martedì 3 novembre 2020

La Rivoluzione, forse Domani

Vi sono sguardi malinconici che diluiscono le tracce dei tempi andati, ne ricercano il passo per non perdere del tutto l'impronta di un tempo che sapeva farsi gioco, fatica e fiducia in alternanza; e che riempiva i giorni di chi assisteva al mutare delle stagioni: nelle fitte maglie di un tempo anche presente, si infiltrano tenui bagliori di usanze sopite, e racconti da trarre con incantata prudenza da volti e voci amate, a rivelare la parte più autentica di chi ascolta e non si accorge più del passo ossuto del dio Saturno. 
Il progresso non sempre contempla una reale evoluzione, soprattutto su un piano culturale ed emotivo: non di rado il soggetto diviene oggetto, si ripiega e svanisce dietro le pressioni di una società non più adatta a coltivare i ritmi lenti e profondi del singolo, e di una coscienza che trova pace in breve e non teme corruzioni.
La ricerca delle origini, delle cause e dei rimedi che hanno condotto a un mondo attuale, smembrato da conflitti e incomprensioni portate avanti a scapito del buonsenso, non si può arrestare: quello che siamo stati farebbe gola a chi gioca con le parole e intreccia destini ormai improbabili. Qualcuno ha fatto la storia ben prima di noi, e ha lasciato in eredità ai più fortunati i frutti e le coordinate di una realtà ben più accogliente e sensata. Eravamo così belli, e non lo sapevamo. Chi vive il presente non può arretrare, neppure sapendo che la marcia verso il futuro non è delle più rosee, e per questo si arresta, si lagna ben più del dovuto, e solo a volte si accontenta di ciò che può. In passato le cose non erano diverse: ciascuno doveva fare i conti con ristrettezze e impedimenti da ricondurre a fattori economici, pratici, o discussi tra sé con il linguaggio delle emozioni. Ma c’era ancora la volontà di incontrarsi, fidarsi e affidarsi al prossimo; e le poche risorse possedute venivano il più possibile esaltate con la carezza della condivisione. Accomunare il destino e la condotta di ognuno non è possibile, ora come allora: le eccezioni sono l’unica cosa che consente di dare una mira esatta alle regole, che sono la misura della civiltà.
La bellezza, un tempo, vestiva spesso i panni del rigore e dell’ingenuità. E la povertà, quando non era di spirito, poteva trovare contrasti buoni nell’ingegno che sopperiva alle mancanze e collocava i concetti di utilità e di vantaggio in un punto lontano, rispetto a quello che intendiamo adesso: gli agi dell’era moderna non si potevano neppure indovinare, tranne in pochi casi, fortunati o coraggiosi. Un esempio viene da Rosa Mangini: donna originaria dei colli oltrepadani tra Pavia e Piacenza, di una cultura e una sensibilità assai vaste. Leggendola, si capisce che non le serviva dosare le parole: quelle scorrevano sulla carta agili e intense, coglievano e anticipavano trame future osservando il presente con immersione profonda. L’ispirazione non è cosa da sottovalutare, come le inclinazioni che sanno dare corpo a ciò che si chiama realtà; e sanno filtrarla senza celare nulla, ricavando da ogni punto quanto sfugge a occhi indifferenti.
Poche cose sono belle quanto il restare impigliati nelle maglie generose e imprevedibili della fantasia. Anche quando, come nel caso di Rosa Mangini, i riferimenti marcati sulla carta non sono poi così distanti dal vero. Appartiene proprio a lei uno scritto intitolato La Rivoluzione, forse Domani, pubblicato da Divergenze dopo il ritrovamento di un manoscritto risalente al 1941. La storia tracciata sui fogli contenuti in una cartelletta di pregevole fattura, racconta le vicende di un gruppo di ragazzi che si muovono tra Zenevredo e Costa de’ Nobili. E si potrebbe definire una storia di resistenza prima della Resistenza, che è dentro i fatti e non estranea. L’autrice chiama in causa il regime fascista, eppure non lo nomina apertamente: trova molti modi di parlare di quel male, senza contorni precisi ma simboli, mezze parole, facilmente riconducibili ai diretti interessati: i neri, o quelli, a seconda del momento. I personaggi raccolti intorno ai piccoli e grandi rumori di paese, sono intenti a vivere una vita che si avvicini il più possibile a princìpi e valori che fanno ricco l'animo di chi li osserva. Si tratta di cose semplici e preziose, che prendono corpo e spinta dalla terra: a lei si devono i frutti che sfamano il corpo e lo spirito, ed è per questo che occorrerebbe preservarla dagli affronti che non di rado, coincidono con la sola presenza umana.
Il Michele e Melania sono due personaggi fondamentali, nel racconto; hanno colori diversi e complementari, una forza di carattere che prende spinta e ragione da angolazioni differenti, e che non trova difficile convergere verso uno stesso punto: la loro è una conoscenza che prende vigore piano, che si nutre di gesti rubati e sussurrati, di evidenze celate dietro cure minuziose, pur di non rendere esplicito ciò che va rimandato e incoraggiato: i due sono quasi all’opposto. Uno conosce ben poco le dimensioni letterarie ed è goffo e tenero, a tratti. Non nasconde la sua natura ma la porge all’altro, con una fiducia che andrebbe preservata ad oltranza. Melania invece è sorniona, ammicca ma non esaspera mai nessuna delle attenzioni che porge a Michele, anche quando spera che quelle possano avere un seguito. La breve parentesi di mondo conosciuto e le larghe distese altrui, hanno connotati metaforici, sensuosi, di appartenenza. Lei chiede, perché non si accontenta di vivere soltanto di passaggio: indaga il senso dell’umano esistere, e le sue riflessioni la conducono spesso al nonu Balossi: uomo capace di conservare il calore dell’esperienza, il riserbo, la forza di chi muta col mutare del tempo, e non si lascia atterrire dalle difficoltà. Burbero nell’aspetto, ma di una tenerezza disarmante. La profondità dei dialoghi tra i due, ad un certo punto, mette in luce la piccolezza degli uomini, quando si riducono a fare scempio della ricchezza del territorio col disegno ottuso e inutile delle case spuntate in ogni dove: le linee di un’attività edilizia sconsiderata, fu evidente negli anni del fascismo. Melania aveva una gemella; ed è davanti a quegli stravolgimenti, che il nonno Balossi confida loro: 
«Ai miei tempi la campagna andava alla città, adesso è la città che va alla campagna!».
«E non è bello?», replicavano in coro, candidamente.
«È bello se andate a fare una gita; era bello per chi ci andava a lavorare. Ma oggi la città non va alla campagna per lavorare la terra».
«Oh», dicevano, «e per cosa ci va?».
«Per fare le case».
«Ma allora è bene», osservava la Melania. «Case nuove, calde, come quelle dei signori».
«Figliole mie, la casa è bene, ma i signori l’hanno già una casa. Tanti anche due, tre, quattro case».
«E noi?»
«Noi no. Noi abbiamo la terra, che è la casa più bella e più sicura. Se copri la terra e fai su una casa, che non è la casa di chi lavora la terra, hai perduto la terra e quella casa non è più sicura. La terra perduta è perduta, non dà più il pane, e noi non mangiamo le pietre».


Non vi è nulla che si allontani mai da una verità che apparteneva agli uomini e alle donne del passato descritto; se non per calcolare le distanze, dilatarsi e arrivare fino a noi, esprimendo un gran numero di sensazioni e riflessioni più che mai attuali.
Ogni personaggio è irrinunciabile. Tra questi, sono degni di nota la signora Peppa con lo sguardo arcigno e furbo; e un marito tonto al seguito, vittima di improperi e deliziose frecciatine, entrambi alle prese con l’ingombro di un’osteria che era teatro di spassose scenette di paese. Con le loro piccole baruffe, i disaccordi vivi e ispidi, si immagina una vita coniugale piuttosto movimentata, la pelle grinzosa, le mani stanche, la postura lievemente arcuata, le ginocchia capaci di scricchiolii mica da poco. Eppure la Mangini non usa troppe parole per descriverli: li fa muovere insieme agli altri e proprio dalle azioni adottate si ottengono le forme, che chissà per quale magia sono precise più di ogni termine ricercato e preciso.
Poi vi sono la tenera e operosa Gina, il Balussìn con la musica in testa; Stalin, che indossa con disinvoltura il nome affibbiatogli. E il Volpe: a lui vengono affidati i più succosi slanci.
Ogni personaggio contribuisce allo svolgimento di una trama che non smette di accarezzare, di commuovere e divertire. In alcuni punti risulta evidente più che in altri, la grandezza di una donna che seppe anticipare eventi non ancora intuibili: Rosa Mangini vedeva in largo, vedeva lungo, non sapeva fermarsi alle ovvietà. Viaggiava nel futuro, e senza alcun congegno: con la sola mente, con la febbre di vita e di sapere. Con un bagaglio di affetti e visioni confluiti in una storia forse ascoltata da altre voci e regalata alla carta e a chi vorrà percorrerla.
Carta preziosa, come ogni testimonianza capace di restituire interezza al quadro frammentato di noi tutti, che spesso siamo vivi solo per sentito dire.



La Rivoluzione, forse Domani - Rosa Mangini