sabato 13 febbraio 2021

Magari un giorno, a Roma

 

Magari riuscire a cambiare, magari riuscire a crescere, contare i propri anni senza alleggerirne il peso: uno, più uno, più uno, fino a tutto il tempo vissuto. Non per gravare da soli sul proprio essere, ma per creare forme nuove con il tempo che si suppone di poter contare. E aprire le scommesse con i tessuti interiori, tra ritagli di coscienza, di stupore fragrante, col pensiero che fa a gara con l’umore e il sentimento da trovare ripiegato tra le pagine dei libri, tra foto stropicciate e scritte sbiadite a segnare i ricordi che per contro si ravvivano: anche quando perdono definizione nei volti e nelle voci, animano chi li conserva; fanno la persona intatta, con un bagaglio di esperienze, di malinconie e contentezze arruffate.

Sentire l’eco dei propri passi e non prestare parole al silenzio: restare coi suoni impigliati in gola, tra parentesi curve, sofferte, aperte e mai chiuse con dentro tutto un mondo di cose mai provate per cui inventare itinerari: saperli la cura ideale, lo sguardo offerto al mondo da un dentro che resta a tratti chiuso da togliere il respiro alle proteste: smorzate sul nascere, impedite, come tutte le cose che necessitano di un divieto per trovare uno spazio lecito nel mondo.
Chi può, esplori; anche restando a pochi passi dal posto abitato. Anche sentendo che molto ancora c’è da fare e dire. Non a caso il verbo è posto all’infinito, così viene comodo: i limiti sono spine che bisogna temperare come le matite, per disegnare meglio i contorni delle possibilità.

Un passo dopo l’altro, i piedi mossi lungo una linea ideale, stretta, come su corde che dondolano, corde d’equilibrista. Serve lasciare spazio al vuoto: il vuoto consente il colore, la fantasia, allena lo spirito di adattamento, trova soluzioni ai problemi esistenti e a quelli che invece nascono quasi all’insaputa di chi li porta in grembo, sfiniti e acquattati nei non-luoghi pacifici di un sonno ristoratore, appesi alla schiena con cupa tenacia, appuntiti come artigli di rapace.
Camminare col bene dell’improvvisazione sotto un ombrello trasparente con un disegno di stelle e pallini, su un fondo di cielo uniforme, fumoso: preso a colpi di spatola da un artista distratto. Pestare i pedi sulle pozzanghere, saltare sul dorso di marciapiedi con passo di meraviglia: Lewis Carroll ne avrebbe fatto come minimo il disegno di lunghi bruchi anneriti, un cappello-matto per ogni bozzo, fino al Paese che tutti sanno e che qui, invece, ha le destinazioni varie e sempre incantevoli e sconosciute, di una Roma che come i gatti distoglie lo sguardo quando la si osserva, ma sa di essere molto bella. 


C’è una piramide piantata nel bel mezzo di una strada, e a forza di passarci forse ci si abitua. L’abitudine toglie smalto allo stupore, ma quello a volte torna a presentarsi, mette in chiaro il suo ruolo primario, non lo si può certo svilire: sa che può rinnovarsi a uno schiocco di dita, sa che è suo il compito di dare colore a un’esistenza che altrimenti risulterebbe stretta e pallida. Il gioco talvolta è creare ipotesi affastellate, tenute insieme con mosse incerte e fiduciose: muri di carte per castelli alti fino alle nuvole, nell’immaginazione. Catturare un istante in uno scatto, trovarvi impresse linee sconosciute, persone intente a vivere vite delle quali quasi sicuramente non si saprà mai nulla. E inventare una riflessione, darvi seguito, approdare alle forme d’espressione altrui, più o meno discutibili, a colorare i muri, a imbrattarli, a reinventare il senso e il muto dialogo di un intero quartiere come Tor Marancia. La storia che anima le vie e i palazzi ribolle a lungo come le pozioni migliori in un calderone. Le espressioni impresse sui volti sono sempre differenti, tra gli avventori e gli abitanti del luogo che al contrario dei primi, lo sanno bene di cosa vive quel breve tratto di città aperto e chiuso al contempo: poiché entrarvi non è un divieto, ma farne parte è ben altra cosa. L’identità, l’appartenenza, non le si inventano mica col solo osservare, col respirare l’atmosfera che emerge dalle strade, dai gesti consueti: dai negozi piccini e le insegne sbiadite, tra cassette di frutta e verdura e l’odore che allargano nelle immediate vicinanze, quando si passa di lì e si occhieggia attratti dai colori e dalle voci. 











Pochi passi e viene l’odore del caffè, delle brioches appena sfornate, e svoltato l’angolo una processione di piccole case e attività in pacato fermento, in mezzo ad altre scritte, altri disegni, accostamenti di colori audaci, messaggi più o meno validi, più o meno criptici, che lasciano un’impronta e vogliono essere seguiti, interpretati, semplicemente guardati: senza un perché o uno scambio effettivo. Uno racconta, l’altro assiste. E come me, forse, vede perfino quello che non c’è.