martedì 28 dicembre 2021
Nothing's Gonna Hurt You Baby
venerdì 3 dicembre 2021
È Stata la Mano di Dio
È stata la Mano di Dio a dire quando fu il tempo di
ridersi la vita addosso, scagliarsela contro come il più agguerrito dei giochi, come la sfida amata più del dirsi "bravi, avete fatto bene, avete fatto tutto
giusto". Vi sono attimi in cui fare male, fare sporco e impreciso per
godersi il passaggio dal nulla al tutto, vale più di ogni regola seguita
passo-passo. Vale la presa di coscienza che rasenta la perfezione perché
finalmente viene e schiarisce. Viene e porge un senso alle cose rimaste sopite da lungo tempo, se non da sempre.
È Stata la Mano di Dio, visto ieri al cinema, porta l’impronta
di un Sorrentino che ha l'abilità di essere carnale, pronto ad esplorare il
mondo che intende raccontare, e non per imitazione. Solo un po' compiaciuto,
forse, per gli effetti speciali che quasi sempre derivano dall'immagine e
dall'effetto che questa porta con sé.
Nel
film, la visione è quella di una Napoli vissuta e tenace, Napoli bella che non
chiede mai: si concede come il più tenero degli amanti, il più audace e
flessuoso, coi suoi odori e le stradine anguste, i cieli che mutano come
l'umore e le esperienze di chi li osserva e intanto vive una manciata di
istanti addossato uno all'altro e non li vede ammucchiarsi fitti-fitti fino a
farsi esistenza compiuta, finita.
La
Napoli del dio Maradona, la fede nel calcio che unisce anche chi non ce l'ha,
perché è sfacciato il talento e il legame che celebra: legame con la terra che
è madre e sovrana, legame che è come le viscere; e il mare tutto intorno altro
non è che sangue che nutre gli organi, li rende capaci di sostenere il corpo di
nascosto: restare fissi e immobili, e da tali muovere tutto il fuori dall'interno.
I personaggi del film hanno una bellezza a tratti dolorosa: la zia Patrizia possiede
la bellezza, non le è soltanto capitata. E se respira, se si muove e guarda un
punto lontano, inafferrabile, lei crea abissi intorno a sé. Abissi di stupore e
quasi adorazione; e di scalpore, perché ciò che è bello e non si può toccare
crea quasi sempre un sentimento sbigottito e ostinato, come una foto sfocata
che racconta l'attimo in cui da fermo il soggetto si è mosso, come per dire
"no, io qui così non ci posso stare". Patrizia è un incanto triste.
Ha gli occhi languidi e di un buio pesto, come la notte. Pure ridendo non celano
il male di una donna che vorrebbe essere altro e non può. E pare sempre così di
passaggio, lei che tutto sommato è coriacea; pare sempre sul punto di togliersi
la vita, specie quando resta sospesa sul ciglio di un pendio scosceso, con
rocce a capitolare nell'infinito blu di un mare da levare il fiato. E invece
lei galleggia, avendo nel cuore un peso di piombo e destando amori grandi che
sono anche un tabù: neppure il nipote Fabietto può sottrarvisi. Sta lì è non la
tocca neppure, la guarda come fosse una dea sconfitta e sinuosa che lascia
indovinare il mistero di accostarsi a una donna per un gioco diverso da quello
dell'infanzia; anche quando è ancora troppo presto per saperlo sul serio.
Fabietto
quando si invaghisce di qualcosa, resta incantato e si direbbe assente: la
bocca schiusa come i pesci quando ingoiano gli ultimi istanti di vita fuori
dall'acqua, e lo sguardo stordito, inebetito, come se tutto fosse troppo a un
certo punto; è un privilegiato che gode della benedizione di sentirsi toccati e
rimestati con forza da tutto ciò che esiste.
Fabietto
è piccolo, vive sotto le ali di una madre imperfetta e luminosa. E un padre
partorito da Servillo, l’amato Servillo che sa sempre il fatto suo. Qui incarna
tutte le sfumature dei papà quando sono belli quasi da far male, perché pregni di
troppi sbagli e frammenti a rendere per paradosso intatto tutto quanto: ogni
sbaglio, ogni tentativo di dire o mostrare affetto, anche se nulla poi va come
si vorrebbe e lo si vede, quel papà, barcamenarsi in lungo e in largo in un
mondo di cose in conflitto eppure stranamente armoniche, e sempre amate.
Fabietto
resta solo pure avendo tanti intorno, all'improvviso. E capisce che a volte, piangere
non è così facile come si vorrebbe. Capisce che si può farlo pure col volto
proprio asciutto, piangere con un nodo in gola colloso, di piombo, che poi si
scioglie a suo piacimento e coglie di sorpresa, destabilizza in ogni modo.
Fabietto
impara cosa accade quando un flusso si muove da un corpo all’altro creando
legami di qualche tipo, reazioni immediatamente fisiche da meccanismi per lo
più mentali: un desiderio che ha la pretesa finta e dolce di insegnare il
futuro, e non è facile che lo si racconti così, affidato a un’accoppiata scomoda,
spinosa. Un ragazzo e una donna dalla bellezza intensa, seppure troppo vecchia per godere di un corpo senza
cogliere nell’atto sessuale la sola tenerezza: per il tempo andato e per quello
agli sgoccioli, per i lunghi capelli che qualcuno prima di allora deve avere a
lungo districato, accarezzato, tenuto stretti tra le mani per giocosa e complice
imposizione. Una donna che sa bene che a volte scordare è un verbo che salva,
uno che bisogna dire a voce alta e con fermezza, per salvarsi da gorghi taciuti
e aguzzi. E lui non vede su di lei le pieghe che prende il corpo, come un pezzo
di stoffa sgualcito eppure amato forte. Non vede le rughe e se le vede non
importa: affonda nel suo vuoto che viene per contrasto; è abisso perché così
dice il corpo di lei se si schiude, ma sanno tutti che al vuoto si contrappone
una pienezza che risiede altrove, e che di pudore ne sa molto, perché è con
quello che lei si difende e si concede per davvero.
L’intero
film è intriso di una certa nostalgia, fortissima pure quando tutti ridono. Nelle
case piene di allegria, con le orecchie drizzate verso il caos dei tifosi a
partita vinta a spezzare il silenzio nelle strade coi cori urlati, festosi, e
gli striscioni bianco-azzurri a sventolare ovunque. Nelle giornate trascorse a
sprofondare nel mare, con al fianco scie fumose di vulcano; e nei ritratti di
una città e di un tempo che non saranno mai uguali: muteranno sempre, come i
ricordi dei giorni felici, nei luoghi felici; sapendo che chi fa luminoso un
tempo e una distanza altro non è che il bene che si scambia chi può.
Gli
scorci e le riflessioni da contemplare sono così tanti, e molti di questi
combaciano con la magia che è credere in un prodigio che viene per caso o
volontà, nel vero o appena oltre i confini del concreto: lì dove la
superstizione coincide con l’alchimia; dove il velo tra credere e potere è
troppo sottile, e allora che male può fare aprire gli occhi e sognare un po’.
Che male può fare chiuderli poi a bordo di un treno, nei pressi delle incognite
e nei punti conquistati con fatica, rubati a un gioco sleale e tutto sommato
mai definitivi. Perché si può cambiare forma almeno in parte al proprio vivere,
mutarne alcune svolte e infelicità, solo credendoci.
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