppiatto, racconti concessi con sole metafore sparse: non vi è niente da spiegare per intero a tutti, in fondo. Non serve rendere partecipe chiunque della propria intimità. Uno vede un groviglio di fiori, ghirigori simili a un acchiappasogni astratto e un pianeta appeso al nulla, sulla carne, alle spalle, dove gli occhi per vedere devono proprio cercare a fondo, la testa ruotare, impuntarsi, indagare i riflessi negli specchi che altrimenti mica lo saprebbe lei stessa, cosa ha lasciato lì dietro e come è arrivata a superarsi. Sono disegni sparsi che durano minuti e invece bisogna prenderli per quello che sono: giorni, mesi e forse anni, condensati in pochi tratti.
Una folata di vento ferma il tempo un istante: i suoi capelli inventano un’onda gentile, il capo cade su un lato, chiede una risposta che plachi l’insistere di una domanda mai osata. Cosa saremmo se non fossimo io e te?
Lui si china a raccogliere un’ipotesi, la rivela a capo chino, con voce biascicata, non può mica fornire la formula esatta col bianco candore delle certezze. Bianco accecante, anonimo, troppo pulito. Chi le vuole le cose sempre giuste? Chi desidera che sia soltanto intonso, il tempo speso a disegnare carezze sulla pelle? Dove lo sporco non è un affronto ma un’alleanza che leva briciole di sogni depositati nell’incavo delle labbra. Labbra di fragola che non si possono vedere perché lei lo guarda ancora, guarda solo lui così ostinato, chinato su sé stesso, mentre scrive per terra con un sasso appuntito: come eravamo. Così, senza punto di domanda. Senza respiro, senza perché.
Il tempo slitta, scivola, sguscia i frutti di un destino maturo da contraddire: se contiamo le rughe sul volto, percorriamo da capo le volte in cui siamo rimasti impigliati in un sospiro d’anfora, terroso e antico; e poi le voglie negate e taciute, fino a che quelle prendono l’iniziativa, levano la brina addossata ai gesti scordati, muovono un passo timido che infine diviene una danza.
Le tue braccia sono come radici, gli diceva. Lui era albero, mente liscia, salda, con le parti nascoste da non dire mai, da percorrere in segreto: su invito o piano, per tentazione indicibile da non poter trascurare.
E insomma: come eravamo.
Eravamo in due in un giorno qualunque. Due senza nome per i passanti: se mi sporgo ci vedo ancora, eravamo due da sembrare uno, da sembrare niente. Due da fare invidia ai sassi, al silenzio, alle stelle, al capo chino di una luna d’argento, al sole quando sorge e già pensa al sonno d’ambra da riversare, liquido, su colline di un verde da prendere boccate d’aria ampie prima di tuffarcisi; come se fossero blu, come se fossero un oceano. Eravamo quelli che non temono l’oggi, sapendo che il domani verrà perché si ha sempre sete di speranza. E la speranza ha fili gracili da intrecciare, colori sgargianti da celebrare con dita gentili. Eravamo quelli che urlavano forte l’offesa di un fiore rubato alla terra; e c’era una scommessa fatta e da rinnovare ogni volta: se si trovava un fiore con la corolla appannata, lo stelo spezzato, i petali socchiusi per la vergogna di non avere più un posto nel mondo, lo si doveva raccogliere, ringraziare, baciare petalo per petalo, baciare labbra per labbra, così quello restava appeso alle mani, sapeva che era proprio un dolce addio, una dolce scadenza. Guardava il mondo per la prima volta a testa in giù, si trovava piantato su un cielo senza fine, tra nubi sfilacciate, bianche come cotone. E la testa a vedere i piedi di quei due a farsi vicini, e quanti baci, tanti baci; e onde d’abito a spezzare le onde immobili del suolo: che novità assoluta, un cambio di prospettiva in fin di vita. Come si dice: morire in grande stile, morire coi fuochi d’artificio nella testa, morire sottosopra fino ad imparare che invece essere umani significa non farne mai o quasi mai una dritta, ma saper raddrizzare le cose, se non altro. Il fiore risale, la mano che lo tiene è gentile ma distratta; è una sola perché l’altra percorre linee differenti, ugualmente soffici, da segnare un sorrisetto obliquo sulle labbra e volerne ancora. Il fiore impara l’arte della sospensione: galleggia senza acqua, senza onde, solo aria. Impara la vista dritta e lunga, presa per il verso giusto; l’equilibrio sopra una vertigine che forse non lo vedrà mai più con lo stelo per terra, ma coi petali sulle nuvole, quello sì, E il suo buon odore di vegetale bello, bellissimo. Lui è unico, è solo, e lo sa bene. Così chiude gli occhi e ascolta il mormorare di quei due alla sua destra. Si sono sdoppiati: due prima, due dopo. Due coppie che ne fanno una, nel perpetuo dubbio dell’essere e del divenire.
Come eravamo conta giusto un poco. Solo per capire come siamo adesso, e come si deve andare per parlare insieme la stessa lingua, per trovare in due lo stesso passo. Uno che non escluda le differenze ma le accomuni.
Poi svaniscono in un soffio, attratti da un alito di vento pregno dell’ultimo respiro di un fiore contento, nonostante tutto. Finiscono di giocare a nascondino, finiscono di contare, nessuno deve più nascondersi. Nessuno deve più cercare. Uniscono le mani, chiudono gli occhi: al tre sono già due senza riflesso. Due soltanto, a cominciare da un bacio e un abito bianco, senza moine, senza riti, due che si baciano sapendo di baciarsi, mentre il tempo si dilata, si vergogna, si ripiega, manca un battito di lancette come il cuore certe volte, quando la bellezza è tanta da non poterla proprio sopportare.


Foto di Estéban Puzzuoli


venerdì 3 dicembre 2021

È Stata la Mano di Dio

 
È stata la Mano di Dio a dire quando fu il tempo di ridersi la vita addosso, scagliarsela contro come il più agguerrito dei giochi, come la sfida amata più del dirsi "bravi, avete fatto bene, avete fatto tutto giusto". Vi sono attimi in cui fare male, fare sporco e impreciso per godersi il passaggio dal nulla al tutto, vale più di ogni regola seguita passo-passo. Vale la presa di coscienza che rasenta la perfezione perché finalmente viene e schiarisce. Viene e porge un senso alle cose rimaste sopite da lungo tempo, se non da sempre.
È Stata la Mano di Dio, visto ieri al cinema, porta l’impronta di un Sorrentino che ha l'abilità di essere carnale, pronto ad esplorare il mondo che intende raccontare, e non per imitazione. Solo un po' compiaciuto, forse, per gli effetti speciali che quasi sempre derivano dall'immagine e dall'effetto che questa porta con sé.
Nel film, la visione è quella di una Napoli vissuta e tenace, Napoli bella che non chiede mai: si concede come il più tenero degli amanti, il più audace e flessuoso, coi suoi odori e le stradine anguste, i cieli che mutano come l'umore e le esperienze di chi li osserva e intanto vive una manciata di istanti addossato uno all'altro e non li vede ammucchiarsi fitti-fitti fino a farsi esistenza compiuta, finita.
La Napoli del dio Maradona, la fede nel calcio che unisce anche chi non ce l'ha, perché è sfacciato il talento e il legame che celebra: legame con la terra che è madre e sovrana, legame che è come le viscere; e il mare tutto intorno altro non è che sangue che nutre gli organi, li rende capaci di sostenere il corpo di nascosto: restare fissi e immobili, e da tali muovere tutto il fuori dall'interno. I personaggi del film hanno una bellezza a tratti dolorosa: la zia Patrizia possiede la bellezza, non le è soltanto capitata. E se respira, se si muove e guarda un punto lontano, inafferrabile, lei crea abissi intorno a sé. Abissi di stupore e quasi adorazione; e di scalpore, perché ciò che è bello e non si può toccare crea quasi sempre un sentimento sbigottito e ostinato, come una foto sfocata che racconta l'attimo in cui da fermo il soggetto si è mosso, come per dire "no, io qui così non ci posso stare". Patrizia è un incanto triste. Ha gli occhi languidi e di un buio pesto, come la notte. Pure ridendo non celano il male di una donna che vorrebbe essere altro e non può. E pare sempre così di passaggio, lei che tutto sommato è coriacea; pare sempre sul punto di togliersi la vita, specie quando resta sospesa sul ciglio di un pendio scosceso, con rocce a capitolare nell'infinito blu di un mare da levare il fiato. E invece lei galleggia, avendo nel cuore un peso di piombo e destando amori grandi che sono anche un tabù: neppure il nipote Fabietto può sottrarvisi. Sta lì è non la tocca neppure, la guarda come fosse una dea sconfitta e sinuosa che lascia indovinare il mistero di accostarsi a una donna per un gioco diverso da quello dell'infanzia; anche quando è ancora troppo presto per saperlo sul serio.
Fabietto quando si invaghisce di qualcosa, resta incantato e si direbbe assente: la bocca schiusa come i pesci quando ingoiano gli ultimi istanti di vita fuori dall'acqua, e lo sguardo stordito, inebetito, come se tutto fosse troppo a un certo punto; è un privilegiato che gode della benedizione di sentirsi toccati e rimestati con forza da tutto ciò che esiste.
Fabietto è piccolo, vive sotto le ali di una madre imperfetta e luminosa. E un padre partorito da Servillo, l’amato Servillo che sa sempre il fatto suo. Qui incarna tutte le sfumature dei papà quando sono belli quasi da far male, perché pregni di troppi sbagli e frammenti a rendere per paradosso intatto tutto quanto: ogni sbaglio, ogni tentativo di dire o mostrare affetto, anche se nulla poi va come si vorrebbe e lo si vede, quel papà, barcamenarsi in lungo e in largo in un mondo di cose in conflitto eppure stranamente armoniche, e sempre amate.
Fabietto resta solo pure avendo tanti intorno, all'improvviso. E capisce che a volte, piangere non è così facile come si vorrebbe. Capisce che si può farlo pure col volto proprio asciutto, piangere con un nodo in gola colloso, di piombo, che poi si scioglie a suo piacimento e coglie di sorpresa, destabilizza in ogni modo.
Fabietto impara cosa accade quando un flusso si muove da un corpo all’altro creando legami di qualche tipo, reazioni immediatamente fisiche da meccanismi per lo più mentali: un desiderio che ha la pretesa finta e dolce di insegnare il futuro, e non è facile che lo si racconti così, affidato a un’accoppiata scomoda, spinosa. Un ragazzo e una donna dalla bellezza intensa, seppure troppo vecchia per godere di un corpo senza cogliere nell’atto sessuale la sola tenerezza: per il tempo andato e per quello agli sgoccioli, per i lunghi capelli che qualcuno prima di allora deve avere a lungo districato, accarezzato, tenuto stretti tra le mani per giocosa e complice imposizione. Una donna che sa bene che a volte scordare è un verbo che salva, uno che bisogna dire a voce alta e con fermezza, per salvarsi da gorghi taciuti e aguzzi. E lui non vede su di lei le pieghe che prende il corpo, come un pezzo di stoffa sgualcito eppure amato forte. Non vede le rughe e se le vede non importa: affonda nel suo vuoto che viene per contrasto; è abisso perché così dice il corpo di lei se si schiude, ma sanno tutti che al vuoto si contrappone una pienezza che risiede altrove, e che di pudore ne sa molto, perché è con quello che lei si difende e si concede per davvero.
 
L’intero film è intriso di una certa nostalgia, fortissima pure quando tutti ridono. Nelle case piene di allegria, con le orecchie drizzate verso il caos dei tifosi a partita vinta a spezzare il silenzio nelle strade coi cori urlati, festosi, e gli striscioni bianco-azzurri a sventolare ovunque. Nelle giornate trascorse a sprofondare nel mare, con al fianco scie fumose di vulcano; e nei ritratti di una città e di un tempo che non saranno mai uguali: muteranno sempre, come i ricordi dei giorni felici, nei luoghi felici; sapendo che chi fa luminoso un tempo e una distanza altro non è che il bene che si scambia chi può.
Gli scorci e le riflessioni da contemplare sono così tanti, e molti di questi combaciano con la magia che è credere in un prodigio che viene per caso o volontà, nel vero o appena oltre i confini del concreto: lì dove la superstizione coincide con l’alchimia; dove il velo tra credere e potere è troppo sottile, e allora che male può fare aprire gli occhi e sognare un po’. Che male può fare chiuderli poi a bordo di un treno, nei pressi delle incognite e nei punti conquistati con fatica, rubati a un gioco sleale e tutto sommato mai definitivi. Perché si può cambiare forma almeno in parte al proprio vivere, mutarne alcune svolte e infelicità, solo credendoci.


Filippo Scotti e Luisa Ranieri in È Stata La Mano di Dio