Magari riuscire a cambiare, magari riuscire a crescere, contare i propri anni senza alleggerirne il peso: uno, più uno, più uno, fino a tutto il tempo vissuto. Non per gravare da soli sul proprio essere, ma per creare forme nuove con il tempo che si suppone di poter contare. E aprire le scommesse con i tessuti interiori, tra ritagli di coscienza, di stupore fragrante, col pensiero che fa a gara con l’umore e il sentimento da trovare ripiegato tra le pagine dei libri, tra foto stropicciate e scritte sbiadite a segnare i ricordi che per contro si ravvivano: anche quando perdono definizione nei volti e nelle voci, animano chi li conserva; fanno la persona intatta, con un bagaglio di esperienze, di malinconie e contentezze arruffate.
Sentire
l’eco dei propri passi e non prestare parole al silenzio: restare coi suoni
impigliati in gola, tra parentesi curve, sofferte, aperte e mai chiuse
con dentro tutto un mondo di cose mai provate per cui inventare itinerari:
saperli la cura ideale, lo sguardo offerto al mondo da un dentro che resta a
tratti chiuso da togliere il respiro alle proteste: smorzate sul nascere,
impedite, come tutte le cose che necessitano di un divieto per trovare uno
spazio lecito nel mondo.
Chi
può, esplori; anche restando a pochi passi dal posto abitato. Anche sentendo
che molto ancora c’è da fare e dire. Non a caso il verbo è posto all’infinito,
così viene comodo: i limiti sono spine che bisogna temperare come le matite,
per disegnare meglio i contorni delle possibilità.
Un
passo dopo l’altro, i piedi mossi lungo una linea ideale, stretta, come su
corde che dondolano, corde d’equilibrista. Serve lasciare spazio al vuoto: il
vuoto consente il colore, la fantasia, allena lo spirito di adattamento, trova
soluzioni ai problemi esistenti e a quelli che invece nascono quasi all’insaputa
di chi li porta in grembo, sfiniti e acquattati nei non-luoghi pacifici di un
sonno ristoratore, appesi alla schiena con cupa tenacia, appuntiti come artigli
di rapace.
Camminare
col bene dell’improvvisazione sotto un ombrello trasparente con un disegno di
stelle e pallini, su un fondo di cielo uniforme, fumoso: preso a colpi di
spatola da un artista distratto. Pestare i pedi sulle pozzanghere, saltare sul
dorso di marciapiedi con passo di meraviglia: Lewis Carroll ne avrebbe fatto
come minimo il disegno di lunghi bruchi anneriti, un cappello-matto per ogni
bozzo, fino al Paese che tutti sanno e che qui, invece, ha le destinazioni
varie e sempre incantevoli e sconosciute, di una Roma che come i gatti
distoglie lo sguardo quando la si osserva, ma sa di essere molto bella.
C’è una
piramide piantata nel bel mezzo di una strada, e a forza di passarci forse ci
si abitua. L’abitudine toglie smalto allo stupore, ma quello a volte torna a
presentarsi, mette in chiaro il suo ruolo primario, non lo si può certo
svilire: sa che può rinnovarsi a uno schiocco di dita, sa che è suo il compito
di dare colore a un’esistenza che altrimenti risulterebbe stretta e pallida. Il
gioco talvolta è creare ipotesi affastellate, tenute insieme con mosse incerte
e fiduciose: muri di carte per castelli alti fino alle nuvole, nell’immaginazione.
Catturare un istante in uno scatto, trovarvi impresse linee sconosciute,
persone intente a vivere vite delle quali quasi sicuramente non si saprà mai
nulla. E inventare una riflessione, darvi seguito, approdare alle forme d’espressione
altrui, più o meno discutibili, a colorare i muri, a imbrattarli, a reinventare
il senso e il muto dialogo di un intero quartiere come Tor Marancia. La storia
che anima le vie e i palazzi ribolle a lungo come le pozioni migliori in un
calderone. Le espressioni impresse sui volti sono sempre differenti, tra gli
avventori e gli abitanti del luogo che al contrario dei primi, lo sanno bene di
cosa vive quel breve tratto di città aperto e chiuso al contempo: poiché
entrarvi non è un divieto, ma farne parte è ben altra cosa. L’identità, l’appartenenza,
non le si inventano mica col solo osservare, col respirare l’atmosfera che
emerge dalle strade, dai gesti consueti: dai negozi piccini e le insegne
sbiadite, tra cassette di frutta e verdura e l’odore che allargano nelle
immediate vicinanze, quando si passa di lì e si occhieggia attratti dai colori
e dalle voci.