giovedì 18 giugno 2020

Avenida Libertador




Non li ha inghiottiti la terra. Era l’aria?
Come le arene del mare innumerevoli; non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.

Noi non li compiangiamo. Non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono dovunque.

Senza gli assenti, nulla ci sarebbe.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.

Gli scomparsi sono giusti.
Cosí anche noi in un’eco.

 Hans Magnus Enzensberger


Leggere significa trovare tra le parole un respiro nuovo in ogni istante. Scomparsi i loro nomi, i cucchiai, le suole: resto imbrigliata in questa frase dalla musicalità stanca, avvolgente per difetto, mai arresa; e ogni volta ha un’eco diversa, un’ombra sottile lì dove prima era tutto forma e calore.

Si può disegnare un’assenza con toni leggeri, appena percepibili; eppure quella è un male netto e senza cura che dilaga, preme e non dà sollievo.
Assenti sono i desaparecidos che racconta Cristina Amato in Avenida Libertador (Divergenze edizioni): esistenze sbiadite loro malgrado, ma non nel ricordo di chi si adatta ai giorni svuotati degli amori che sapeva e che sa ancora nel tempo presente, pure col bene dell’appartenersi privato di ciò che è vero, tangibile. Le parole usate per dare corpo a ciò che scolora sono tenaci, forti, restituiscono una voce a chi ormai non ne ha e una giustizia almeno ideale, a dare un conforto pallido e carezzevole a chi legge e immagina, e a chi ha vissuto una tale e ingiusta privazione. A fine lettura resta l’immedesimazione e non la certezza del sentimento; e non è poca cosa, se si pensa che i nomi sono fittizi, e i personaggi rivelano il loro valore di persone pure restando imbrigliati nei confini agrodolci dell’immaginario. Si ama Tamar: giovane donna astuta, coraggiosa e volitiva, che non teme la forza del pensiero anzi lo innalza, lo porta avanti e ben oltre lei stessa. Lo porge senza ritrosie a chi teme la libertà di espressione, riflessione e scelta; perché insieme per alcuni non è che un sinonimo di identico, comune, piatto e dunque facile all’esercizio sterile del controllo da opporre a una spontaneità che invece culla Tamar, la identifica.
L’identità converge anche nel nome e nel cognome: quello di Lucas Tizak è molto caro a Tamar. I due coltivano un amore che prende slancio dalla diversità di carattere: uno schivo, l’altra esuberante. E imita i colori di Buenos Aires come in un fermo immagine: è il 1978 e l’atmosfera è densa di contrasti; da un lato la forma squadrata e gelida della dittatura militare e dall’altro la febbre sottile e vibrante dei gruppetti di tifosi in attesa dei mondiali di calcio.
Lucas come tanti, viene rapito. Occorre scoraggiare le iniziative ragionate, fiere: la ribellione è da ostacolare col mutismo, e quello va indotto in ogni modo. Chi mostra di saper scegliere ciò che è giusto per sé, si discosta da un insieme e va riportato nel gregge.
Alla purezza di Lucas che lotta contro sé stesso finché può, pur di tenere in salvo chi ama, va contrapposta la micidiale freddezza di chi davanti ad azioni ignobili e disumane non batte ciglio; di chi non sente il male addosso, neppure per associazione: come accade a chi deve avere negata l’infanzia e qualcosa, una sorta di meccanismo rotto, inceppato tra lo sterno e la forma dissolta dell’anima.
Tra le pagine si delineano le figure di una madre-scoglio, madre fiume; della sorella di Lucas che quasi sbiadisce insieme al fratello, pure essendo combattente e combattuta. Il padre del ragazzo che si segue da vicino per l’intera vicenda, è una sola briciola davanti a una montagna di dolore. È il bambino vero, e non importano gli anni sulla schiena, la barba sul volto.
Si incontrano e non si dimenticano lunghe lettere che trovano risposta solo in mondi paralleli; un figlio veste i panni di colui che lo ha messo al mondo, una bimba con due nomi e una sola identità, una donna col ventre dolorosamente vuoto, e un libro interrotto per sempre a pagina dodici. Poi il cammino stanco ma felice di chi ritorna sapendo che nulla apparirà come alle origini. E si sente nascere due volte, mentre porta con sé il peso dei ricordi cari e voluti, e non rinnega gli episodi marci, poiché spera di ricavare da quelli una memoria rafforzata e indelebile.




Nessun commento:

Posta un commento