martedì 19 ottobre 2021

Cuòre: Sostantivo Maschile

 
Amo le poesie, in particolare quelle senza rime. Quelle che non hanno troppi argini, battono dove tutto duole perché è bene indagare il dolore in ogni forma e senza inutili tabù, insieme alle paure, alle rivalse che non sono da alimentare né da allontanare: capitano come goffe mosse di esseri piccini, dispetti di infante sopra i giochi svelati al contrario di come si voleva; e dire che il finale non voleva mica essere buono o cattivo in partenza, ma porre solo un punto tondo e fertile dal quale ripartire.
Al teatro se ne trovano, di poesie. Specie negli spettacoli che sollevano e nutrono una curiosità che comincia a dipanarsi da inviti silenti, energici e gentili, allungati a macchia d’olio, di bocca in bocca. Ad Angela Di Maso devo la gratitudine per l’invito a me destinato, che mi ha permesso di conoscere due attrici favolose e confermare l’idea che avevo di una drammaturga già apprezzata e da apprezzare ancora, con la calma dovuta ai riti che salvano dall’omologazione, dal fare-per-mostrare e non per godere, fino alla condivisione che serve a dividere esperienze per moltiplicare esempi ed entusiasmi.
Cuòre: sostantivo maschile è uno spettacolo che ha un effetto pirotecnico pari almeno a quello di chi lo ha ideato. E bisogna assistervi senza troppo badare all’età, alle diverse provenienze, ai pensieri che restano attaccati come polvere agli abiti: quelli non vanno lasciati fuori, scrollati, esclusi; ciascuno può e deve portare un pezzo del proprio mondo con sé, vederlo narrare da attrici capaci di una precisione puntuale, chirurgica, dissacrante. Nulla va tutelato, poiché si vive in mezzo ai danni e mica da dannati: siamo sacri esempi di inconcludenza, noi imperfetti umani; saltimbanchi e giocolieri, vittime e carnefici, ognuno con una parte di viltà o verità da biascicare, sussurrare o gridare a gran voce.
Dunque ci si siede, e a una prima occhiata si familiarizza con Alvia Reale e Daniela Giovanetti: donne nude e crude, pure coi vestiti addosso, ritte sopra un rettangolo di palco, immobili, sguardo fisso: il saluto e l’esordio più efficace è il contatto visivo con un pubblico muto, l’attesa che qualcosa accada da un momento all’altro, e che il silenzio venga rotto prima o poi, con una voce e poi due, in perfetta armonia. La rivoluzione è portare la realtà dritta in scena, adattata all’esistenza trascorsa e mai passata delle due voci alleate, alternate e giocose, serie e intense, immerse in un vissuto già vissuto almeno cento volte. L’abilità davvero alta, sta nel condensare in una sola ora un alternarsi di emozioni, di dolori, paradossi e rinascite, oltre che di affronti e reazioni affiancate a un orgoglio che non teme di essere smontato. Che donne, mi è venuto subito da pensare. Quanto è bello fare parte di quel genere, di quel dato languore, di una certa tempra, farsi minuti, soffici e scheletrici, partecipi di un talento che pure non si possiede ma si ammira e si incoraggia con lo sguardo, con le mani che sanno applaudire, e una strana familiarità alla fine, come per dirsi che non ci conosciamo per davvero, ma un poco sì: siamo prede degli stessi affanni, cambiano solo le linee, i risvolti, gli imprevisti e le morali indesiderate; ma non la sostanza. Cambiano le intensità, e alle tre donne narrate e citate, bisogna dire grazie molto forte. Grazie per il tempo e l’impegno speso, per le risate delle altre donne e degli uomini tra il pubblico.
Grazie ad Angela, per la capacità di dire. Per i ritmi serrati e distesi, e ancora surreali, toccanti in un modo che davvero ha del sensuale, ed è a tratti violento, tenace, risoluto, pronto a farsi valere con poche cose e pause disseminate in un racconto che si addossa sopra quelle, riempie di tutto una scenografia davvero esile, minima, ridotta all’osso. Perché suppongo che si debba dare e darsi tanto col corpo e l’espressione, fortissimi entrambi, senza che nulla distragga da un significato che è così sfaccettato e ampio da non volerlo interrompere, diluire, coprire col superfluo.
Alvia Reale ha gli occhi grandi, lucidi, occhi di pozzo e di specchio, occhi che pure quando ride si allagano d’un tratto, ed è questo lo stupore. Sembra una sorta di perenne tributo a una natura nascosta, una cosa che le sfugge in ogni modo e parte: insieme al personaggio la persona, ma un passo indietro per non guastare l’incanto. Con gli abiti ben poco femminili, donna compiuta negli atti gentili, nei piccoli riti condensati in uno spiegare e ripiegare vecchi centrini come lembi di pelle di un corpo non più tale, andato e mai lasciato per davvero. Alvia parla con le parole e con la carne, non teme il suo corpo, non lo ripudia, parla di carezze da imparare e da spiegare, affinché pure chi non le sa possa apprenderle. Alvia infligge e subisce l’abbandono; e la sa lunga, mica come quelli che la vorrebbero zittire.
Daniela ha un gioco delizioso di ossa appena sporgenti, sul petto. Sembrano due volte belle, perché in una si fanno una strana metafora così vicina al suo essere leggero, imprendibile: pare che debbano trattenere pure quelle un volo di ostinati desideri, una nostalgia imbronciata e bambina, capriccio mai sconfitto nato in tempi lontani. Daniela è aggraziata, lieve come la veste fluttuante che indossa. Ed è gatto, è figlia, è un crescendo di movenze esasperate perché lei ama il ballo: lo dice il suo collo del piede, lo dice il suo corpo ferito, gettato come una cosa inerme sul freddo pavimento. Lo dice il suo sguardo che danza, e danza sulle punte perfino lui, che non saprebbe farsi indiscreto neppure volendolo. Daniela è la parte integra di un insieme smontato in ogni punto e rivisto, incollato, tenuto insieme col bene di una meraviglia sempre presente, a dispetto degli scherzi di un destino non troppo benevolo.
 
Per la trama, come sempre rimando ad altri luoghi e parole diversamente pronte, capaci e su misura di una teoria che da sempre mi fa difetto.
Una vocina mi dice che pure la pratica, non è che mi sia del tutto congeniale: capito in questo mondo con il volere imperioso di chi ha forse avuto poco, per poco impegno o bussole rotte, e troppe strade dissestate in cui inciampare. Ma ho da sempre e ovunque, pure in testa e nelle orecchie, il rumore insistente e dolce delle piccole cose, dei dettagli ignorati dai più; dei paesaggi dai contorni acerbi e sfumati tenuti in disparte, uniti alla voglia di essere viva con ogni male, con l’età da rivedere e misurare secondo sentimento, con l’ostinazione di chi non rinuncia a una forza latente e palese, utile ad avvolgere le cose oltre gli accadimenti e le brutture (in)necessarie: la stessa forza che chi vorrà potrà trovare in uno spettacolo fatto da donne e senza indirizzo, che innamorerà chiunque si fermerà a raccoglierlo.



 


mercoledì 6 ottobre 2021

Circuiti, Odori e Sapori della Bellezza Femminile per Julia Ducournau

 


Pensavo a quanto sia necessaria e potente, la bellezza. Quella che a suo modo delimita ruoli e confini, che risveglia il consueto e il fantastico, lascia migrare le fantasie verso un altrove che il più delle volte risulta compiuto e pacifico ben più del vero nel quale si resta immersi.
Persino il brutto ha una sua funzione, una spinta quieta che rivolta le sorti dell’insignificanza: al di fuori dell’indifferenza, vi è un orizzonte di risorse infinite da prendere in prestito da tutto quanto ci rivela chi siamo, anche a un primo sguardo, con un rifiuto netto a scoraggiare illusioni varie e congetture. Qualsiasi cosa scateni una reazione che si allontana dal torpore di chi preferisce il nulla al tutto, diviene ad un certo punto desiderabile. E desiderare esercita un'attrazione che ancora una volta conduce al bello e al brutto, alla negazione o al bisogno di diventare parte di un insieme più ampio, in divenire.
La bellezza ha avuto un ruolo cruciale in due film visti di recente. Nell’ordine: Titane e Raw, una cruda verità. Il primo visto al cinema, e dunque pregno di una commistione di odori, atmosfere e suoni molto efficaci. Il secondo a casa, da sola, in un giorno di pioggia e fame da non intendere in senso letterale, tantomeno in uno che si avvicini all’energia insopprimibile e spinosa espressa nella pellicola.
La regista di entrambi i film, Julia Ducournau, ha un’abilità a mio parere deliziosa, che è quella di far sembrare scorrevole una narrazione farcita di tematiche a dir poco sfaccettate e ingombranti. Le donne ricoprono ruoli di una forza a loro modo lirica e tenace, distruttiva e ancora in potenziale: si lasciano divorare dal male, dal dolore di un’esistenza cattiva, capitata loro per inclinazioni malsane e strani giochi di un destino avverso. E sono loro a impersonare quello stesso male, infine, plasmandolo secondo personalità che conoscono i punti acerbi dell’inesperienza e quelli di vedute più ampie che si possiedono seguendo impulsi ai quali contrapporre una minima resistenza, poiché non vi è imperativo più efficace di una natura emersa dal profondo dell’animo, a dispetto di qualunque difficoltà.
 
In Titane incontriamo Alexia; la seguiamo in molte fasi della sua esistenza: in versione bambina e donna, in carne ed ossa e in carne, ossa e metallo. È una specie di piccola donna bionica, resa un poco artificiale da un incidente in auto, mentre era in viaggio con un padre che per l’intera durata del film non mostra alcun tipo di slancio verso una creatura che pare quasi non riconoscere, non apprezzare; sembra addirittura non la consideri neppure, alla stregua di un congegno di cui si ignori dal principio alla fine quale sia, l’utilità e il meccanismo che gli consente di funzionare in maniera corretta.
E infatti tutto appare sbagliato, in Alexia: la placca in titanio conficcata nel cranio dopo l’incidente, l’amore misto alla violenza, e intorno uno sfumare continuo di sentimenti in altri sentimenti indefiniti: senza ruolo, appartenenza o punto d’origine. Pare quasi un vortice, una voragine, dove tutto è vuoto, è eco. Prima o poi qualcosa dovrà pure combaciare, riempire, non slittare ma fissarsi alle pareti di quel corpo estraneo; farsi sostanza e radice dalla quale ripartire.
Julia Ducournau ha un modo molto interessante di raccontare la donna, oltre che la maternità. Ha uno sguardo duro e gelido, estraneo e non partecipe. Sembra quasi chiedere ai personaggi usati come piccole pedine, quale sia il finale e non la morale: non vi è nulla di giusto e sbagliato, nulla di ovvio. Solo passioni brucianti e ricordi scontornati, mutevoli. Un erotismo da fare storcere il muso a molti, ma carnale anche se macchinoso in un senso vicino alle mille difficoltà oggettive, ma anche in uno meno ovvio, che si accosta alla ferraglia: l’orgasmo non è solo della carne nella carne, ma del corpo estraneo che si trovi a torcere e toccare a fondo luoghi inesplorati, qualunque sia il gioco della mente a renderlo vivo ben più di chi, semplicemente, respira.
Il dolore pure fisico, è un fatto puramente casuale, necessario; non per forza più doloroso del male venuto in senso figurato a corrompere e spezzare l’animo umano.
La maternità, in tutto ciò, non è che una trasformazione quasi presuntuosa, quasi violenta, ad appropriarsi di un corpo che prima vedeva scorrere nelle vene una linfa simile al titanio che dà il titolo al film, e alla benzina che disseta le auto viste come una prolunga del corpo umano, una voglia sibilante, perentoria, senza alcuna giustificazione. L’amore verso una creatura che si nutre del proprio essere, che abita l’organismo e lo vede, lo conosce ben più intimamente di chi lo riveste di ossa, passi e sogni, non gode di un affetto venuto per istinto ma di risentimento, incredulità, rigetto; e soltanto alla fine, di stupore e benefico supporto, curiosità. Voler bene non viene che poi, quando è quasi ora di chiudere tutto, voltarsi, non chiedersi mai più il motivo di pene atroci e ingiuste cause subite e inflitte. Non è scontato e non è dovuto: ciascuno di noi lo apprende come può, in ogni modo lecito e illecito e a dispetto delle conseguenze che dovrà subire.



In Raw, una cruda verità, è Justine a impersonare una giovane donna all’apparenza ingenua, fragile, tutta votata a compiacere una madre dai modi severi.
Una vegetariana iscritta alla facoltà di veterinaria, con le carcasse sanguinolente di animali prestati alle mani incerte di aspiranti medici.
Anche qui, le donne hanno un ruolo di primaria importanza: gli uomini sono giusto un contorno sfizioso, una visione presa in prestito, un gustoso sfizio in una notte senza sonno. E gustoso è un termine a dir poco azzeccato, poiché il gusto non è solo dei baci venuti a siglare un patto segreto tra due amanti, ma è della lingua che assapora tratti di pelle dall’odore così buono e accattivante; assaggio che misura la giusta distanza dal pasto vero e proprio, che in questo caso offre della carne umana. Quella di Justine diventa un’ossessione, una fame implacabile che trova sfogo in comportamenti esagitati e in un cambiamento radicale della protagonista, non solo nelle abitudini alimentari ma nel corpo e nel carattere, nel modo di incedere e appropriarsi del mondo, non soltanto vivendolo distrattamente, come di passaggio.
Sorprende quanto tutto venga narrato con naturalezza, nonostante le tematiche affrontate. La musica incalza con ritmi accelerati nei momenti giusti, ma non vi sono scene che ricalcano in maniera teatrale e in crescendo, quanto accade: ogni cosa ha un impatto quasi minimo sulla vita di tutti i personaggi, per quanto enorme sia il cambiamento e quella stessa fame, che nessuno mai potrebbe giustificare.
Il finale lascia colpiti allo stesso modo: non con effetti grandi, ma con eventi che spiazzano, narrati perfino a bassa voce; mentre una voce canta, in un abbraccio in solitaria, disperato:
 
«La notte adesso scende
Con le sue mani fredde su di me
Ma che freddo fa
Ma che freddo fa».