giovedì 14 maggio 2020

La Dialettica Della Ragione





Mi occorrono e corrono molte cose in mente, anche quando non mi presto attenzione. Il giorno pullula di minuti famelici che si dilatano instancabili fino a farsi la sostanza delle ore e a saziare l’appetito di un tempo sornione che si appiattisce tra gli strati di cose gettate alla rinfusa tra disattenzioni ostinate. Per questo lui passa e noi lo sappiamo sempre troppo tardi; passa e tentiamo di ammazzarlo ma quello ha tante vite, troppe più dei gatti, e bisogna tenerselo stretto.

Ho infilato il naso in un saggio edito da Divergenze: La Dialettica della Ragione di Sergio Pandolfo è stato il mio tempo speso bene, la mia sorpresa felice. Ho mescolato gli occhi all’entusiasmo essenziali entrambi, attenti e ripetuti. Poiché vi sono libri che si lasciano leggere e sospirare, libri che divertono. E libri come questo che segue il percorso del sociologo, filosofo e musicologo Theodor W. Adorno, che bisogna leggere con attenzione piena, vivace, per sentire qualcosa sfrigolare e risvegliarsi. Un saggio per tenere allenato il pensiero e dilatarlo, saperlo in grado di saldare tutti coi piedi per terra, mostrando quale filo seguono le radici umane e dove questo si aggroviglia e gonfia le tasche appesantendo i passi. Chi legge sta lì, confronta e pensa, sviluppa riflessioni critiche e muove un mondo di cose sotterranee e fulgide, camuffate da altri con finte urgenze, per comodità: il pensiero libero e cosciente fa tremare le leggi non scritte degli oppressori. E affila l’ingegno dei cittadini di un mondo plasmato su misura di pochi, e appartenente a tutti e con uguali risorse solo in potenziale. Chi si stacca dalla forme uniche, buone solo ad appiattire estro e personalità, apprezza il suono che risale gli ostacoli delle verità celate dietro ricatti subdoli e bisogni costruiti ad hoc: verità guaste date in pasto ai dormienti. Ma a volte basta proprio leggere, seguire il dipanarsi di un discorso lucido, con ogni spunto buono da sviluppare. Perché il saggio confezionato da Pandolfo come un dono perfettamente riuscito, tocca argomenti vasti che non possono terminare lì dove sovviene un punto fra tanti. E chi come me non sa, potrà sapere. Potrà usare una frase come trampolino, seguire la bibliografia con lo spirito dei corsari in cerca del tesoro: dedurre, dipanare, ringraziare il pensiero razionale venuto per scintilla e ispirazione, che è una manna per chi come me ha quasi sempre la testa fra le nuvole ma ancora raccoglie le differenze tra le cose e le persone, i colori, le predisposizioni; e si intrufola tra le maglie di una cultura che non deve scendere a compromessi pur di rassicurare: la sfida è sfidare la stasi eccessiva, sporgersi, fiutare il nuovo. E non temere di usare la diversità, non renderla bassa, cupa e inutile, schiacciata dai soliti tabù. Chi è diverso non può che arricchire e arricchirsi, trovare nelle differenze le conferme che cerca, quando pensa che niente è finito fino a che non ci sentiamo finiti noi stessi.
 
O più precisamente, con le parole di Adorno e poi di Pandolfo:
 
Quando si attesta al negro che è perfettamente identico al bianco, mentre di fatto non lo è, gli si fa, in segreto, ancora una volta torto. Lo si umilia amichevolmente confrontandolo a un criterio rispetto al quale, sotto la pressione del sistema, si rivelerà necessariamente inferiore: e mostrarsi alla sua altezza sarebbe un merito assai dubbio.
 
(Da Minima Moralia, aforisma 66: Mélange, pp. 114-115).
 
«Dicendo che il negro è come il bianco, si sta applicando il paradigma della dialettica hegeliana: tesi, l’uomo bianco è il modello; l’antitesi, il negro è differente da quel modello; sintesi, il negro va commisurato al bianco, in base al principio di identificazione, per cui la differenza va ricondotta ad unità. Ma in tal modo, al negro si è fatto il torto di non riconoscerlo meritevole di tutela in quanto tale: in quanto negro, appunto, e dunque diverso dall’uomo bianco. Proprio a questo vorrebbe porre rimedio Adorno, arrestando il movimento dialettico al secondo momento: la differenza (o il «non-identico») va riconosciuta come irriducibile a un modello, come meritevole di tutela di per sé e non perché assimilabile al soggetto (all’identico). Stesso discorso vale per le altre differenze. La donna, ad esempio, in quanto differenza per eccellenza rispetto all’uomo. Quando si dice che è come l’uomo, le si sta facendo torto, e non la si sta riconoscendo meritevole di tutela in quanto tale. Nel secondo excursus annesso al primo saggio della Dialettica dell’illuminismo, Adorno e Horkheimer dedicano spazio alla questione. Nella storia dell’umanità l’«illuminismo» ha cercato di nobilitare la donna, ma essa ha sempre dovuto pagare uno scotto, ed è stata vessata proprio in quanto differente dall’uomo. Il cristianesimo ha cercato di compensare ideologicamente l’oppressione della donna con il rispetto verso di essa, ridestando – attraverso il culto della Vergine – il ricordo delle condizioni arcaiche, delle antiche società matriarcali in cui le donne godevano di un ruolo e di un prestigio notevoli. M questo tentativo di nobilitare la donna è pagato col risentimento verso di essa, un risentimento che si traduce, in linea storica, nei processi contro le streghe del periodo premoderno. È un ottimo esempio di come l’«illuminismo» si ribalti nella barbarie».
 
Cosa ho ascoltato a fine lettura: https://www.youtube.com/watch?v=U-pVz2LTakM&t=923s


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