domenica 31 maggio 2020
Marinai, Profeti e Balene
Coltivare
l’interiorità e nel contempo immergersi nelle cose di ogni giorno, è un
privilegio e una fatica che bisogna saper indossare. Occorre vagare in lungo e
in largo sulla terra conosciuta, saggiare il nuovo, muoversi al suo interno con
spirito il più possibile candido, aperto: e così conoscere la profondità in
ogni senso, fino al vertice scuro e basso che si tocca molte volte, pur di non
restare fedeli alla sola superficie. La disperazione e la complessità, col
fardello della consapevolezza che solo dopo molti sforzi si rivela dolce, sono
i mezzi necessari alla conoscenza dei propri punti cedevoli, mancanti; e dei
nodi irrisolti da lisciare in punta di dita, coi pensieri che danzano nella
mente o le intenzioni che si impongono nei giorni più impensati, pronti a
svelare la natura originaria e mutevole di ogni essere umano.
giovedì 28 maggio 2020
Il Favoloso Mondo di Letizia
Il
teatro è una cosa che a vedersi non si direbbe mica che siamo così belli,
confusi, zoppi nell’animo e dritti nel passo; cupi, veggenti, sani, pesci fuori
dall’acqua che sognano l’onda e la spinta degli abissi per tutto il tempo di
una vita lunga vent’anni, ottanta, oppure un mucchio di giorni soltanto.
L’attimo
che precede i più succosi eventi è quasi sempre gustoso, rivelatore: anticipa
il desiderio con buona pace di ogni contenimento. Volere è un imperativo che trapela
dagli occhi, dalle mani nervose come quelle della Letizia Forever che viene da Rosario Palazzolo e da lui prende
corpo, sostanza ed espressione.
Vi è
tutta quanta la Sicilia nelle parole di una donna a tutti gli effetti: donna di
tronco, nodosa, donna barbuta così morbida e sfaccettata nel porsi. Si notano e
non bastano, le parole dette a perdifiato. Si notano i gesti marcati, le spalle
ricurve per difendersi, i cenni bambini che sperano in un’intesa che si può
avere solo con le persone intelligenti, che una cultura se la fanno sulle
scritte dei giornali, per le strade; e poi tenendo le mani strette sulla pancia
perché c’è un dolore che viene da lì ed è sordo, costante: lo chiamano rifiuto,
lontananza. Iddi lo direbbero una mancata
o errata gestione delle emozioni. Iddi
sono quelli che stanno fuori e in alto, quelli che puntano le dita su un caso
clinico, mica su una persona. Quelli che però qualche volta e a forza di
muovere mani più o meno a casaccio, tirano fuori da chi resta chiuso in un
mondo proprio, una musica che poi non la si scorda più.
Ed è
proprio la musica che anima Letizia: la stropiccia, la rivolta, e lei la canta
e poi soffia via l’aria dai polmoni e morde lo spazio intorno in un flusso di
coscienza che non teme stanchezza fino alla fine, quando si ritrae non per
negare, ma per un supplizio leggero, l’ennesimo cenno d’intesa raccolto dal
pubblico che sa, pur non sapendo con certezza. Le ammissioni sono una cosa
inutile, certe volte. Basta ascoltare canzoni che rientrano nel genere amore che piace tanto a Letizia
per capire che nei versi nascosti sotto i versi, si concentra ogni verità. Come
quando la musica è allegra ma lei intanto racconta la fine di un matrimonio
voluto con una forza che con l’età si pensa che possa allentarsi un poco e
invece no: Letizia si agita e continua a muovere le mani, a tirare giù l’orlo
di un vestito ancora e ancora. Tutto di lei parla, perfino gli occhi che mai si
arrendono alla disillusione.
Le
note accompagnano i racconti di una Biancaneve senza mela, ed è tutto preso all’inverso:
il ruolo del principe appartiene al padre che cade inerte, preda di un
incantesimo di fine-vita; e lei lo bacia ma lui fa il duro che non si sveglia, la favola che non riesce.
Assisto
a questa storia da lontano, la seguo su uno schermo. Aspetto di poterla vedere
da vicino, di sospendere il respiro come ho fatto in certi punti anche da qui,
commossa in un modo barbuto che si addice alla protagonista: senza lacrime ma
dentro e forte, profondamente, come le persone che maneggiano l’icoscio con sapienza.
La
parte straordinaria dello spettacolo, insieme a Rosario Palazzolo, è Salvatore
Nocera che interpreta con grandezza e semplicità il ruolo assegnatogli. E la
commistione di sensazioni che deriva da un’impronta spiccatamente ironica,
genuina e gentile nonostante le parole gettate in corsa, parole non forbite ma
estremamente alte, perché solo le cretinaggini
sono il male vero e quello non è detto si sveli a un primo ascolto.
Letizia
commuove, Letizia è saggia, è scomoda, irriverente. Letizia insegna tanto senza
saperlo, e deve essere vera da qualche parte, non ha solo un cuore di carta.
Letizia è esagerata. Letizia dice che «il
fatto è ca iddi vogliono sapere la realtà. Ci interessa solo questo, a iddi, la
realtà.
Forza, signora Letizia, ci dica
cosa capitò quel nove di marzo millenovecentonovanta? Suo marito l’ammazzò? Lei
ammazzò a suo marito? Accetti la realtà, signora Letizia… cosa capitò in
realtà?
Come se
la realtà fosse una cosa semplice, a raccontalla.
Come
se fosse una vita scritta nel Sorriso e Canzone.
No.
Ca la
realtà, pi mia, è una cosa troppo incarbugliata ca può essere sottasopra e
sottasopra e sottasopra… E come la giriati la giriati, è comunque una cosa.
Ca
magari a voialtri vi pare «l’unica
cosa», e invece è solo «n’àvotra» cosa.
Ca
io, pure a mio figlio Michelino, ce le spiego, queste cose qua, ogni volta che
viene.
E
difatti, iddu, un poco mi chiama mamma, un poco mi chiama papà…
È confuso…
Proprio
come àvi a essere la realtà».
martedì 26 maggio 2020
Sicilian Ghost Story
C’era
una volta un corpo in vita e una notte da sviscerare senza sosta, come i
discorsi ingoiati troppo a lungo e con l’urgenza che ne viene. C’erano
voci, affetti in carne ed ossa da abbracciare, e storie a lieto fine a bussare
alle porte del sogno. Qualcuno le ha raccolte in una pellicola del 2017 dal titolo Sicilian Ghost Story: un film generoso nello sguardo offerto ai
protagonisti, che trabocca fantasie impilate strette entro un racconto che si
ripropone di essere sincero e carezzevole. Come in un imbuto, ogni sguardo e
sensazione sono resi visibili, vivibili; e una goccia dopo l’altra corrono e si
allargano, riempiendo un bacino più ampio: la narrazione si muove ad occhi
chiusi e a respiro contenuto, sotto l’acqua, sotto terra, con il mare che si
avverte negli odori e nel blu da perdere la cognizione della realtà presente,
anche quando è nascosto oltre le linee ondulate e polverose della terra. Così
si esiste, talvolta: di pose arcuate che molleggiano nelle frazioni di un tempo
passato, oscillano lievi, si pentono, guardano al futuro come a una cosa
allettante che però può aspettare. Tutto appare chiaro come un invito e
spaventevole al contempo, dalla prospettiva imprevedibile del bisogno; e rallenta gli addii che non sanno di essere tali fino all'ultimo e raccolgono scorte d’aria e indizi utili alla volontà di resistere alle
pieghe inaspettate che prende l’esistenza, certe volte.
Togliere
la pelle al vero è quanto di più osceno vi sia, per chi vorrebbe celare ogni
verità, cibarsi di opportunismo, saziare la bocca, le mani e gli interessi, ben
prima della pancia. In Sicilian Ghost
Story i personaggi si muovono come su una tela: chi vive per rinunciare, e
chi coi nodi in gola intreccia un canto, sapendo come scioglierli quando serve.
Fabio Grassadonia e Antonio Piazza sono l’occhio e l’impronta del regista; una parte
di un lavoro minuzioso e attento che ha permesso a chi osserva le vicende già
note, di raccogliere un passaggio in più, un’intimità che non è forzata né
inopportuna; che vede nascere del buono e lo segue per non scordare che pure
nei pressi di ciò che è marcio, qualcosa prima o poi potrà fiorire.
La
storia è quella di Luna e Giuseppe: ragazzi adolescenti animati da una Sicilia
amata, languida, terra di dei. Ragazzi alle prese con un’identità che dovrebbe
restare ben staccata dagli errori e dalle scelte di chi è venuto al
mondo prima di loro e ha tentato di cambiarlo con ogni proposito buono o
cattivo. Ma è ingiusto destino dei due, quello di sperimentare sulla propria
pelle gli errori commessi dai genitori: da una parte, Luna si trova a
destreggiarsi tra un amore così forte e nuovo da renderla fiera, coraggiosa,
tutta e solo votata a un istinto che ha forze animali e che la ragione non sa
moderare. La giovane donna sorride e parla con un gufo che la osserva da vicino
tutte le volte che lei trova rifugio nelle parti più basse e nascoste di una
casa che non ha calore e colore, e somiglia alla madre che compare in molte
scene e resta anonima, tentando invano di curare un’idea di famiglia che non
trova sviluppo fuori dalla sua mente. Luna è innamorata di Giuseppe: disegna
stelle per lui, e libera parole che cadono nel punto desiderato con precisione
millimetrica e tornano alle formule bambine del “mi ami oppure no?”, e “vuoi
metterti con me?” con tanto di quadretti marcati a forza sulla carta e crocetta
da apporre sopra un sì o un no. Al di là del numero di anni portati, quella
sentenza segnava scenari più o meno ampi e sofferti.
Giuseppe
la ama, non serve dirlo ma lui lo dice: potrebbe dire tutto, vorrebbe. E lo fa
osando baci timidi e sorrisi larghi, rincuoranti, fino a che qualcuno con
l’inganno gli sottrae possibilità e visioni future. Giuseppe Di Matteo è stato
proprio vero e vivo, non è soltanto immaginario. Ha avuto vita breve e voglie sciolte
a perdifiato, ha conosciuto luoghi bui, freddi, distanti da casa: rapito per
fare uno sgarro al padre che era un boss mafioso, spera di tornare libero pur
sapendo ad un certo punto che nessuno lo avrebbe salvato se non la sua Luna,
almeno nei mondi di inchiostro e di sonno. Con l’acqua i due sembrano tornare
nel grembo materno, regredire e rinascere. Nell’acqua trovano un passaggio
segreto che li fa guarire nelle ferite del corpo, nella memoria offesa e nelle
promesse smezzate senza colpa, protese senza soluzione. Rinchiuso lui e rinchiusa
lei, in un tempo di magre consolazioni e tentativi inutili di tornare a casa
insieme sulle gambe e in corsa, mano nella mano.
Perfino
quando il corpo si dissolve, il ricordo resta intatto. Lo spiega bene un film
che in ogni punto tiene in caldo l’emotività, la luce densa, i colori vivi come
le speranze, a dispetto della morte venuta a rubare il passo a chi voleva
esserci. Un germoglio di quello che era continuerà ad esistere, mentre qualcuno affiderà a un disegno sul muro, un passaggio tanto lungo e la pozione imbattuta delle
rivoluzioni migliori.
domenica 24 maggio 2020
Quasi Tutto (verde, meraviglioso e) Velocissimo
[…] Albert si sedette vicino a
Fred, che stava tutto raggomitolato sul volante. La sua barba ispida
scintillava alla luce del sole. Sulle ginocchia teneva il dizionario, aperto
alla lettera "M". "M" di morte. Con il dito indica
l'immagine di una lapide in marmo di Carrara. «Che colore è questo?»
«Bianco colomba?»
«Esisterà anche in bianco cigno?»
«Senz'altro».«Posso averne una così?»
«Una lapide bianco cigno?»
Fred annui. «Voglio una lapide
stupenda, Albert».
«D'accordo» disse Albert. «Avrai
una lapide bianco cigno».
Per un attimo rimasero in silenzio
e mentre il rumore delle auto sulla strada principale si affievoliva e il sole
li accecava un'ultima volta prima di immergersi nella torbiera, Fred contemplò
trasognato l'immagine della lapide. «Tutti dicono che morire è
brutto. Io però mi sono fatto un'idea diversa. Non sarà brutto, ne sono certo.
Secondo me sarà fantastico. Tipo una sorpresa gigantesca. Anzi, non vedo l'ora
che succeda. Sarebbe meglio se potessimo morire insieme, Albert. Ma la vedo
dura. Io sono più veloce».
«Cercherò di sbrigarmi» promise
Albert e subito Fred lo guardò con aria raggiante, come un bambino troppo cresciuto
con le borse sotto gli occhi, le tempie ingrigite e la bocca circondata da
minuscole rughe. Poi il sorriso di Fred svanì: «La
mia mammina dice che tutti i beni più preziosi prima o poi muoiono». Aveva
cambiato tono, come se si fosse ricordato solo in quell'istante cosa
significasse davvero morire.
«E cosa sarebbe un bene più
prezioso?» chiese Albert. Fred rise, come se quella domanda
fosse di una stupidità disarmante: «Un bene più prezioso può essere qualunque
cosa!»
lunedì 18 maggio 2020
Alfabeto Mondo, Romanzo Abbecedario
Il vento gonfia le tende sui balconi come le vele dei marinai. Nessuno grida terra, qui. Semmai bisbiglia mare, mare piccino, mare dalle finestre, mare abbottonato su un ritaglio di cielo. Gli occhielli sono le ali dei gabbiani, le nubi sfilacciate, abbracciate dalle spinte poderose di un’aria che non si può vedere. Io mi pento di non essere acqua, di non essere volo, certe volte. Perciò mi immergo e mi schianto in letture che mi accolgono per contrasto con dolcezza e malinconie amiche e sorelle: io che di sorelle non ne ho trovo nelle parole le più potenti alleate, gli scontri salvifici. E siccome avevo voglia di non restare coi piedi per terra sono andata via, ho preso casa nelle parole di una persona che scrive, di uno che si sporca con la fantasia: lo cogli con le mani in pasta e lui ride perché sporcarsi è bello, i bambini si sporcano sempre e allora deve essere giusto. Tito Pioli narra le storie perché lo abitano, si sente; e non è uno da moine: lo si trova tra le pieghe dei sorrisi, non ha mica paura di usarli. L’ho conosciuto una sera che metteva riflessi argentini tra le parole: belle quelle degli altri, lontane e vicine ai miei impacci. Per le stradine di Parma, stradine liquide intinte nelle luci d’ambra dei lampioni, osservavo il pietrisco, le case lavate dall’acqua piovuta dal cielo, i passi come rintocchi d’orologio a segnare un tempo veloce, un tempo di cose nuove. Vorrei vivere di felicità simili che non esagerano con la pretesa di cose grandiose, ma conoscono quel nuovo, ciò che per altri è usuale. E allora anche chi vede le cose col vizio dell’abitudine scopre che forse non è proprio tutto lì, quello che c’è da amare. Forse tra gli strati del sonno, della noia e delle incombenze, ecco spuntare un momento di assoluta perfezione; come chi sente di esserci, finalmente: e perché mai se ne era scordato fino ad allora?
Tito è una presenza pacata, cordiale; e si muove sottovoce, sottovento: sotto, come in una parte del suo “Alfabeto mondo, romanzo abbecedario”, segnalato al Premio Calvino nel 2015. Le pagine corrono liquide, le si vorrebbe fermare. Le lettere dell’alfabeto si presentano di volta in volta: ciascuna di quelle contiene un micro-mondo. Un’esistenza fatta di Armonie e di Assenze, di Bagni pubblici e di Cattiverie. Fatti Vivo è una preghiera senza recita. Giardini sul Tuo Corpo rivede ogni coordinata: bastano nei come costellazioni, dita che hanno appreso e poi scordato ogni esitazione. Serve che si accordi il respiro al respiro, poiché quello frena se è tempo di ridiscendere i pendii delle cosce, dei seni, dell’incavo del collo: come si fa altrimenti a bagnarsi nelle piccole conche sulle clavicole, e a sapere che sono mature le labbra come un frutto, come le gote, come il tempo per osare? In Fondo c’è un uomo che sa stare fra gli ultimi e non gli pesa, uno che non smania, uno che contempla. Il Letto lo avrebbe amato Orwell: è un campo di battaglia, un campo di speranze arse come spighe baciate dal sole. Con Madre allo Specchio si piangono lacrime di lago e di cascata, ma si piangono pure lacrime asciutte e segrete. Gli Occhi di Egon Schiele sono l’arte, l’amore, i grovigli, le voglie come non le si vedono mai con gli occhi nostri: occhi di umani bassi, paffuti, occhi di facce spente coi sogni logori a ingobbire. E le puttane sanno storie incredibili, a quanto le dovrebbero vendere le parole? Poi c’è una Truccatrice di Morti che fa come i gatti: si muove tra due mondi, non teme i confini. Gode senza pudore, senza assurdo, senza inganno. Se mi cercate, mi troverete tra Zebre e Ladri: ho scoperto una parte di me e sulla carta la amo. Ma solo sulla carta, fuori è un altro mondo.
Tito ha gli occhi azzurro cielo, azzurro acqua, azzurro da chi si ferma è perduto, e infatti chi lo legge sa bene che lui non si ferma mai e sente pure il solletico dei fiori che crescono nella pancia della terra. Invece i miei occhi sono terrosi, anche se al sole lambiscono tinte d’ambra e di miele. Quando parlo con il caro Pioli, mi vengono in testa cose sconfinate. Ma ho parole piccole tipo:
È vero che sei il cappellaio matto, Tito? E se non sei lui, dimmi: quando è stata l’ultima volta che ne hai visto uno?
Il Cappellaio Matto era Mario Tommasini di Parma che ha speso la sua vita per la chiusura dei manicomi e perché fossero integrati nella nostra società. Quella è la pazzia, avere il coraggio delle rivoluzioni.
Dimmi una cosa da pazzi, come quando in Alfabeto Mondo scrivi: «C'era crisi sulla terra, di sesso, di soldi, di tutto e allora bisognava andare nei cessi pubblici a cercare qualche sorpresa, a me piacevano le ragazze ma adesso andava bene tutto, maschio, femmina, e l'importante era come si spogliavano, mica culi, tette, bocche, era come si spogliavano». Come ci si spoglia, voglio sapere. Se siamo ancora capaci di vederci oltre la carne, se non siamo pelle rinsecchita, pelle di abito e non più pelle di fiore, pelle di luna. Possibile che uno si spogli parlando? Esiste mica un galateo da infliggersi per queste cose qui?
Si le tue domande sono più folli del libro. Ci sono molti modi per spogliarsi credo infiniti nei gesti se uno li guarda al replay ci si può spogliare anche cantando o pregando una volta con una mia amica ci siamo spogliati parlando in latino. Il brano per modo di dire è il brano più importante perché i veri grandi poteri li hanno le persone con dei problemi mentali o sociali o fisici.
Si può dire che i grandi poteri si nutrono di disperazione? E che sbaglia di grosso chi sostiene che quest’ultima sia una spinta alla vita più che alla morte? Vedi il Colonnello Nanetti, uno solo tra gli esempi che potrei farti. Lui si è spinto fin nello spazio pure avendo le mani legate, la mente, il corpo offeso da leggi non sue. Qual è il tuo potere? E dove ti porta?
Le grandi opere nascono da grandi drammi. Io non ho poteri sono solo curioso guardo a quello che non c’è.
Chiudiamo in bellezza e senza troppo pensare: mi dici una poesia, un dipinto e una canzone che ti sono cari? Dentro o fuori da questo abbecedario, scegli tu.
Marilyn di Pasolini, la Cacciata di Adamo ed Eva di Masaccio, Gracias a la Vida.
giovedì 14 maggio 2020
La Dialettica Della Ragione
Ho infilato il naso in un saggio edito da Divergenze: La Dialettica della Ragione di Sergio Pandolfo è stato il mio tempo speso bene, la mia sorpresa felice. Ho mescolato gli occhi all’entusiasmo essenziali entrambi, attenti e ripetuti. Poiché vi sono libri che si lasciano leggere e sospirare, libri che divertono. E libri come questo che segue il percorso del sociologo, filosofo e musicologo Theodor W. Adorno, che bisogna leggere con attenzione piena, vivace, per sentire qualcosa sfrigolare e risvegliarsi. Un saggio per tenere allenato il pensiero e dilatarlo, saperlo in grado di saldare tutti coi piedi per terra, mostrando quale filo seguono le radici umane e dove questo si aggroviglia e gonfia le tasche appesantendo i passi. Chi legge sta lì, confronta e pensa, sviluppa riflessioni critiche e muove un mondo di cose sotterranee e fulgide, camuffate da altri con finte urgenze, per comodità: il pensiero libero e cosciente fa tremare le leggi non scritte degli oppressori. E affila l’ingegno dei cittadini di un mondo plasmato su misura di pochi, e appartenente a tutti e con uguali risorse solo in potenziale. Chi si stacca dalla forme uniche, buone solo ad appiattire estro e personalità, apprezza il suono che risale gli ostacoli delle verità celate dietro ricatti subdoli e bisogni costruiti ad hoc: verità guaste date in pasto ai dormienti. Ma a volte basta proprio leggere, seguire il dipanarsi di un discorso lucido, con ogni spunto buono da sviluppare. Perché il saggio confezionato da Pandolfo come un dono perfettamente riuscito, tocca argomenti vasti che non possono terminare lì dove sovviene un punto fra tanti. E chi come me non sa, potrà sapere. Potrà usare una frase come trampolino, seguire la bibliografia con lo spirito dei corsari in cerca del tesoro: dedurre, dipanare, ringraziare il pensiero razionale venuto per scintilla e ispirazione, che è una manna per chi come me ha quasi sempre la testa fra le nuvole ma ancora raccoglie le differenze tra le cose e le persone, i colori, le predisposizioni; e si intrufola tra le maglie di una cultura che non deve scendere a compromessi pur di rassicurare: la sfida è sfidare la stasi eccessiva, sporgersi, fiutare il nuovo. E non temere di usare la diversità, non renderla bassa, cupa e inutile, schiacciata dai soliti tabù. Chi è diverso non può che arricchire e arricchirsi, trovare nelle differenze le conferme che cerca, quando pensa che niente è finito fino a che non ci sentiamo finiti noi stessi.
O più precisamente, con le parole di Adorno e poi di Pandolfo:
Quando si attesta al negro che è perfettamente identico al bianco, mentre di fatto non lo è, gli si fa, in segreto, ancora una volta torto. Lo si umilia amichevolmente confrontandolo a un criterio rispetto al quale, sotto la pressione del sistema, si rivelerà necessariamente inferiore: e mostrarsi alla sua altezza sarebbe un merito assai dubbio.
(Da Minima Moralia, aforisma 66: Mélange, pp. 114-115).
«Dicendo che il negro è come il bianco, si sta applicando il paradigma della dialettica hegeliana: tesi, l’uomo bianco è il modello; l’antitesi, il negro è differente da quel modello; sintesi, il negro va commisurato al bianco, in base al principio di identificazione, per cui la differenza va ricondotta ad unità. Ma in tal modo, al negro si è fatto il torto di non riconoscerlo meritevole di tutela in quanto tale: in quanto negro, appunto, e dunque diverso dall’uomo bianco. Proprio a questo vorrebbe porre rimedio Adorno, arrestando il movimento dialettico al secondo momento: la differenza (o il «non-identico») va riconosciuta come irriducibile a un modello, come meritevole di tutela di per sé e non perché assimilabile al soggetto (all’identico). Stesso discorso vale per le altre differenze. La donna, ad esempio, in quanto differenza per eccellenza rispetto all’uomo. Quando si dice che è come l’uomo, le si sta facendo torto, e non la si sta riconoscendo meritevole di tutela in quanto tale. Nel secondo excursus annesso al primo saggio della Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer dedicano spazio alla questione. Nella storia dell’umanità l’«illuminismo» ha cercato di nobilitare la donna, ma essa ha sempre dovuto pagare uno scotto, ed è stata vessata proprio in quanto differente dall’uomo. Il cristianesimo ha cercato di compensare ideologicamente l’oppressione della donna con il rispetto verso di essa, ridestando – attraverso il culto della Vergine – il ricordo delle condizioni arcaiche, delle antiche società matriarcali in cui le donne godevano di un ruolo e di un prestigio notevoli. M questo tentativo di nobilitare la donna è pagato col risentimento verso di essa, un risentimento che si traduce, in linea storica, nei processi contro le streghe del periodo premoderno. È un ottimo esempio di come l’«illuminismo» si ribalti nella barbarie».