mercoledì 6 ottobre 2021

Circuiti, Odori e Sapori della Bellezza Femminile per Julia Ducournau

 


Pensavo a quanto sia necessaria e potente, la bellezza. Quella che a suo modo delimita ruoli e confini, che risveglia il consueto e il fantastico, lascia migrare le fantasie verso un altrove che il più delle volte risulta compiuto e pacifico ben più del vero nel quale si resta immersi.
Persino il brutto ha una sua funzione, una spinta quieta che rivolta le sorti dell’insignificanza: al di fuori dell’indifferenza, vi è un orizzonte di risorse infinite da prendere in prestito da tutto quanto ci rivela chi siamo, anche a un primo sguardo, con un rifiuto netto a scoraggiare illusioni varie e congetture. Qualsiasi cosa scateni una reazione che si allontana dal torpore di chi preferisce il nulla al tutto, diviene ad un certo punto desiderabile. E desiderare esercita un'attrazione che ancora una volta conduce al bello e al brutto, alla negazione o al bisogno di diventare parte di un insieme più ampio, in divenire.
La bellezza ha avuto un ruolo cruciale in due film visti di recente. Nell’ordine: Titane e Raw, una cruda verità. Il primo visto al cinema, e dunque pregno di una commistione di odori, atmosfere e suoni molto efficaci. Il secondo a casa, da sola, in un giorno di pioggia e fame da non intendere in senso letterale, tantomeno in uno che si avvicini all’energia insopprimibile e spinosa espressa nella pellicola.
La regista di entrambi i film, Julia Ducournau, ha un’abilità a mio parere deliziosa, che è quella di far sembrare scorrevole una narrazione farcita di tematiche a dir poco sfaccettate e ingombranti. Le donne ricoprono ruoli di una forza a loro modo lirica e tenace, distruttiva e ancora in potenziale: si lasciano divorare dal male, dal dolore di un’esistenza cattiva, capitata loro per inclinazioni malsane e strani giochi di un destino avverso. E sono loro a impersonare quello stesso male, infine, plasmandolo secondo personalità che conoscono i punti acerbi dell’inesperienza e quelli di vedute più ampie che si possiedono seguendo impulsi ai quali contrapporre una minima resistenza, poiché non vi è imperativo più efficace di una natura emersa dal profondo dell’animo, a dispetto di qualunque difficoltà.
 
In Titane incontriamo Alexia; la seguiamo in molte fasi della sua esistenza: in versione bambina e donna, in carne ed ossa e in carne, ossa e metallo. È una specie di piccola donna bionica, resa un poco artificiale da un incidente in auto, mentre era in viaggio con un padre che per l’intera durata del film non mostra alcun tipo di slancio verso una creatura che pare quasi non riconoscere, non apprezzare; sembra addirittura non la consideri neppure, alla stregua di un congegno di cui si ignori dal principio alla fine quale sia, l’utilità e il meccanismo che gli consente di funzionare in maniera corretta.
E infatti tutto appare sbagliato, in Alexia: la placca in titanio conficcata nel cranio dopo l’incidente, l’amore misto alla violenza, e intorno uno sfumare continuo di sentimenti in altri sentimenti indefiniti: senza ruolo, appartenenza o punto d’origine. Pare quasi un vortice, una voragine, dove tutto è vuoto, è eco. Prima o poi qualcosa dovrà pure combaciare, riempire, non slittare ma fissarsi alle pareti di quel corpo estraneo; farsi sostanza e radice dalla quale ripartire.
Julia Ducournau ha un modo molto interessante di raccontare la donna, oltre che la maternità. Ha uno sguardo duro e gelido, estraneo e non partecipe. Sembra quasi chiedere ai personaggi usati come piccole pedine, quale sia il finale e non la morale: non vi è nulla di giusto e sbagliato, nulla di ovvio. Solo passioni brucianti e ricordi scontornati, mutevoli. Un erotismo da fare storcere il muso a molti, ma carnale anche se macchinoso in un senso vicino alle mille difficoltà oggettive, ma anche in uno meno ovvio, che si accosta alla ferraglia: l’orgasmo non è solo della carne nella carne, ma del corpo estraneo che si trovi a torcere e toccare a fondo luoghi inesplorati, qualunque sia il gioco della mente a renderlo vivo ben più di chi, semplicemente, respira.
Il dolore pure fisico, è un fatto puramente casuale, necessario; non per forza più doloroso del male venuto in senso figurato a corrompere e spezzare l’animo umano.
La maternità, in tutto ciò, non è che una trasformazione quasi presuntuosa, quasi violenta, ad appropriarsi di un corpo che prima vedeva scorrere nelle vene una linfa simile al titanio che dà il titolo al film, e alla benzina che disseta le auto viste come una prolunga del corpo umano, una voglia sibilante, perentoria, senza alcuna giustificazione. L’amore verso una creatura che si nutre del proprio essere, che abita l’organismo e lo vede, lo conosce ben più intimamente di chi lo riveste di ossa, passi e sogni, non gode di un affetto venuto per istinto ma di risentimento, incredulità, rigetto; e soltanto alla fine, di stupore e benefico supporto, curiosità. Voler bene non viene che poi, quando è quasi ora di chiudere tutto, voltarsi, non chiedersi mai più il motivo di pene atroci e ingiuste cause subite e inflitte. Non è scontato e non è dovuto: ciascuno di noi lo apprende come può, in ogni modo lecito e illecito e a dispetto delle conseguenze che dovrà subire.



In Raw, una cruda verità, è Justine a impersonare una giovane donna all’apparenza ingenua, fragile, tutta votata a compiacere una madre dai modi severi.
Una vegetariana iscritta alla facoltà di veterinaria, con le carcasse sanguinolente di animali prestati alle mani incerte di aspiranti medici.
Anche qui, le donne hanno un ruolo di primaria importanza: gli uomini sono giusto un contorno sfizioso, una visione presa in prestito, un gustoso sfizio in una notte senza sonno. E gustoso è un termine a dir poco azzeccato, poiché il gusto non è solo dei baci venuti a siglare un patto segreto tra due amanti, ma è della lingua che assapora tratti di pelle dall’odore così buono e accattivante; assaggio che misura la giusta distanza dal pasto vero e proprio, che in questo caso offre della carne umana. Quella di Justine diventa un’ossessione, una fame implacabile che trova sfogo in comportamenti esagitati e in un cambiamento radicale della protagonista, non solo nelle abitudini alimentari ma nel corpo e nel carattere, nel modo di incedere e appropriarsi del mondo, non soltanto vivendolo distrattamente, come di passaggio.
Sorprende quanto tutto venga narrato con naturalezza, nonostante le tematiche affrontate. La musica incalza con ritmi accelerati nei momenti giusti, ma non vi sono scene che ricalcano in maniera teatrale e in crescendo, quanto accade: ogni cosa ha un impatto quasi minimo sulla vita di tutti i personaggi, per quanto enorme sia il cambiamento e quella stessa fame, che nessuno mai potrebbe giustificare.
Il finale lascia colpiti allo stesso modo: non con effetti grandi, ma con eventi che spiazzano, narrati perfino a bassa voce; mentre una voce canta, in un abbraccio in solitaria, disperato:
 
«La notte adesso scende
Con le sue mani fredde su di me
Ma che freddo fa
Ma che freddo fa».



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