Circuiti, Odori e Sapori della Bellezza Femminile per Julia Ducournau
Pensavo
a quanto sia necessaria e potente, la bellezza. Quella che a suo modo delimita
ruoli e confini, che risveglia il consueto e il fantastico, lascia migrare le
fantasie verso un altrove che il più delle volte risulta compiuto e pacifico
ben più del vero nel quale si resta immersi.
Persino
il brutto ha una sua funzione, una spinta quieta che rivolta le sorti dell’insignificanza:
al di fuori dell’indifferenza, vi è un orizzonte di risorse infinite da
prendere in prestito da tutto quanto ci rivela chi siamo, anche a un primo
sguardo, con un rifiuto netto a scoraggiare illusioni varie e congetture.
Qualsiasi cosa scateni una reazione che si allontana dal torpore di chi
preferisce il nulla al tutto, diviene ad un certo punto desiderabile. E
desiderare esercita un'attrazione che ancora una volta conduce al bello e al
brutto, alla negazione o al bisogno di diventare parte di un insieme più ampio,
in divenire.
La
bellezza ha avuto un ruolo cruciale in due film visti di recente. Nell’ordine: Titane e Raw, una cruda verità. Il primo visto al cinema, e dunque pregno di
una commistione di odori, atmosfere e suoni molto efficaci. Il secondo a casa,
da sola, in un giorno di pioggia e fame da non intendere in senso letterale,
tantomeno in uno che si avvicini all’energia insopprimibile e spinosa espressa
nella pellicola.
La
regista di entrambi i film, Julia Ducournau, ha un’abilità a mio parere
deliziosa, che è quella di far sembrare scorrevole una narrazione farcita di
tematiche a dir poco sfaccettate e ingombranti. Le donne ricoprono ruoli di una
forza a loro modo lirica e tenace, distruttiva e ancora in potenziale: si
lasciano divorare dal male, dal dolore di un’esistenza cattiva, capitata loro
per inclinazioni malsane e strani giochi di un destino avverso. E sono loro a
impersonare quello stesso male, infine, plasmandolo secondo personalità che
conoscono i punti acerbi dell’inesperienza e quelli di vedute più ampie che si
possiedono seguendo impulsi ai quali contrapporre una minima resistenza, poiché
non vi è imperativo più efficace di una natura emersa dal profondo dell’animo, a
dispetto di qualunque difficoltà.
In Titane incontriamo Alexia; la seguiamo
in molte fasi della sua esistenza: in versione bambina e donna, in carne ed
ossa e in carne, ossa e metallo. È una specie di piccola donna bionica, resa un
poco artificiale da un incidente in auto, mentre era in viaggio con un padre
che per l’intera durata del film non mostra alcun tipo di slancio verso una
creatura che pare quasi non riconoscere, non apprezzare; sembra addirittura non
la consideri neppure, alla stregua di un congegno di cui si ignori dal principio
alla fine quale sia, l’utilità e il meccanismo che gli consente di funzionare
in maniera corretta.
E infatti
tutto appare sbagliato, in Alexia: la placca in titanio conficcata nel cranio
dopo l’incidente, l’amore misto alla violenza, e intorno uno sfumare continuo
di sentimenti in altri sentimenti indefiniti: senza ruolo, appartenenza o punto
d’origine. Pare quasi un vortice, una voragine, dove tutto è vuoto, è eco. Prima
o poi qualcosa dovrà pure combaciare, riempire, non slittare ma fissarsi alle
pareti di quel corpo estraneo; farsi sostanza e radice dalla quale ripartire.
Julia
Ducournau ha un modo molto interessante di raccontare la donna, oltre che la
maternità. Ha uno sguardo duro e gelido, estraneo e non partecipe. Sembra quasi
chiedere ai personaggi usati come piccole pedine, quale sia il finale e non la
morale: non vi è nulla di giusto e sbagliato, nulla di ovvio. Solo passioni
brucianti e ricordi scontornati, mutevoli. Un erotismo da fare storcere il muso
a molti, ma carnale anche se macchinoso in un senso vicino alle mille
difficoltà oggettive, ma anche in uno meno ovvio, che si accosta alla ferraglia: l’orgasmo
non è solo della carne nella carne, ma del corpo estraneo che si trovi a
torcere e toccare a fondo luoghi inesplorati, qualunque sia il gioco della
mente a renderlo vivo ben più di chi, semplicemente, respira.
Il
dolore pure fisico, è un fatto puramente casuale, necessario; non per forza più
doloroso del male venuto in senso figurato a corrompere e spezzare l’animo
umano.
La
maternità, in tutto ciò, non è che una trasformazione quasi presuntuosa, quasi
violenta, ad appropriarsi di un corpo che prima vedeva scorrere nelle vene una
linfa simile al titanio che dà il titolo al film, e alla benzina che disseta le
auto viste come una prolunga del corpo umano, una voglia sibilante, perentoria,
senza alcuna giustificazione. L’amore verso una creatura che si nutre del
proprio essere, che abita l’organismo e lo vede, lo conosce ben più intimamente
di chi lo riveste di ossa, passi e sogni, non gode di un affetto venuto per
istinto ma di risentimento, incredulità, rigetto; e soltanto alla fine, di
stupore e benefico supporto, curiosità. Voler bene non viene che poi, quando è
quasi ora di chiudere tutto, voltarsi, non chiedersi mai più il motivo di pene
atroci e ingiuste cause subite e inflitte. Non è scontato e non è dovuto:
ciascuno di noi lo apprende come può, in ogni modo lecito e illecito e a
dispetto delle conseguenze che dovrà subire.
In Raw, una cruda verità, è Justine a
impersonare una giovane donna all’apparenza ingenua, fragile, tutta votata a compiacere
una madre dai modi severi.
Una
vegetariana iscritta alla facoltà di veterinaria, con le carcasse sanguinolente
di animali prestati alle mani incerte di aspiranti medici.
Anche
qui, le donne hanno un ruolo di primaria importanza: gli uomini sono giusto un
contorno sfizioso, una visione presa in prestito, un gustoso sfizio in una
notte senza sonno. E gustoso è un
termine a dir poco azzeccato, poiché il gusto non è solo dei baci venuti a
siglare un patto segreto tra due amanti, ma è della lingua che assapora tratti
di pelle dall’odore così buono e accattivante; assaggio che misura la giusta
distanza dal pasto vero e proprio, che in questo caso offre della carne umana. Quella
di Justine diventa un’ossessione, una fame implacabile che trova sfogo in comportamenti
esagitati e in un cambiamento radicale della protagonista, non solo nelle
abitudini alimentari ma nel corpo e nel carattere, nel modo di incedere e
appropriarsi del mondo, non soltanto vivendolo distrattamente, come di
passaggio.
Sorprende
quanto tutto venga narrato con naturalezza, nonostante le tematiche affrontate.
La musica incalza con ritmi accelerati nei momenti giusti, ma non vi sono scene
che ricalcano in maniera teatrale e in crescendo, quanto accade: ogni cosa ha
un impatto quasi minimo sulla vita di tutti i personaggi, per quanto enorme sia
il cambiamento e quella stessa fame, che nessuno mai potrebbe giustificare.
Il
finale lascia colpiti allo stesso modo: non con effetti grandi, ma con eventi
che spiazzano, narrati perfino a bassa voce; mentre una voce canta, in un
abbraccio in solitaria, disperato:
«La
notte adesso scende
Con le
sue mani fredde su di me
Ma che
freddo fa
Ma che
freddo fa».
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