domenica 31 maggio 2020

Marinai, Profeti e Balene




Coltivare l’interiorità e nel contempo immergersi nelle cose di ogni giorno, è un privilegio e una fatica che bisogna saper indossare. Occorre vagare in lungo e in largo sulla terra conosciuta, saggiare il nuovo, muoversi al suo interno con spirito il più possibile candido, aperto: e così conoscere la profondità in ogni senso, fino al vertice scuro e basso che si tocca molte volte, pur di non restare fedeli alla sola superficie. La disperazione e la complessità, col fardello della consapevolezza che solo dopo molti sforzi si rivela dolce, sono i mezzi necessari alla conoscenza dei propri punti cedevoli, mancanti; e dei nodi irrisolti da lisciare in punta di dita, coi pensieri che danzano nella mente o le intenzioni che si impongono nei giorni più impensati, pronti a svelare la natura originaria e mutevole di ogni essere umano.
Ci si trova a vagare con la fame degli esuli che da sempre sospirano la terra promessa e negata; e con la sete di chi calpesta i luoghi più aridi al mondo, nel centro esatto del poco e del nulla. Si impara a camminare, avendo passi instancabili da muovere sull’orlo dello stretto necessario, sul ciglio delle inconsistenze, dei tentativi vani, dei sogni lasciati marcire. E nel petto un’urgenza che bussa, sconquassa, spezzetta, logora e anima chi la porta, rinvigorisce ciò che è detto e tutto quanto invece resta taciuto, mettendo in bocca ai silenziosi tutti i discorsi sempre pensati, e la certezza che sia giusto pure quello che è sbagliato, certe volte. Soprattutto quando il rischio è non sentire affatto, e la categoria dell’errore e della misura corretta sono solo un miscuglio sbiadito, una cosa senza alcuna sostanza, messa lì per dare spinta a una teoria della colpa usata senza alcun criterio.
Il filo del discorso si intreccia e sorregge, attraversa una vastità di elementi che non si può sempre dire senza darsi prima un ordine, una regola, una compostezza almeno apparente. Il caos è della mente, e la sua espressione più sana e profonda, è la creatività. Quel caos è sistemato bene, vestito a festa oppure immusonito, spigoloso, morbido o sagace, lascivo: è tutto e il suo contrario. Si può soppesare un’energia specifica, e dare a quella una e molte forme. Farsi goccia ripetuta e ipnotica, voce di grotta, sale e malia; oppure ombra nella quale riporsi a contemplare. Proprio questo è ciò che appartiene a Vinicio Capossela: l’ombra, lo scarto, la voce che vibra, recita, graffia, cade nel silenzio con un tonfo sordo. Batte, scarta, gratta via uno strato alla realtà, e deve farlo con braccia nodose, mani come radici robuste, di albero secolare. Lo si immagina come certe creature mitologiche, in Marinai, Profeti e Balene. Come creature che si ridestano da un sonno lungo secoli, che è attivo e partecipe, seppure palesemente inerme; mosso in una dimensione che non può essere solamente umana, di carne e limite. Va ben oltre, infatti, facendo appello alle forze residue, all’immaginazione. Perché la parola serve come l’aria, ma da sola non placa nulla, se resta troppo concreta, fino a farsi negazione ostinata e chiusa da togliere il respiro. E allora bisogna mettere su le branchie, imparare un respiro nuovo, farsi pesce, sirena, riflesso di sole su acque increspate. Avere per casa una conchiglia, una bolla minuscola in un mare sconfinato, e nuotare, galleggiare, mettere piede su un vascello fantasma, sentire scricchiolare le assi di legno e sapere che è stata proprio ieri la prima missione, il viaggio in solitaria, lo sbarco sperduto dei naufraghi, anche se tutto è corroso dal tempo e dall’oblio. Storie di pirati, storie di fantasmi che a volte sono tali pure quando hanno ancora il sangue nelle vene, e in testa la razionalità che serve a scindere la vita viva e impavida, dal genio e dalla malinconia dei sopravvissuti.
Ogni brano di Marinai, Profeti e Balene, è una tappa, un’oasi, una danza circense, l’abisso e il mancato respiro. La lancia del Pelide è la luce ovattata del blu più profondo, la culla e il rimpianto. Il suono basso e nostalgico che si risolleva solo alla fine, per rimescolare destini e malcelate speranze per un amore smesso e i segni da quello ereditati, non necessariamente cattivi e non soltanto lievi. Miele e veleno in dosi improvvisate, e la tenerezza di chi si arrende e non serba alcun rancore.
Pryntyl ha un ritmo pizzicato, ondeggiante, e le atmosfere dei varietà trasferite su un fondo di spuma di mare. Ha per protagonista una sirena improbabile, che fa l’occhiolino al suo dio: un Nettuno che si accorcia solo per sentito dire, e fa di nome Nunù in via del tutto eccezionale. Goliath è un carillon sgraziato, un tendone da circo, la vittima che diventa un fenomeno nel giro di una manciata di istanti: balena senza acque, con interi continenti celati in fondo agli occhi vitrei, il ricordo dell’ultimo respiro ficcato nelle squame come una ferita insanabile, e un colorito non proprio accattivante: la musica stride, incalza, ha un ritmo irregolare, e lo spettacolo prosegue e strega i piccoli, mortali astanti, fino a che non resta che il silenzio, e l’immagine di un pesce grande e offeso, con una manciata di stelle nella pancia come una reliquia: la sua muta e inutile rivalsa.
Billy Budd è una voce sola e affranta, un battito costante e ripetuto, e frammenti di altre voci in coro, ma solo per pochi momenti: una pausa breve tra un racconto e una parentesi rassegnata, una condanna pronunciata da tempo, un inchino alla Signora Morte e presto sarà tutto spento.
L’Oceano oilalà è un canto di marinai, omaggio al mare, all’avventura, alle storie vissute solo in punta di fantasia: una marcia forzuta che insegna a non restare fermi, e rimarca gli itinerari già appresi da Melville in Moby Dick, col cielo che cova le sue tempeste e un languore che risponde al nome del rum: quello che inventa la sete e non la toglie, e intanto pizzica l’umore e accorcia le distanze tra una riva e l’altra, e una casa che sbiadisce insieme alla memoria.
Si scende vertiginosamente, giù dalla nave e dalla cresta dell’onda, in un abisso scuro-scuro. Ci si impiastriccia con l’inchiostro nero-nero di un Polpo d’amor immerso nelle acque, nell’attesa e nello spessore dei dintorni, che restringono istinti e possibilità. La voce di Capossela è un labirinto da percorrere, piano. E piano è il tempo giusto, il modo migliore per raccontare un’inquietudine amorosa, coi sensi vigili e le carezze agognate.














Polpo d’amor è un brano da ascoltare nelle sere d’estate, con la luna sospesa tra cielo e mare, come in un dipinto che insegna la continuità, l’uniformità di sfondo e di colore: la sola coordinata attendibile è il bisogno. L’attesa non si risolve, e quella creatura non può che vagare ancora, con le otto braccia che gli mancano per abbracciare lei, che resta appena abbozzata, immaginata, eppure necessaria: le note sono quasi un fruscio, una carezza, le si balla bene ad occhi chiusi e a piedi nudi. Con le dita, i talloni, le gambe buone per fare invidia alle sirene, i capelli intrecciati dal vento, ornati di conchiglie e stretti da altre mani. Con gli occhi che misurano l’orizzonte un puntino alla volta, le nostalgie strizzate in un granello di sabbia, e i gabbiani che sorreggono sulla curva delle ali, tutto quanto il peso del cielo.



giovedì 28 maggio 2020

Il Favoloso Mondo di Letizia




Il teatro è una cosa che a vedersi non si direbbe mica che siamo così belli, confusi, zoppi nell’animo e dritti nel passo; cupi, veggenti, sani, pesci fuori dall’acqua che sognano l’onda e la spinta degli abissi per tutto il tempo di una vita lunga vent’anni, ottanta, oppure un mucchio di giorni soltanto.
L’attimo che precede i più succosi eventi è quasi sempre gustoso, rivelatore: anticipa il desiderio con buona pace di ogni contenimento. Volere è un imperativo che trapela dagli occhi, dalle mani nervose come quelle della Letizia Forever che viene da Rosario Palazzolo e da lui prende corpo, sostanza ed espressione.
Vi è tutta quanta la Sicilia nelle parole di una donna a tutti gli effetti: donna di tronco, nodosa, donna barbuta così morbida e sfaccettata nel porsi. Si notano e non bastano, le parole dette a perdifiato. Si notano i gesti marcati, le spalle ricurve per difendersi, i cenni bambini che sperano in un’intesa che si può avere solo con le persone intelligenti, che una cultura se la fanno sulle scritte dei giornali, per le strade; e poi tenendo le mani strette sulla pancia perché c’è un dolore che viene da lì ed è sordo, costante: lo chiamano rifiuto, lontananza. Iddi lo direbbero una mancata o errata gestione delle emozioni. Iddi sono quelli che stanno fuori e in alto, quelli che puntano le dita su un caso clinico, mica su una persona. Quelli che però qualche volta e a forza di muovere mani più o meno a casaccio, tirano fuori da chi resta chiuso in un mondo proprio, una musica che poi non la si scorda più.
Ed è proprio la musica che anima Letizia: la stropiccia, la rivolta, e lei la canta e poi soffia via l’aria dai polmoni e morde lo spazio intorno in un flusso di coscienza che non teme stanchezza fino alla fine, quando si ritrae non per negare, ma per un supplizio leggero, l’ennesimo cenno d’intesa raccolto dal pubblico che sa, pur non sapendo con certezza. Le ammissioni sono una cosa inutile, certe volte. Basta ascoltare canzoni che rientrano nel genere amore che piace tanto a Letizia per capire che nei versi nascosti sotto i versi, si concentra ogni verità. Come quando la musica è allegra ma lei intanto racconta la fine di un matrimonio voluto con una forza che con l’età si pensa che possa allentarsi un poco e invece no: Letizia si agita e continua a muovere le mani, a tirare giù l’orlo di un vestito ancora e ancora. Tutto di lei parla, perfino gli occhi che mai si arrendono alla disillusione.
Le note accompagnano i racconti di una Biancaneve senza mela, ed è tutto preso all’inverso: il ruolo del principe appartiene al padre che cade inerte, preda di un incantesimo di fine-vita; e lei lo bacia ma lui fa il duro che non si sveglia, la favola che non riesce.
 
Assisto a questa storia da lontano, la seguo su uno schermo. Aspetto di poterla vedere da vicino, di sospendere il respiro come ho fatto in certi punti anche da qui, commossa in un modo barbuto che si addice alla protagonista: senza lacrime ma dentro e forte, profondamente, come le persone che maneggiano l’icoscio con sapienza.
La parte straordinaria dello spettacolo, insieme a Rosario Palazzolo, è Salvatore Nocera che interpreta con grandezza e semplicità il ruolo assegnatogli. E la commistione di sensazioni che deriva da un’impronta spiccatamente ironica, genuina e gentile nonostante le parole gettate in corsa, parole non forbite ma estremamente alte, perché solo le cretinaggini sono il male vero e quello non è detto si sveli a un primo ascolto.
Letizia commuove, Letizia è saggia, è scomoda, irriverente. Letizia insegna tanto senza saperlo, e deve essere vera da qualche parte, non ha solo un cuore di carta. Letizia è esagerata. Letizia dice che «il fatto è ca iddi vogliono sapere la realtà. Ci interessa solo questo, a iddi, la realtà.
Forza, signora Letizia, ci dica cosa capitò quel nove di marzo millenovecentonovanta? Suo marito l’ammazzò? Lei ammazzò a suo marito? Accetti la realtà, signora Letizia… cosa capitò in realtà?
Come se la realtà fosse una cosa semplice, a raccontalla.
Come se fosse una vita scritta nel Sorriso e Canzone.
No.
Ca la realtà, pi mia, è una cosa troppo incarbugliata ca può essere sottasopra e sottasopra e sottasopra… E come la giriati la giriati, è comunque una cosa.
Ca magari a voialtri vi pare «l’unica cosa», e invece è solo «n’àvotra» cosa.
Ca io, pure a mio figlio Michelino, ce le spiego, queste cose qua, ogni volta che viene.
E difatti, iddu, un poco mi chiama mamma, un poco mi chiama papà…
È confuso…
Proprio come àvi a essere la realtà».



martedì 26 maggio 2020

Sicilian Ghost Story



C’era una volta un corpo in vita e una notte da sviscerare senza sosta, come i discorsi ingoiati troppo a lungo e con l’urgenza che ne viene. C’erano voci, affetti in carne ed ossa da abbracciare, e storie a lieto fine a bussare alle porte del sogno. Qualcuno le ha raccolte in una pellicola del 2017 dal titolo Sicilian Ghost Story: un film generoso nello sguardo offerto ai protagonisti, che trabocca fantasie impilate strette entro un racconto che si ripropone di essere sincero e carezzevole. Come in un imbuto, ogni sguardo e sensazione sono resi visibili, vivibili; e una goccia dopo l’altra corrono e si allargano, riempiendo un bacino più ampio: la narrazione si muove ad occhi chiusi e a respiro contenuto, sotto l’acqua, sotto terra, con il mare che si avverte negli odori e nel blu da perdere la cognizione della realtà presente, anche quando è nascosto oltre le linee ondulate e polverose della terra. Così si esiste, talvolta: di pose arcuate che molleggiano nelle frazioni di un tempo passato, oscillano lievi, si pentono, guardano al futuro come a una cosa allettante che però può aspettare. Tutto appare chiaro come un invito e spaventevole al contempo, dalla prospettiva imprevedibile del bisogno; e rallenta gli addii che non sanno di essere tali fino all'ultimo e raccolgono scorte d’aria e indizi utili alla volontà di resistere alle pieghe inaspettate che prende l’esistenza, certe volte.
Togliere la pelle al vero è quanto di più osceno vi sia, per chi vorrebbe celare ogni verità, cibarsi di opportunismo, saziare la bocca, le mani e gli interessi, ben prima della pancia. In Sicilian Ghost Story i personaggi si muovono come su una tela: chi vive per rinunciare, e chi coi nodi in gola intreccia un canto, sapendo come scioglierli quando serve. Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono l’occhio e l’impronta del regista; una parte di un lavoro minuzioso e attento che ha permesso a chi osserva le vicende già note, di raccogliere un passaggio in più, un’intimità che non è forzata né inopportuna; che vede nascere del buono e lo segue per non scordare che pure nei pressi di ciò che è marcio, qualcosa prima o poi potrà fiorire.
La storia è quella di Luna e Giuseppe: ragazzi adolescenti animati da una Sicilia amata, languida, terra di dei. Ragazzi alle prese con un’identità che dovrebbe restare ben staccata dagli errori e dalle scelte di chi è venuto al mondo prima di loro e ha tentato di cambiarlo con ogni proposito buono o cattivo. Ma è ingiusto destino dei due, quello di sperimentare sulla propria pelle gli errori commessi dai genitori: da una parte, Luna si trova a destreggiarsi tra un amore così forte e nuovo da renderla fiera, coraggiosa, tutta e solo votata a un istinto che ha forze animali e che la ragione non sa moderare. La giovane donna sorride e parla con un gufo che la osserva da vicino tutte le volte che lei trova rifugio nelle parti più basse e nascoste di una casa che non ha calore e colore, e somiglia alla madre che compare in molte scene e resta anonima, tentando invano di curare un’idea di famiglia che non trova sviluppo fuori dalla sua mente. Luna è innamorata di Giuseppe: disegna stelle per lui, e libera parole che cadono nel punto desiderato con precisione millimetrica e tornano alle formule bambine del “mi ami oppure no?”, e “vuoi metterti con me?” con tanto di quadretti marcati a forza sulla carta e crocetta da apporre sopra un sì o un no. Al di là del numero di anni portati, quella sentenza segnava scenari più o meno ampi e sofferti.
Giuseppe la ama, non serve dirlo ma lui lo dice: potrebbe dire tutto, vorrebbe. E lo fa osando baci timidi e sorrisi larghi, rincuoranti, fino a che qualcuno con l’inganno gli sottrae possibilità e visioni future. Giuseppe Di Matteo è stato proprio vero e vivo, non è soltanto immaginario. Ha avuto vita breve e voglie sciolte a perdifiato, ha conosciuto luoghi bui, freddi, distanti da casa: rapito per fare uno sgarro al padre che era un boss mafioso, spera di tornare libero pur sapendo ad un certo punto che nessuno lo avrebbe salvato se non la sua Luna, almeno nei mondi di inchiostro e di sonno. Con l’acqua i due sembrano tornare nel grembo materno, regredire e rinascere. Nell’acqua trovano un passaggio segreto che li fa guarire nelle ferite del corpo, nella memoria offesa e nelle promesse smezzate senza colpa, protese senza soluzione. Rinchiuso lui e rinchiusa lei, in un tempo di magre consolazioni e tentativi inutili di tornare a casa insieme sulle gambe e in corsa, mano nella mano.
Perfino quando il corpo si dissolve, il ricordo resta intatto. Lo spiega bene un film che in ogni punto tiene in caldo l’emotività, la luce densa, i colori vivi come le speranze, a dispetto della morte venuta a rubare il passo a chi voleva esserci. Un germoglio di quello che era continuerà ad esistere, mentre qualcuno affiderà a un disegno sul muro, un passaggio tanto lungo e la pozione imbattuta delle rivoluzioni migliori.



domenica 24 maggio 2020

Quasi Tutto (verde, meraviglioso e) Velocissimo



Bisogna mettersi in viaggio anche da fermi per leggere le storie più belle. Mettersi in scatola, in barattolo, al chiuso di una stanza e luccicare, lasciare tutto fuori e tornare a un momento felice solo per dilatarlo: sul ciglio di una strada e in bilico tra i fossi, a fare piano per non calpestare le viole, a scacciare le mosche nei pressi di montagnole di bucce di frutta lasciate marcire; storcere il naso e correre più in là per inseguire una fantasia, un profumo, la consistenza indicibile della meraviglia quando fa il solletico alla pianta dei piedi e non fa stare fermi.
Quasi tutto velocissimo è un libro edito da Keller che fa di queste magie. E Christopher Kloeble è abile nell’intrecciare una trama che non risulta forzata neppure in un punto: si dipana lungo molte pagine che hanno un peso di piuma e consentono di restare a dir poco estasiati per tutto come direbbe Fred, che è forse il più tenero tra i personaggi che io abbia mai incontrato. L’ingenuità di chi coglie la bellezza nei luoghi più impensati, celebrandola con gli slanci di un bambino, pizzica gli angoli della bocca e si deve sorridere di rimando perché è quella la risposta: alle attese vane, ai giorni che passano e a quelli che restano. Esistere è un gioco che viene dalle mani. Restare due dita su questa terra è tanto; cinque dita è tantissimo. E addirittura otto dita è una cosa fenomenale: quanti fiumi si possono toccare, quante volte il cielo con un dito? quanti i brividi per l’amore da togliere il sonno, l’amore tutto rovi, l’amore sui prati o sopra un letto? è grande almeno mille dita il bene che Fred vuole ad Albert che è solo un ragazzo, eppure sembra lui il padre, il fratello, l’amico e complice. Albert si immagina presto con capelli folti e occhi di lago, mentre conta i minuti che restano a Fred che porta addosso una malattia che trapela tra le righe, emerge appena nei discorsi, perché è delicato così; perché avere cura dei mali altrui non conosce solo formule chimiche, non solo mani giunte ad alleviare il dolore, ma anche una lieve sospensione e il gusto per l’ironia. Albert non conosce la madre. Di lei ha una collezione di tratti del volto e reazioni immaginate, diluiti in fantasie di incontri improbabili; e un unico capello rosso che le apparteneva e che lui porta con sé come il più valido e prezioso amuleto. Albert scopre il valore mutevole delle cose mentre si affaccia al mondo, conoscendo l’altro in senso profondo oppure velocissimo: chi si sfiora si rivela, ed è un bene che viene di riflesso da più parti; è un dono che non si può ignorare, che cambia chi lo conserva e chi lo rilascia: nel tempo si saprà che non vi è àncora che tenga fissa l’onda che vuole andare. Che l’amore vero è quello che verrà domani, non c’è fretta se c’è incanto. E che l’affetto che prova un figlio verso chi lo crea e lo sostiene, sa di marmellata di lampone e di appigli di forma e sostanza cangiante e non necessariamente odorosi, che sono mappe segrete per una felicità imperfetta e magnifica da custodire nel cuore dei giorni.

[…] Albert si sedette vicino a Fred, che stava tutto raggomitolato sul volante. La sua barba ispida scintillava alla luce del sole. Sulle ginocchia teneva il dizionario, aperto alla lettera "M". "M" di morte. Con il dito indica l'immagine di una lapide in marmo di Carrara. «Che colore è questo?»
«Bianco colomba?»
«Esisterà anche in bianco cigno?»
«Senz'altro».«Posso averne una così?»
«Una lapide bianco cigno?»
Fred annui. «Voglio una lapide stupenda, Albert».
«D'accordo» disse Albert. «Avrai una lapide bianco cigno».
Per un attimo rimasero in silenzio e mentre il rumore delle auto sulla strada principale si affievoliva e il sole li accecava un'ultima volta prima di immergersi nella torbiera, Fred contemplò trasognato l'immagine della lapide. «Tutti dicono che morire è brutto. Io però mi sono fatto un'idea diversa. Non sarà brutto, ne sono certo. Secondo me sarà fantastico. Tipo una sorpresa gigantesca. Anzi, non vedo l'ora che succeda. Sarebbe meglio se potessimo morire insieme, Albert. Ma la vedo dura. Io sono più veloce».
«Cercherò di sbrigarmi» promise Albert e subito Fred lo guardò con aria raggiante, come un bambino troppo cresciuto con le borse sotto gli occhi, le tempie ingrigite e la bocca circondata da minuscole rughe. Poi il sorriso di Fred svanì: «La mia mammina dice che tutti i beni più preziosi prima o poi muoiono». Aveva cambiato tono, come se si fosse ricordato solo in quell'istante cosa significasse davvero morire.
«E cosa sarebbe un bene più prezioso?» chiese Albert. Fred rise, come se quella domanda fosse di una stupidità disarmante: «Un bene più prezioso può essere qualunque cosa!»

Il bene più prezioso talvolta coincide con il primo, secondo e terzo amore. Con le origini in senso stretto oppure tanto lungo da risalire ai giorni più antichi, alle forme del bene che a volte sono persino illecite eppure impetuose e così giuste, se coniugate coi verbi imperfetti dell’appartenenza.


lunedì 18 maggio 2020

Alfabeto Mondo, Romanzo Abbecedario





Il vento gonfia le tende sui balconi come le vele dei marinai. Nessuno grida terra, qui. Semmai bisbiglia mare, mare piccino, mare dalle finestre, mare abbottonato su un ritaglio di cielo. Gli occhielli sono le ali dei gabbiani, le nubi sfilacciate, abbracciate dalle spinte poderose di un’aria che non si può vedere. Io mi pento di non essere acqua, di non essere volo, certe volte. Perciò mi immergo e mi schianto in letture che mi accolgono per contrasto con dolcezza e malinconie amiche e sorelle: io che di sorelle non ne ho trovo nelle parole le più potenti alleate, gli scontri salvifici. E siccome avevo voglia di non restare coi piedi per terra sono andata via, ho preso casa nelle parole di una persona che scrive, di uno che si sporca con la fantasia: lo cogli con le mani in pasta e lui ride perché sporcarsi è bello, i bambini si sporcano sempre e allora deve essere giusto. Tito Pioli narra le storie perché lo abitano, si sente; e non è uno da moine: lo si trova tra le pieghe dei sorrisi, non ha mica paura di usarli. L’ho conosciuto una sera che metteva riflessi argentini tra le parole: belle quelle degli altri, lontane e vicine ai miei impacci. Per le stradine di Parma, stradine liquide intinte nelle luci d’ambra dei lampioni, osservavo il pietrisco, le case lavate dall’acqua piovuta dal cielo, i passi come rintocchi d’orologio a segnare un tempo veloce, un tempo di cose nuove. Vorrei vivere di felicità simili che non esagerano con la pretesa di cose grandiose, ma conoscono quel nuovo, ciò che per altri è usuale. E allora anche chi vede le cose col vizio dell’abitudine scopre che forse non è proprio tutto lì, quello che c’è da amare. Forse tra gli strati del sonno, della noia e delle incombenze, ecco spuntare un momento di assoluta perfezione; come chi sente di esserci, finalmente: e perché mai se ne era scordato fino ad allora?

Tito è una presenza pacata, cordiale; e si muove sottovoce, sottovento: sotto, come in una parte del suo “Alfabeto mondo, romanzo abbecedario”, segnalato al Premio Calvino nel 2015. Le pagine corrono liquide, le si vorrebbe fermare. Le lettere dell’alfabeto si presentano di volta in volta: ciascuna di quelle contiene un micro-mondo. Un’esistenza fatta di Armonie e di Assenze, di Bagni pubblici e di Cattiverie. Fatti Vivo è una preghiera senza recita. Giardini sul Tuo Corpo rivede ogni coordinata: bastano nei come costellazioni, dita che hanno appreso e poi scordato ogni esitazione. Serve che si accordi il respiro al respiro, poiché quello frena se è tempo di ridiscendere i pendii delle cosce, dei seni, dell’incavo del collo: come si fa altrimenti a bagnarsi nelle piccole conche sulle clavicole, e a sapere che sono mature le labbra come un frutto, come le gote, come il tempo per osare? In Fondo c’è un uomo che sa stare fra gli ultimi e non gli pesa, uno che non smania, uno che contempla. Il Letto lo avrebbe amato Orwell: è un campo di battaglia, un campo di speranze arse come spighe baciate dal sole. Con Madre allo Specchio si piangono lacrime di lago e di cascata, ma si piangono pure lacrime asciutte e segrete. Gli Occhi di Egon Schiele sono l’arte, l’amore, i grovigli, le voglie come non le si vedono mai con gli occhi nostri: occhi di umani bassi, paffuti, occhi di facce spente coi sogni logori a ingobbire. E le puttane sanno storie incredibili, a quanto le dovrebbero vendere le parole? Poi c’è una Truccatrice di Morti che fa come i gatti: si muove tra due mondi, non teme i confini. Gode senza pudore, senza assurdo, senza inganno. Se mi cercate, mi troverete tra Zebre e Ladri: ho scoperto una parte di me e sulla carta la amo. Ma solo sulla carta, fuori è un altro mondo.

Tito ha gli occhi azzurro cielo, azzurro acqua, azzurro da chi si ferma è perduto, e infatti chi lo legge sa bene che lui non si ferma mai e sente pure il solletico dei fiori che crescono nella pancia della terra. Invece i miei occhi sono terrosi, anche se al sole lambiscono tinte d’ambra e di miele. Quando parlo con il caro Pioli, mi vengono in testa cose sconfinate. Ma ho parole piccole tipo:

È vero che sei il cappellaio matto, Tito? E se non sei lui, dimmi: quando è stata l’ultima volta che ne hai visto uno?

Il Cappellaio Matto era Mario Tommasini di Parma che ha speso la sua vita per la chiusura dei manicomi e perché fossero integrati nella nostra società. Quella è la pazzia, avere il coraggio delle rivoluzioni.

Dimmi una cosa da pazzi, come quando in Alfabeto Mondo scrivi: «C'era crisi sulla terra, di sesso, di soldi, di tutto e allora bisognava andare nei cessi pubblici a cercare qualche sorpresa, a me piacevano le ragazze ma adesso andava bene tutto, maschio, femmina, e l'importante era come si spogliavano, mica culi, tette, bocche, era come si spogliavano». Come ci si spoglia, voglio sapere. Se siamo ancora capaci di vederci oltre la carne, se non siamo pelle rinsecchita, pelle di abito e non più pelle di fiore, pelle di luna. Possibile che uno si spogli parlando? Esiste mica un galateo da infliggersi per queste cose qui?

Si le tue domande sono più folli del libro. Ci sono molti modi per spogliarsi credo infiniti nei gesti se uno li guarda al replay ci si può spogliare anche cantando o pregando una volta con una mia amica ci siamo spogliati parlando in latino. Il brano per modo di dire è il brano più importante perché i veri grandi poteri li hanno le persone con dei problemi mentali o sociali o fisici.

Si può dire che i grandi poteri si nutrono di disperazione? E che sbaglia di grosso chi sostiene che quest’ultima sia una spinta alla vita più che alla morte? Vedi il Colonnello Nanetti, uno solo tra gli esempi che potrei farti. Lui si è spinto fin nello spazio pure avendo le mani legate, la mente, il corpo offeso da leggi non sue. Qual è il tuo potere? E dove ti porta?

Le grandi opere nascono da grandi drammi. Io non ho poteri sono solo curioso guardo a quello che non c’è.

Chiudiamo in bellezza e senza troppo pensare: mi dici una poesia, un dipinto e una canzone che ti sono cari? Dentro o fuori da questo abbecedario, scegli tu.

Marilyn di Pasolini, la Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio, Gracias a la Vida.

 

 


giovedì 14 maggio 2020

La Dialettica Della Ragione





Mi occorrono e corrono molte cose in mente, anche quando non mi presto attenzione. Il giorno pullula di minuti famelici che si dilatano instancabili fino a farsi la sostanza delle ore e a saziare l’appetito di un tempo sornione che si appiattisce tra gli strati di cose gettate alla rinfusa tra disattenzioni ostinate. Per questo lui passa e noi lo sappiamo sempre troppo tardi; passa e tentiamo di ammazzarlo ma quello ha tante vite, troppe più dei gatti, e bisogna tenerselo stretto.

Ho infilato il naso in un saggio edito da Divergenze: La Dialettica della Ragione di Sergio Pandolfo è stato il mio tempo speso bene, la mia sorpresa felice. Ho mescolato gli occhi all’entusiasmo essenziali entrambi, attenti e ripetuti. Poiché vi sono libri che si lasciano leggere e sospirare, libri che divertono. E libri come questo che segue il percorso del sociologo, filosofo e musicologo Theodor W. Adorno, che bisogna leggere con attenzione piena, vivace, per sentire qualcosa sfrigolare e risvegliarsi. Un saggio per tenere allenato il pensiero e dilatarlo, saperlo in grado di saldare tutti coi piedi per terra, mostrando quale filo seguono le radici umane e dove questo si aggroviglia e gonfia le tasche appesantendo i passi. Chi legge sta lì, confronta e pensa, sviluppa riflessioni critiche e muove un mondo di cose sotterranee e fulgide, camuffate da altri con finte urgenze, per comodità: il pensiero libero e cosciente fa tremare le leggi non scritte degli oppressori. E affila l’ingegno dei cittadini di un mondo plasmato su misura di pochi, e appartenente a tutti e con uguali risorse solo in potenziale. Chi si stacca dalla forme uniche, buone solo ad appiattire estro e personalità, apprezza il suono che risale gli ostacoli delle verità celate dietro ricatti subdoli e bisogni costruiti ad hoc: verità guaste date in pasto ai dormienti. Ma a volte basta proprio leggere, seguire il dipanarsi di un discorso lucido, con ogni spunto buono da sviluppare. Perché il saggio confezionato da Pandolfo come un dono perfettamente riuscito, tocca argomenti vasti che non possono terminare lì dove sovviene un punto fra tanti. E chi come me non sa, potrà sapere. Potrà usare una frase come trampolino, seguire la bibliografia con lo spirito dei corsari in cerca del tesoro: dedurre, dipanare, ringraziare il pensiero razionale venuto per scintilla e ispirazione, che è una manna per chi come me ha quasi sempre la testa fra le nuvole ma ancora raccoglie le differenze tra le cose e le persone, i colori, le predisposizioni; e si intrufola tra le maglie di una cultura che non deve scendere a compromessi pur di rassicurare: la sfida è sfidare la stasi eccessiva, sporgersi, fiutare il nuovo. E non temere di usare la diversità, non renderla bassa, cupa e inutile, schiacciata dai soliti tabù. Chi è diverso non può che arricchire e arricchirsi, trovare nelle differenze le conferme che cerca, quando pensa che niente è finito fino a che non ci sentiamo finiti noi stessi.
 
O più precisamente, con le parole di Adorno e poi di Pandolfo:
 
Quando si attesta al negro che è perfettamente identico al bianco, mentre di fatto non lo è, gli si fa, in segreto, ancora una volta torto. Lo si umilia amichevolmente confrontandolo a un criterio rispetto al quale, sotto la pressione del sistema, si rivelerà necessariamente inferiore: e mostrarsi alla sua altezza sarebbe un merito assai dubbio.
 
(Da Minima Moralia, aforisma 66: Mélange, pp. 114-115).
 
«Dicendo che il negro è come il bianco, si sta applicando il paradigma della dialettica hegeliana: tesi, l’uomo bianco è il modello; l’antitesi, il negro è differente da quel modello; sintesi, il negro va commisurato al bianco, in base al principio di identificazione, per cui la differenza va ricondotta ad unità. Ma in tal modo, al negro si è fatto il torto di non riconoscerlo meritevole di tutela in quanto tale: in quanto negro, appunto, e dunque diverso dall’uomo bianco. Proprio a questo vorrebbe porre rimedio Adorno, arrestando il movimento dialettico al secondo momento: la differenza (o il «non-identico») va riconosciuta come irriducibile a un modello, come meritevole di tutela di per sé e non perché assimilabile al soggetto (all’identico). Stesso discorso vale per le altre differenze. La donna, ad esempio, in quanto differenza per eccellenza rispetto all’uomo. Quando si dice che è come l’uomo, le si sta facendo torto, e non la si sta riconoscendo meritevole di tutela in quanto tale. Nel secondo excursus annesso al primo saggio della Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer dedicano spazio alla questione. Nella storia dell’umanità l’«illuminismo» ha cercato di nobilitare la donna, ma essa ha sempre dovuto pagare uno scotto, ed è stata vessata proprio in quanto differente dall’uomo. Il cristianesimo ha cercato di compensare ideologicamente l’oppressione della donna con il rispetto verso di essa, ridestando – attraverso il culto della Vergine – il ricordo delle condizioni arcaiche, delle antiche società matriarcali in cui le donne godevano di un ruolo e di un prestigio notevoli. M questo tentativo di nobilitare la donna è pagato col risentimento verso di essa, un risentimento che si traduce, in linea storica, nei processi contro le streghe del periodo premoderno. È un ottimo esempio di come l’«illuminismo» si ribalti nella barbarie».
 
Cosa ho ascoltato a fine lettura: https://www.youtube.com/watch?v=U-pVz2LTakM&t=923s