Amo le poesie, in particolare quelle senza rime. Quelle che non hanno troppi argini, battono dove tutto duole perché è bene indagare il dolore in ogni forma e senza inutili tabù, insieme alle paure, alle rivalse che non sono da alimentare né da allontanare: capitano come goffe mosse di esseri piccini, dispetti di infante sopra i giochi svelati al contrario di come si voleva; e dire che il finale non voleva mica essere buono o cattivo in partenza, ma porre solo un punto tondo e fertile dal quale ripartire.
Al teatro se ne trovano, di poesie. Specie negli spettacoli che sollevano e nutrono una curiosità che comincia a dipanarsi da inviti silenti, energici e gentili, allungati a macchia d’olio, di bocca in bocca. Ad Angela Di Maso devo la gratitudine per l’invito a me destinato, che mi ha permesso di conoscere due attrici favolose e confermare l’idea che avevo di una drammaturga già apprezzata e da apprezzare ancora, con la calma dovuta ai riti che salvano dall’omologazione, dal fare-per-mostrare e non per godere, fino alla condivisione che serve a dividere esperienze per moltiplicare esempi ed entusiasmi.
Cuòre: sostantivo maschile è uno spettacolo che ha un effetto pirotecnico pari almeno a quello di chi lo ha ideato. E bisogna assistervi senza troppo badare all’età, alle diverse provenienze, ai pensieri che restano attaccati come polvere agli abiti: quelli non vanno lasciati fuori, scrollati, esclusi; ciascuno può e deve portare un pezzo del proprio mondo con sé, vederlo narrare da attrici capaci di una precisione puntuale, chirurgica, dissacrante. Nulla va tutelato, poiché si vive in mezzo ai danni e mica da dannati: siamo sacri esempi di inconcludenza, noi imperfetti umani; saltimbanchi e giocolieri, vittime e carnefici, ognuno con una parte di viltà o verità da biascicare, sussurrare o gridare a gran voce.
Grazie ad Angela, per la capacità di dire. Per i ritmi serrati e distesi, e ancora surreali, toccanti in un modo che davvero ha del sensuale, ed è a tratti violento, tenace, risoluto, pronto a farsi valere con poche cose e pause disseminate in un racconto che si addossa sopra quelle, riempie di tutto una scenografia davvero esile, minima, ridotta all’osso. Perché suppongo che si debba dare e darsi tanto col corpo e l’espressione, fortissimi entrambi, senza che nulla distragga da un significato che è così sfaccettato e ampio da non volerlo interrompere, diluire, coprire col superfluo.
Alvia Reale ha gli occhi grandi, lucidi, occhi di pozzo e di specchio, occhi che pure quando ride si allagano d’un tratto, ed è questo lo stupore. Sembra una sorta di perenne tributo a una natura nascosta, una cosa che le sfugge in ogni modo e parte: insieme al personaggio la persona, ma un passo indietro per non guastare l’incanto. Con gli abiti ben poco femminili, donna compiuta negli atti gentili, nei piccoli riti condensati in uno spiegare e ripiegare vecchi centrini come lembi di pelle di un corpo non più tale, andato e mai lasciato per davvero. Alvia parla con le parole e con la carne, non teme il suo corpo, non lo ripudia, parla di carezze da imparare e da spiegare, affinché pure chi non le sa possa apprenderle. Alvia infligge e subisce l’abbandono; e la sa lunga, mica come quelli che la vorrebbero zittire.
Daniela ha un gioco delizioso di ossa appena sporgenti, sul petto. Sembrano due volte belle, perché in una si fanno una strana metafora così vicina al suo essere leggero, imprendibile: pare che debbano trattenere pure quelle un volo di ostinati desideri, una nostalgia imbronciata e bambina, capriccio mai sconfitto nato in tempi lontani. Daniela è aggraziata, lieve come la veste fluttuante che indossa. Ed è gatto, è figlia, è un crescendo di movenze esasperate perché lei ama il ballo: lo dice il suo collo del piede, lo dice il suo corpo ferito, gettato come una cosa inerme sul freddo pavimento. Lo dice il suo sguardo che danza, e danza sulle punte perfino lui, che non saprebbe farsi indiscreto neppure volendolo. Daniela è la parte integra di un insieme smontato in ogni punto e rivisto, incollato, tenuto insieme col bene di una meraviglia sempre presente, a dispetto degli scherzi di un destino non troppo benevolo.
Una vocina mi dice che pure la pratica, non è che mi sia del tutto congeniale: capito in questo mondo con il volere imperioso di chi ha forse avuto poco, per poco impegno o bussole rotte, e troppe strade dissestate in cui inciampare. Ma ho da sempre e ovunque, pure in testa e nelle orecchie, il rumore insistente e dolce delle piccole cose, dei dettagli ignorati dai più; dei paesaggi dai contorni acerbi e sfumati tenuti in disparte, uniti alla voglia di essere viva con ogni male, con l’età da rivedere e misurare secondo sentimento, con l’ostinazione di chi non rinuncia a una forza latente e palese, utile ad avvolgere le cose oltre gli accadimenti e le brutture (in)necessarie: la stessa forza che chi vorrà potrà trovare in uno spettacolo fatto da donne e senza indirizzo, che innamorerà chiunque si fermerà a raccoglierlo.