Il Dio di Martin Michael Driessen
Mi
chiedo da quando non ho risposta, cosa ci sia di più divino del restare piazzati
dentro certi abbracci. Dove possa ritrovarsi un dio dalla pelle gialla, bianca,
nera, un dio donna, uomo, giovane o anziano, se non nel mare che brontola la
notte e allaga i pensieri, nei discorsi tutti interiori di chi deve tirarsi a
galla, nello stupore, nelle mancate giustificazioni, nella musica che ricorda
qualcuno e in qualcuno tutto e solo umano che è musica e letteratura, quiete e
scompiglio felice. Immagino un dio nascosto nel grembo di una montagna e nello
sguardo dei gatti; uno che si adagia sui contorni di un’isola, uno nel fragore
delle solitudini e sulle mani paffute di un bambino quando ancora non ha
coscienza di sé, non sa di impersonare la perfezione.
Non
ho sentenze da avanzare, nessuna predica, niente discorsi sensati. Mi avvicino
all’argomento con un misto di intimità, soggettività, e con la curiosità che mi
porta a fare domande su domande da quando un prete mi zittiva con tre Ave Maria
e un Padre Nostro nei pomeriggi che seguivano le lezioni di catechismo. Io
sbadigliavo, volevo le storie, volevo capire soltanto quella storia grandiosa
di un uomo magico che vive, muore e torna a vivere anche per me. Ma
lontano-lontano, in quello che da piccina disegnavo come una specie di spazio,
una stella ammobiliata senza obblighi d’affitto. Sono passati molti anni e
ancora vorrei quelle storie, ancora vorrei chiedere, dubitare, restare
incollata alle convinzioni altrui e costruirmene di mie, pronte a sgretolarsi e
a ricomporsi in mille modi: le mie preghiere non sono statiche, non le voglio
recitare.
Ed è
qui che spunta Padre di Dio di Martin
Michael Driessen (Del Vecchio Editore).
Ho
sempre pensato alla forma umana ed emotiva del Creatore. Va bene, sarà pure
divino, ma non posso pensare che non sia stato in qualche forma appena un po’
terrestre, felice, deluso. Non mi sconvolgerebbe neppure pensare a un dio
innamorato, del resto cosa ci potrà mai innalzare se non l’amore sminuzzato,
adorato, sospirato e condiviso in ogni forma con chi si sceglie?
Martin
Michael Driessen è andato un bel pezzo oltre: si potrebbe ammonticchiare
aspettative e lui le scarterebbe superandole spedito. Padre di Dio diverte un mondo. Ma questo è riduttivo, poiché non si
sorride soltanto: la storia narrata è già conosciuta, ma è diversa la sostanza,
lo sguardo, l’interpretazione. Il dio di tutte le cose è prima di tutto un uomo
svagato, paradossale, malizioso. Con uno schiocco di dita crea intere galassie,
e i suoi sogni si materializzano: si fa presto con lui, a trovarsi in casa una
giungla, un concerto di lucciole, oppure Mosè in abiti discinti sul punto di rubare
con fare tutt’altro che divino, un pezzo delle sorti di un popolo esagitato. Le
cose vanno alla malora, l’essere umano riesce pure a scombinare i piani di Dio
che intanto carezza la testa piccina di Clara la colomba, che desta in qualche
modo le gelosie della governante Bartje intenta a preparare manicaretti vari.
Dalla cucina vede l’universo lungo ed eccessivo appiccicato a una finestra, e
la cosa la turba non poco. Bartje ha un debole per le forme sinuose e compatte
del corpo di Mosè sotto le vesti.
«Dio
si svegliò con i postumi della sbornia. A pranzo Bartje non osò rivolgergli la
parola, torvo com’era, la testa china sul piatto.
-
Vado a letto, - disse Dio dopo il dessert. Svegliami pure domani mattina.
- Non
è ancora finita? – chiese Bartje. – Pensavo che sarebbe stato tutto pronto in
sette giorni.
Dio
la guardò con gli occhi iniettati di sangue sotto le sopracciglia irsute e
disse: Tu non sai proprio che cosa sia
pensare.
La
governante stette zitta. Dio salì le scale come un vecchio e si lasciò cadere
sul letto col proposito di dimenticare l’intero creato. Per la prima volta lei
lo sentì russare».
Raccontare
le Sacre Scritture con il beneficio di un’ironia dissacrante e a tratti
blasfema, non è certo semplice. È abilità squisita di Martin Michael Driessen
anche quella di variare registro in molti punti: i personaggi vengono ritratti
alle prese con una quotidianità che ha le incombenze tipiche di chi con mezzi
diversi dai nostri, doveva pur sopravvivere. Maria è una donna armoniosa,
imprendibile. Giuseppe un padre che accetta suo malgrado una sorte dal sapore
aspro, e non conosce rassegnazione fino alla fine dei suoi giorni. Gesù nasce
piccino come tutti i bimbi, cresce con rari attimi di spensieratezza, sapendo
di avere un destino alto e sofferente da abbracciare. Padre e figlio
intraprendono un lungo viaggio: l’adulto non trova pace e prova ad ostacolare i
piani di angeli improbabili e di un Padre Celeste che vuole sottrargli il suo
affetto più grande per sacrificarlo in nome di un bene maggiore. Ecco la
tenerezza che non conosce pietismi né smancerie, e le riflessioni che nascono e
crescono spontanee di pagina in pagina, quando ci si trova a osservare le cose
da un punto di vista nuovo, amaro e comprensibile: era tutto definito, eppure…
Eppure
a volte ci si trova a rinnegare l’ovvio. Eppure a volte siamo eroi senza averne
l’aria. Eppure non era modo, ma era da tentare; eppure siamo qui, eppure chi
siamo?
Siamo
quelli che forse ridere un po’ non farà male. E se alla fine ci faremo seri non
sarà un’aria grave e greve, quella che respireremo. Sarà un vento nuovo,
sottile, venuto da un bacino di stelle e da una mano divina, un alchimista
buono che ha sognato formule e possibilità, fiori, carne e cielo. E da allora
siamo qui: quante volte lo scordiamo?
Semplicemente, meraviglioso
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