mercoledì 10 giugno 2020

Se una notte d'inverno, i Pogues




Sono giorni di pioggia, questi. Giorni e notti d’aria fresca a pungere la nuca, a pettinare le ciglia appese alle palpebre intente a imitare il sonno, solo per fare più intimo il pensiero e l’immagine che rievoca serate invernali: sere brillanti odorose di legna, di fuoco e dimenticanza; ed è lì che viene facile cercare gli opposti per il modo in cui riescono ad attrarsi, certe volte, in un viluppo stretto e saldo che viene da lontano, prende due parti e le vede coesistere sotto lo stesso cielo, la stessa terra calpestata coi piedi stanchi e coraggiosi.

Vi sono giorni in cui mancano le storie: quelle narrate in un tempo di gufi e saette, di luoghi lontani dalla calca, dalla gente che conta, con le confidenze lasciate gocciolare via da un bicchiere rotto, dagli occhi lucidi e le guance imporporate: luoghi lontani e suoni che evocano una geografia esatta, anche quando non proviene da un’esperienza diretta, ma da un disperato volere ogni cosa, all’infinito. Giorni venuti col desiderio di viaggiare, per le linee di un solo sentiero intravisto, lungo le curve e le salite ripide. Viaggiare per istinto, per sapere la meta successiva, per stancare le gambe appesantite da una ripetuta immobilità, e sgranchire l’animo che non sa più lasciarsi andare; scioglierlo in un ballo disinvolto in una notte tutta luna, che se si ascoltano i Pogues è proprio facile che conduca almeno nella fantasia, nelle terre d’Irlanda. I Pogues che in origine avevano scelto il nome di Pogue Mahone (in gaelico: Baciami il culo), per siglare la loro unione e farsi riconoscere. Proprio loro: coi suoni di violini e fisarmoniche, spesso dirompenti e a volte grezzi, che serve amarli oppure odiarli, senza mezze misure. Ascoltandoli, viene un pensiero che somiglia a certe foto: di quelle che un tempo bisognava saperle fare, e adesso sono solo gesti meccanici, stupidi tributi a una tecnologia che invade e non completa; che proietta il soggetto in uno scatto, lo fa presente per riflesso; e quello intanto scorda di essere già lì, in favore di una testimonianza da portare ad altri per vanto. Si finisce non di rado a vivere per sentito dire, avendo nelle orecchie il richiamo di altre tentazioni, come Ulisse con le sirene: succede di scoprire che ciò che viene dato per necessario, è soltanto un inganno. Che è fondamentale solo sapere i propri spazi, anche e soprattutto interiori; e imparare ad amarli.

Lo cerco ma non lo so ancora usare, questo balsamo. La ragione è sicurezza ed è follia al contempo: l’immaginazione solleva da ogni ingombro, quando ci si addentra in riflessioni tortuose. Ed è allora che si approda dritti nelle note di Sit Down By The Fire, che è una vecchia polaroid, polvere e ritmo. Capelli sciolti e mani sui fianchi, la compagnia di molti e gli occhi per uno soltanto. La voce di Shane MacGowan corre e pizzica, ha una velocità che è respiro ben dosato; è racconto già appreso e offerto, col trasporto che si deve agli impulsi, alle buone alleanze: quelle che bisogna allacciare con una voce amica, con un tepore insperato, tra le braccia della notte o di qualcuno che sappia alleviare la paura di un buio che striscia, sibila, danza con l’inquietudine che sbuffa e scalcia in compagnia della Signora Suggestione. E allora bisogna strizzare forte gli occhi, fare finta di non sentirle neppure, quelle odiose presenze: non-esseri venuti da chissà dove, a un passo dal letto, fin dentro i sogni più scuri e senza fondo.

If I Should Fall From Grace With God è un album del 1988 che reca in molti punti un’atmosfera vivace-e-veloce, nonostante i temi trattati e proprio per quelli. Rallenta un po’, certe volte. Plana su Lullaby of London con la dolcezza che può, con dei residui di malinconia nella voce. La tenerezza è una cura buona per pochi, una premura da destinare agli amori scelti: la migliore difesa contro chi vorrebbe una massa senza slanci, disumana. Siamo capaci di proteggere dalla realtà e dagli incubi, coi mezzi limitati di cui disponiamo, col corpo-guscio e l’animo in tempesta. E se si può fallire lo si fa, custodendo ancora e fino all’ultimo i buoni intenti. Streets of Sorrow si lega stretta a Birmingham Six. Una ha il sapore amaro del rimpianto, delle strade conosciute, amate, e di una separazione forzata: narra le volte in cui lasciare un luogo è una sconfitta, un prezzo da pagare per gli orrori vissuti, per le vite offese e smesse, e non per scelta ma per il torto di una mano nemica. Birmingham Six ha la grinta di una denuncia osata con voce ruvida e battente:

«You'll be counting years
First five, then ten
Growing old in a lonely hell
Round the yard and the stinking cell
From wall to wall, and back again».

Il testo racconta la vita di Hugh Callaghan, Patrick Hill, Gerard Hunter, Richard McIlkenny, William Power e John Walker, i “Sei di Birmingham” ingiustamente torturati e incarcerati per la morte di 21 persone, avvenuta in seguito all’esplosione di una bomba che si presumeva avessero piazzato proprio loro, in due diversi locali inglesi in città, nel periodo dei conflitti tra il governo inglese e l’IRA: l’esercito di liberazione clandestino dell’Irlanda del Nord. Stessa sorte toccò ai Guilford For, citati anche loro nel pezzo: Paul Hill, Gerry Conlon, Patrick (Paddy) Armstrong e Carole Richardson, accusati ingiustamente nella morte di innocenti, in seguito a una carica esplosiva piazzata in un pub di Guilford. Anche loro furono costretti a firmare delle dichiarazioni di colpevolezza in stato di semi-incoscienza.

È con Fiesta che si torna ai ritmi spediti e allegri di un gruppo serio ma non troppo, e scalmanato quanto basta: è una canzone che ammicca, che diverte; comincia piano, per sorprendere. Poi è una folle corsa per le strade della Spagna: lo spagnolo si insinua tra le righe, e rende l’insieme anche più caotico e incalzante. Non mancano i riferimenti a Coleridge, come a un chochona che parrebbe non avere un significato preciso, messo lì solo per il suono e con intento goliardico, malizioso e dirty, come direbbero gli inglesi. Non mancano neppure i riferimenti a Costello “el rey de America” e alla bassista del gruppo Cait O’Riordan: i due se la intendevano non poco, al punto che si sposarono a dispetto di un contrariato MacGowan, memore di un amore nutrito e poi dissolto tra un canto rabbioso e una potente bevuta. 

Il brano che presta il titolo all’intero album, If I Should Fall From Grace With God, è una dichiarazione d’amore per la propria terra, per la libertà di vivere e viversi come possibile, anche sull’orlo del fallimento, anche da emarginati: con gli occhi puntati a una realtà che non si cerca di abbellire ad ogni costo, che va presa per quello che è, con la dignità che spetta a ognuno: nella vita e nella morte. Così Shane canta:

«Bury me at sea
Where no murdered ghost can haunt me
If I rock upon the waves
Then no corpse can lie upon me».

 E questa sì, mi pare una libertà di tutto rispetto.




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