martedì 28 dicembre 2021
Nothing's Gonna Hurt You Baby
venerdì 3 dicembre 2021
È Stata la Mano di Dio
È stata la Mano di Dio a dire quando fu il tempo di
ridersi la vita addosso, scagliarsela contro come il più agguerrito dei giochi, come la sfida amata più del dirsi "bravi, avete fatto bene, avete fatto tutto
giusto". Vi sono attimi in cui fare male, fare sporco e impreciso per
godersi il passaggio dal nulla al tutto, vale più di ogni regola seguita
passo-passo. Vale la presa di coscienza che rasenta la perfezione perché
finalmente viene e schiarisce. Viene e porge un senso alle cose rimaste sopite da lungo tempo, se non da sempre.
È Stata la Mano di Dio, visto ieri al cinema, porta l’impronta
di un Sorrentino che ha l'abilità di essere carnale, pronto ad esplorare il
mondo che intende raccontare, e non per imitazione. Solo un po' compiaciuto,
forse, per gli effetti speciali che quasi sempre derivano dall'immagine e
dall'effetto che questa porta con sé.
Nel
film, la visione è quella di una Napoli vissuta e tenace, Napoli bella che non
chiede mai: si concede come il più tenero degli amanti, il più audace e
flessuoso, coi suoi odori e le stradine anguste, i cieli che mutano come
l'umore e le esperienze di chi li osserva e intanto vive una manciata di
istanti addossato uno all'altro e non li vede ammucchiarsi fitti-fitti fino a
farsi esistenza compiuta, finita.
La
Napoli del dio Maradona, la fede nel calcio che unisce anche chi non ce l'ha,
perché è sfacciato il talento e il legame che celebra: legame con la terra che
è madre e sovrana, legame che è come le viscere; e il mare tutto intorno altro
non è che sangue che nutre gli organi, li rende capaci di sostenere il corpo di
nascosto: restare fissi e immobili, e da tali muovere tutto il fuori dall'interno.
I personaggi del film hanno una bellezza a tratti dolorosa: la zia Patrizia possiede
la bellezza, non le è soltanto capitata. E se respira, se si muove e guarda un
punto lontano, inafferrabile, lei crea abissi intorno a sé. Abissi di stupore e
quasi adorazione; e di scalpore, perché ciò che è bello e non si può toccare
crea quasi sempre un sentimento sbigottito e ostinato, come una foto sfocata
che racconta l'attimo in cui da fermo il soggetto si è mosso, come per dire
"no, io qui così non ci posso stare". Patrizia è un incanto triste.
Ha gli occhi languidi e di un buio pesto, come la notte. Pure ridendo non celano
il male di una donna che vorrebbe essere altro e non può. E pare sempre così di
passaggio, lei che tutto sommato è coriacea; pare sempre sul punto di togliersi
la vita, specie quando resta sospesa sul ciglio di un pendio scosceso, con
rocce a capitolare nell'infinito blu di un mare da levare il fiato. E invece
lei galleggia, avendo nel cuore un peso di piombo e destando amori grandi che
sono anche un tabù: neppure il nipote Fabietto può sottrarvisi. Sta lì è non la
tocca neppure, la guarda come fosse una dea sconfitta e sinuosa che lascia
indovinare il mistero di accostarsi a una donna per un gioco diverso da quello
dell'infanzia; anche quando è ancora troppo presto per saperlo sul serio.
Fabietto
quando si invaghisce di qualcosa, resta incantato e si direbbe assente: la
bocca schiusa come i pesci quando ingoiano gli ultimi istanti di vita fuori
dall'acqua, e lo sguardo stordito, inebetito, come se tutto fosse troppo a un
certo punto; è un privilegiato che gode della benedizione di sentirsi toccati e
rimestati con forza da tutto ciò che esiste.
Fabietto
è piccolo, vive sotto le ali di una madre imperfetta e luminosa. E un padre
partorito da Servillo, l’amato Servillo che sa sempre il fatto suo. Qui incarna
tutte le sfumature dei papà quando sono belli quasi da far male, perché pregni di
troppi sbagli e frammenti a rendere per paradosso intatto tutto quanto: ogni
sbaglio, ogni tentativo di dire o mostrare affetto, anche se nulla poi va come
si vorrebbe e lo si vede, quel papà, barcamenarsi in lungo e in largo in un
mondo di cose in conflitto eppure stranamente armoniche, e sempre amate.
Fabietto
resta solo pure avendo tanti intorno, all'improvviso. E capisce che a volte, piangere
non è così facile come si vorrebbe. Capisce che si può farlo pure col volto
proprio asciutto, piangere con un nodo in gola colloso, di piombo, che poi si
scioglie a suo piacimento e coglie di sorpresa, destabilizza in ogni modo.
Fabietto
impara cosa accade quando un flusso si muove da un corpo all’altro creando
legami di qualche tipo, reazioni immediatamente fisiche da meccanismi per lo
più mentali: un desiderio che ha la pretesa finta e dolce di insegnare il
futuro, e non è facile che lo si racconti così, affidato a un’accoppiata scomoda,
spinosa. Un ragazzo e una donna dalla bellezza intensa, seppure troppo vecchia per godere di un corpo senza
cogliere nell’atto sessuale la sola tenerezza: per il tempo andato e per quello
agli sgoccioli, per i lunghi capelli che qualcuno prima di allora deve avere a
lungo districato, accarezzato, tenuto stretti tra le mani per giocosa e complice
imposizione. Una donna che sa bene che a volte scordare è un verbo che salva,
uno che bisogna dire a voce alta e con fermezza, per salvarsi da gorghi taciuti
e aguzzi. E lui non vede su di lei le pieghe che prende il corpo, come un pezzo
di stoffa sgualcito eppure amato forte. Non vede le rughe e se le vede non
importa: affonda nel suo vuoto che viene per contrasto; è abisso perché così
dice il corpo di lei se si schiude, ma sanno tutti che al vuoto si contrappone
una pienezza che risiede altrove, e che di pudore ne sa molto, perché è con
quello che lei si difende e si concede per davvero.
L’intero
film è intriso di una certa nostalgia, fortissima pure quando tutti ridono. Nelle
case piene di allegria, con le orecchie drizzate verso il caos dei tifosi a
partita vinta a spezzare il silenzio nelle strade coi cori urlati, festosi, e
gli striscioni bianco-azzurri a sventolare ovunque. Nelle giornate trascorse a
sprofondare nel mare, con al fianco scie fumose di vulcano; e nei ritratti di
una città e di un tempo che non saranno mai uguali: muteranno sempre, come i
ricordi dei giorni felici, nei luoghi felici; sapendo che chi fa luminoso un
tempo e una distanza altro non è che il bene che si scambia chi può.
Gli
scorci e le riflessioni da contemplare sono così tanti, e molti di questi
combaciano con la magia che è credere in un prodigio che viene per caso o
volontà, nel vero o appena oltre i confini del concreto: lì dove la
superstizione coincide con l’alchimia; dove il velo tra credere e potere è
troppo sottile, e allora che male può fare aprire gli occhi e sognare un po’.
Che male può fare chiuderli poi a bordo di un treno, nei pressi delle incognite
e nei punti conquistati con fatica, rubati a un gioco sleale e tutto sommato
mai definitivi. Perché si può cambiare forma almeno in parte al proprio vivere,
mutarne alcune svolte e infelicità, solo credendoci.
martedì 19 ottobre 2021
Cuòre: Sostantivo Maschile
Amo le poesie, in particolare quelle senza rime. Quelle che non hanno troppi argini, battono dove tutto duole perché è bene indagare il dolore in ogni forma e senza inutili tabù, insieme alle paure, alle rivalse che non sono da alimentare né da allontanare: capitano come goffe mosse di esseri piccini, dispetti di infante sopra i giochi svelati al contrario di come si voleva; e dire che il finale non voleva mica essere buono o cattivo in partenza, ma porre solo un punto tondo e fertile dal quale ripartire.
Al teatro se ne trovano, di poesie. Specie negli spettacoli che sollevano e nutrono una curiosità che comincia a dipanarsi da inviti silenti, energici e gentili, allungati a macchia d’olio, di bocca in bocca. Ad Angela Di Maso devo la gratitudine per l’invito a me destinato, che mi ha permesso di conoscere due attrici favolose e confermare l’idea che avevo di una drammaturga già apprezzata e da apprezzare ancora, con la calma dovuta ai riti che salvano dall’omologazione, dal fare-per-mostrare e non per godere, fino alla condivisione che serve a dividere esperienze per moltiplicare esempi ed entusiasmi.
Cuòre: sostantivo maschile è uno spettacolo che ha un effetto pirotecnico pari almeno a quello di chi lo ha ideato. E bisogna assistervi senza troppo badare all’età, alle diverse provenienze, ai pensieri che restano attaccati come polvere agli abiti: quelli non vanno lasciati fuori, scrollati, esclusi; ciascuno può e deve portare un pezzo del proprio mondo con sé, vederlo narrare da attrici capaci di una precisione puntuale, chirurgica, dissacrante. Nulla va tutelato, poiché si vive in mezzo ai danni e mica da dannati: siamo sacri esempi di inconcludenza, noi imperfetti umani; saltimbanchi e giocolieri, vittime e carnefici, ognuno con una parte di viltà o verità da biascicare, sussurrare o gridare a gran voce.
Grazie ad Angela, per la capacità di dire. Per i ritmi serrati e distesi, e ancora surreali, toccanti in un modo che davvero ha del sensuale, ed è a tratti violento, tenace, risoluto, pronto a farsi valere con poche cose e pause disseminate in un racconto che si addossa sopra quelle, riempie di tutto una scenografia davvero esile, minima, ridotta all’osso. Perché suppongo che si debba dare e darsi tanto col corpo e l’espressione, fortissimi entrambi, senza che nulla distragga da un significato che è così sfaccettato e ampio da non volerlo interrompere, diluire, coprire col superfluo.
Alvia Reale ha gli occhi grandi, lucidi, occhi di pozzo e di specchio, occhi che pure quando ride si allagano d’un tratto, ed è questo lo stupore. Sembra una sorta di perenne tributo a una natura nascosta, una cosa che le sfugge in ogni modo e parte: insieme al personaggio la persona, ma un passo indietro per non guastare l’incanto. Con gli abiti ben poco femminili, donna compiuta negli atti gentili, nei piccoli riti condensati in uno spiegare e ripiegare vecchi centrini come lembi di pelle di un corpo non più tale, andato e mai lasciato per davvero. Alvia parla con le parole e con la carne, non teme il suo corpo, non lo ripudia, parla di carezze da imparare e da spiegare, affinché pure chi non le sa possa apprenderle. Alvia infligge e subisce l’abbandono; e la sa lunga, mica come quelli che la vorrebbero zittire.
Daniela ha un gioco delizioso di ossa appena sporgenti, sul petto. Sembrano due volte belle, perché in una si fanno una strana metafora così vicina al suo essere leggero, imprendibile: pare che debbano trattenere pure quelle un volo di ostinati desideri, una nostalgia imbronciata e bambina, capriccio mai sconfitto nato in tempi lontani. Daniela è aggraziata, lieve come la veste fluttuante che indossa. Ed è gatto, è figlia, è un crescendo di movenze esasperate perché lei ama il ballo: lo dice il suo collo del piede, lo dice il suo corpo ferito, gettato come una cosa inerme sul freddo pavimento. Lo dice il suo sguardo che danza, e danza sulle punte perfino lui, che non saprebbe farsi indiscreto neppure volendolo. Daniela è la parte integra di un insieme smontato in ogni punto e rivisto, incollato, tenuto insieme col bene di una meraviglia sempre presente, a dispetto degli scherzi di un destino non troppo benevolo.
Una vocina mi dice che pure la pratica, non è che mi sia del tutto congeniale: capito in questo mondo con il volere imperioso di chi ha forse avuto poco, per poco impegno o bussole rotte, e troppe strade dissestate in cui inciampare. Ma ho da sempre e ovunque, pure in testa e nelle orecchie, il rumore insistente e dolce delle piccole cose, dei dettagli ignorati dai più; dei paesaggi dai contorni acerbi e sfumati tenuti in disparte, uniti alla voglia di essere viva con ogni male, con l’età da rivedere e misurare secondo sentimento, con l’ostinazione di chi non rinuncia a una forza latente e palese, utile ad avvolgere le cose oltre gli accadimenti e le brutture (in)necessarie: la stessa forza che chi vorrà potrà trovare in uno spettacolo fatto da donne e senza indirizzo, che innamorerà chiunque si fermerà a raccoglierlo.
mercoledì 6 ottobre 2021
Circuiti, Odori e Sapori della Bellezza Femminile per Julia Ducournau
Pensavo
a quanto sia necessaria e potente, la bellezza. Quella che a suo modo delimita
ruoli e confini, che risveglia il consueto e il fantastico, lascia migrare le
fantasie verso un altrove che il più delle volte risulta compiuto e pacifico
ben più del vero nel quale si resta immersi.
Persino
il brutto ha una sua funzione, una spinta quieta che rivolta le sorti dell’insignificanza:
al di fuori dell’indifferenza, vi è un orizzonte di risorse infinite da
prendere in prestito da tutto quanto ci rivela chi siamo, anche a un primo
sguardo, con un rifiuto netto a scoraggiare illusioni varie e congetture.
Qualsiasi cosa scateni una reazione che si allontana dal torpore di chi
preferisce il nulla al tutto, diviene ad un certo punto desiderabile. E
desiderare esercita un'attrazione che ancora una volta conduce al bello e al
brutto, alla negazione o al bisogno di diventare parte di un insieme più ampio,
in divenire.
La
bellezza ha avuto un ruolo cruciale in due film visti di recente. Nell’ordine: Titane e Raw, una cruda verità. Il primo visto al cinema, e dunque pregno di
una commistione di odori, atmosfere e suoni molto efficaci. Il secondo a casa,
da sola, in un giorno di pioggia e fame da non intendere in senso letterale,
tantomeno in uno che si avvicini all’energia insopprimibile e spinosa espressa
nella pellicola.
La
regista di entrambi i film, Julia Ducournau, ha un’abilità a mio parere
deliziosa, che è quella di far sembrare scorrevole una narrazione farcita di
tematiche a dir poco sfaccettate e ingombranti. Le donne ricoprono ruoli di una
forza a loro modo lirica e tenace, distruttiva e ancora in potenziale: si
lasciano divorare dal male, dal dolore di un’esistenza cattiva, capitata loro
per inclinazioni malsane e strani giochi di un destino avverso. E sono loro a
impersonare quello stesso male, infine, plasmandolo secondo personalità che
conoscono i punti acerbi dell’inesperienza e quelli di vedute più ampie che si
possiedono seguendo impulsi ai quali contrapporre una minima resistenza, poiché
non vi è imperativo più efficace di una natura emersa dal profondo dell’animo, a
dispetto di qualunque difficoltà.
In Titane incontriamo Alexia; la seguiamo
in molte fasi della sua esistenza: in versione bambina e donna, in carne ed
ossa e in carne, ossa e metallo. È una specie di piccola donna bionica, resa un
poco artificiale da un incidente in auto, mentre era in viaggio con un padre
che per l’intera durata del film non mostra alcun tipo di slancio verso una
creatura che pare quasi non riconoscere, non apprezzare; sembra addirittura non
la consideri neppure, alla stregua di un congegno di cui si ignori dal principio
alla fine quale sia, l’utilità e il meccanismo che gli consente di funzionare
in maniera corretta.
E infatti
tutto appare sbagliato, in Alexia: la placca in titanio conficcata nel cranio
dopo l’incidente, l’amore misto alla violenza, e intorno uno sfumare continuo
di sentimenti in altri sentimenti indefiniti: senza ruolo, appartenenza o punto
d’origine. Pare quasi un vortice, una voragine, dove tutto è vuoto, è eco. Prima
o poi qualcosa dovrà pure combaciare, riempire, non slittare ma fissarsi alle
pareti di quel corpo estraneo; farsi sostanza e radice dalla quale ripartire.
Julia
Ducournau ha un modo molto interessante di raccontare la donna, oltre che la
maternità. Ha uno sguardo duro e gelido, estraneo e non partecipe. Sembra quasi
chiedere ai personaggi usati come piccole pedine, quale sia il finale e non la
morale: non vi è nulla di giusto e sbagliato, nulla di ovvio. Solo passioni
brucianti e ricordi scontornati, mutevoli. Un erotismo da fare storcere il muso
a molti, ma carnale anche se macchinoso in un senso vicino alle mille
difficoltà oggettive, ma anche in uno meno ovvio, che si accosta alla ferraglia: l’orgasmo
non è solo della carne nella carne, ma del corpo estraneo che si trovi a
torcere e toccare a fondo luoghi inesplorati, qualunque sia il gioco della
mente a renderlo vivo ben più di chi, semplicemente, respira.
Il
dolore pure fisico, è un fatto puramente casuale, necessario; non per forza più
doloroso del male venuto in senso figurato a corrompere e spezzare l’animo
umano.
La
maternità, in tutto ciò, non è che una trasformazione quasi presuntuosa, quasi
violenta, ad appropriarsi di un corpo che prima vedeva scorrere nelle vene una
linfa simile al titanio che dà il titolo al film, e alla benzina che disseta le
auto viste come una prolunga del corpo umano, una voglia sibilante, perentoria,
senza alcuna giustificazione. L’amore verso una creatura che si nutre del
proprio essere, che abita l’organismo e lo vede, lo conosce ben più intimamente
di chi lo riveste di ossa, passi e sogni, non gode di un affetto venuto per
istinto ma di risentimento, incredulità, rigetto; e soltanto alla fine, di
stupore e benefico supporto, curiosità. Voler bene non viene che poi, quando è
quasi ora di chiudere tutto, voltarsi, non chiedersi mai più il motivo di pene
atroci e ingiuste cause subite e inflitte. Non è scontato e non è dovuto:
ciascuno di noi lo apprende come può, in ogni modo lecito e illecito e a
dispetto delle conseguenze che dovrà subire.
In Raw, una cruda verità, è Justine a
impersonare una giovane donna all’apparenza ingenua, fragile, tutta votata a compiacere
una madre dai modi severi.
Una
vegetariana iscritta alla facoltà di veterinaria, con le carcasse sanguinolente
di animali prestati alle mani incerte di aspiranti medici.
Anche
qui, le donne hanno un ruolo di primaria importanza: gli uomini sono giusto un
contorno sfizioso, una visione presa in prestito, un gustoso sfizio in una
notte senza sonno. E gustoso è un
termine a dir poco azzeccato, poiché il gusto non è solo dei baci venuti a
siglare un patto segreto tra due amanti, ma è della lingua che assapora tratti
di pelle dall’odore così buono e accattivante; assaggio che misura la giusta
distanza dal pasto vero e proprio, che in questo caso offre della carne umana. Quella
di Justine diventa un’ossessione, una fame implacabile che trova sfogo in comportamenti
esagitati e in un cambiamento radicale della protagonista, non solo nelle
abitudini alimentari ma nel corpo e nel carattere, nel modo di incedere e
appropriarsi del mondo, non soltanto vivendolo distrattamente, come di
passaggio.
Sorprende
quanto tutto venga narrato con naturalezza, nonostante le tematiche affrontate.
La musica incalza con ritmi accelerati nei momenti giusti, ma non vi sono scene
che ricalcano in maniera teatrale e in crescendo, quanto accade: ogni cosa ha
un impatto quasi minimo sulla vita di tutti i personaggi, per quanto enorme sia
il cambiamento e quella stessa fame, che nessuno mai potrebbe giustificare.
Il
finale lascia colpiti allo stesso modo: non con effetti grandi, ma con eventi
che spiazzano, narrati perfino a bassa voce; mentre una voce canta, in un
abbraccio in solitaria, disperato:
«La
notte adesso scende
Con le
sue mani fredde su di me
Ma che
freddo fa
Ma che
freddo fa».
domenica 26 settembre 2021
Le Carceri di Palazzo Steri a Palermo
Vi è
una lunga strada da percorrere, per arrivare a comprendere ciò che ha fatto da
culla e da sementi ai luoghi amati, soltanto conosciuti o ancora tutti da
esplorare.
Talvolta
non si narra di fatti piacevoli ma comunque affascinanti: di natura turbolenta,
insana, sbagliata ma pur sempre rivelatoria dello stato di coscienza o
incoscienza dell’essere umano; della concezione di giustizia improvvisata
sull’esercizio di parametri tutt’altro che nobili. Giunti a Palermo che è tutta
colori e profumi sferzanti, Palermo che è città feconda, orgogliosa e ferita,
si viene avvolti dalla nobile arte dello stordimento: quello dato dalla
bellezza, che maestosa e incantevole anche se imperfetta, rivede le coordinate,
le inventa, si lascia guidare dall’improvvisazione. E passo dopo passo, può arrivare
dritto fino alle carceri di Palazzo Steri.
Mettendoci
piede si viene avvolti da una processione di piccoli brividi sulle braccia, a
pizzicare pure la schiena; mentre gli occhi cercano appigli, con fame e con
pudore; e misurano il perimetro di stanze piccole, che si immagina come
raccoglitori di un dolore che non può aver cancellato le proprie tracce,
neppure dopo tanto tempo.
Siamo
ai tempi dell’Inquisizione, all’idea della tortura da usare come arma
infallibile contro chi veniva ritenuto colpevole di un’esistenza non concepita
come giusta e sana, marchiata come una colpa da punire. Le pareti conservano
tracce di fortissimo impatto, del passaggio di quelle anime alla deriva: vi
sono graffiti marcati sui muri, che i detenuti ottenevano amalgamando e usando
i pochi materiali a loro disposizione: residui di carbone nei piani alti della
costruzione, rimasti alla loro portata grazie alle stufe usate per riscaldare
ambienti gelidi. Oppure argilla e terracotta miste ad acqua o urina, che
venivano poi usati per raccontare una vita indegna su pareti che racchiudevano
da sole, la forza distruttiva di un calvario ingiusto.
“Manca
Anima”, scriveva qualcuno. E da solo pare una preghiera per rischiarare un
posto buio ed estraneo, che poteva facilmente accostarsi al proprio
corpo-gabbia, a un guscio di carne che non poteva oltrepassare come l’anima,
ogni ostacolo.
Ogni
sorta di tortura veniva dunque inflitta a ebrei, musulmani, streghe e stregoni,
omosessuali. Furono circa 8.000 le persone detenute, più di 500 quelle
condannate al rogo. Una pratica diffusa era quella della corda: la vittima
veniva legata per i polsi posizionati dietro la schiena e lasciata cadere
dall’alto, provocando slogature a braccia e spalle.
Camminando
a passi lievi nelle carceri di Palazzo Steri, si ripercorre con la mente anche
la storia di Fra’ Diego La Matina, recluso ed evaso più volte dai luoghi dalla
prigione che gli aveva portato nel tempo, diverse e atroci ferite. Il suo nome
resta indimenticato, amato e curato anche da Leonardo Sciascia nel suo Morte dell’Inquisitore, perché dopo
maltrattamenti disumani, riuscì a liberarsi dalle catene e uccise il suo
inquisitore usando come arma proprio i ferri che lo tenevano inerme, sapendo
che un simile atto lo avrebbe comunque condotto alla morte.
Sono
molte le storie altrettanto forti, che si possono apprendere in un giorno come
tanti: mentre fuori si resta affaccendati, innamorati, spersi, incantati; col
naso immerso in un libro o una canzone a riempire la mente e scandire i passi
sul selciato.
In un
giorno a Palermo, basta poco per prestare ascolto a ciò che forse consideriamo
poco: il senso della libertà nascosto nelle cose minime. E la fortuna di poter
considerare, amare e ammirare l’arte e la storia, a dispetto del calderone di
eventi orribili che talvolta racchiude.
giovedì 5 agosto 2021
La Gelosia in Alfredo Oriani
Vi
sono parti ben riposte, come la fiducia nelle cure di una persona amica o tra
le pagine di un libro, che coincidono alla perfezione. Gli affetti si ritrovano
con facilità insperata, a volte, proprio come la sintonia allacciata con le
parole che ancora rilasciano odori di un passato remoto e ben teso tra maglie
del tempo. Alcune letture non hanno nomi e forme comuni ai giorni attuali,
eppure con questi stringono un legame di totale comprensione e di supporto a
una capacità di pensare e immedesimarsi tratte con difficoltà in mezzo alle
cose dovute, arrese, alle cose futili che non di rado riempiono le ore con
inutili affanni.
Leggere
invece restituisce tempo al tempo, fa generose le ore colme di storie nuove e riflessioni
a creare spazi interiori e interpersonali di volta in volta più fecondi: accade
infatti di trovarsi profondi e inesplorati, e di scoprire delle affinità con
anime sparse e mai conosciute prima. I libri e i mondi che contengono non
conoscono confini o impedimenti, per chi li accoglie e condivide per mezzo
della parola e degli sguardi, ben più che sui social.
Gelosia di Alfredo Oriani (Divergenze) è
un esempio più che efficace di espressività non solo compresa ma facile da
incontrare e amare, nonostante la molta strada percorsa col suo fagotto di
contenuti e descrizioni incantevoli: dal 1894 sino a qui, e non la minima
traccia di stanchezza fra le righe. Dalla prima pagina si viene accolti da un
racconto dei luoghi vissuti e amati, quasi fotografico. Ai contorni terrosi e
dorati, si unisce una riflessione intesa in più versi: come di cosa che si
accoglie da fuori e mette ancora in circolo uno spettro di sensazioni
disparate, a scompigliare il dentro; e come pensiero covato in segreto e ben
oliato con la febbre, il conforto, la speranza di essere vivi con convinzione e
con trasporto autentici: «La strada, larga e dritta, in quell’incendio di sole
sembrava confondersi col tremolìo dell’aria, entro la quale la polvere,
sollevandosi, metteva tratto tratto una nebbia giallognola. Il caldo era
soffocante. L’ombra, ritiratasi sotto gli alberi, ne allargava la base dei
tronchi, e l’erba appariva sporca sui margini dei fossi, mentre nella strada
solitaria il solco dei veicoli e l’orma dei piedi si vedevano sino molto lungi,
profondi quanto nel fango.
Non
s’incontrava anima viva. Solo il coro delle cicale, nascoste fra le fronde,
seguitava a cantare con tale monotonia, che vi si sentiva sotto l’oppressione
del silenzio. Poi qualche uccello, staccandosi dalla cima di un albero,
sembrava gettare un lieve strido d’impazienza, e passava rapido nel sole».
È in
un cono di luce, in un’atmosfera densa e ambrata, che si allarga il gioco
sottile e malsano che vedrà restringere il cerchio intorno a pochi personaggi e
poi ad uno soltanto, che risponde al nome di Mario: giovane uomo dalle vesti
distinte e dai modi discutibili, che non ha mordente eppure ha pretese di
mordere un amore ostinato, ossessivo e fugace, che ha ben poco di ingenuo e
spontaneo; chi risponde con capriccio e rari istanti di esultanza al malato
amore di Mario è Annetta, che viene subito inquadrata da Oriani come una donna
dal temperamento sfrontato e vivace di una bambina: «i suoi occhi troppo
grandi, di un verde che talvolta pareva turchino, non avevano abbastanza luce;
la sua bocca fresca, coi denti bianchissimi, parlava e rideva colla stessa
vivacità; le sue guance avevano la brina delle pesche, mentre la sua fronte
liscia, di un bianco più intenso, pareva una benda sotto l’oro ardente dei
capelli».
Con
un solo guizzo nello sguardo, lei accende e spegne le esaltazioni di un uomo
come Mario che resta nell’ombra, figura cupa e bistrattata da sé stesso più che
dalle benevolenze di un avvocato, marito di Annetta, che vive realmente la vita
immaginaria, negata quasi per dispetto a chi ama di un amore illecito, lontano
dalle cose concesse per legge amorosa e divina.
E qui
l’amore prende una piega da raddrizzare, vive in pieno la negazione di
un’armonia che ne muove i fili quando tutto fila liscio: il tradimento non è
mai ammesso a chiare lettere; e l’affronto sotto gli occhi di tutti, contempla
l’offesa alla lealtà mista a un orgoglio non opportunamente omaggiato: così
Mario si vendica con pochi gesti anche teatrali di quella vita che lo ha
schivato per un soffio, del desiderio di ogni cosa che lo incatena a un’attesa
nuda e febbrile. Mentre gli altri avanzano, lui resta solo a guardare.
La
caratterizzazione dei personaggi avviene per mano di Oriani con una facilità
che spiazza e che gioca spesso per contrasti. Annetta col suo fare impetuoso,
viene presentata in un contesto che in nulla le somiglia: spunta infatti come
un piccolo sole al chiuso di una stanza disadorna, puntellata di attenzioni
scarse e imbastite da mani disattente, coi piatti di maiolica spaiati, foglie
di vite sotto i bicchieri e vecchie posate d’argento: pallido bagliore in un
insieme opaco, cadente. Tra pareti anonime, un tavolino zoppo e sedie malconce,
verrà un pasto frugale diviso con pochi e molte parole non dette a piovere nei
silenzi, nei muti gesti d’intesa, nella spasmodica attesa di un momento rubato
allo scorrere di un’esistenza avvertita come ingiusta e insensibile a qualsiasi
forma di ribellione, di consapevolezza e riscatto.
Nulla
importa davvero, se non la gelosia che nomina e scandisce i ritmi di un romanzo
che sfodera verità scomode con un’agilità e partecipazione che non possono
lasciare indifferenti; una gelosia che rivede il concetto di amore e lo riduce
a «un incontro fortuito, fors’anco prestabilito dalla natura fra due individui,
breve e violento, dopo il quale ognuno ripigliava la propria strada,
ricordandosi appena dell’altro, spesso conservandone una impressione
antipatica». È un residuo di amore, messo in dubbio da parole tutt’altro che
pacifiche e anzi risentite, pungenti; una rabbia vibrante e china su di sé,
ripiegata, scordata, rinnegata, a dare voce a Mario ancora una volta, che «come
tutti i gelosi, avrebbe voluto lasciare sulla donna la propria impronta,
cristallizzandola nella adorazione di se stesso».
Il
tormento e la fame di attenzioni da una sola e imprendibile donna, sono il filo
che tutto lega, annoda e disfa. La pretesa dell’altro al di sopra di ogni
evidenza, e la verità cruda e non voluta, tornano a ribattere in ogni punto, su
ogni pagina, il destino già segnato per chi non vuole intendere altro che la
propria fine.
Alfredo
Oriani ha una scrittura a tratti trasognata, e al contempo terrena, agile, capace
di incidere a fondo senza neppure forzare la mano; e deliziosamente antica: nel
leggere sembra di rovistare nei cassetti, nei bauli impolverati, in cerca di
tesori smessi, scoperti e amati ancora con rinnovata forza.
Alfredo Oriani: Gelosia. (Divergenze) |
giovedì 18 marzo 2021
La Vita Schifa
Poniamo
il caso che vi sia da qualche parte un senso compiuto, un cerchio aperto e poi
chiuso, coi punti stretti e liquidi da capo a fine; così non solo in geometria,
ma nel verso stolido e pensato che pretende di sapere il senso che non c’è: della
vita, della fame e della morte, camurrìa! Il senso della cura prima della
malattia: con quelli che sono medici improvvisati, figuranti a mescolare il
ruolo con l’essenza, distratti da un nulla chiassoso: fuori è ciò che conta,
fuori dai gangheri, fuori tempo e dentro un coro di identiche voci.
Eppure
si trova un conforto e un rifugio perfetto, nonostante la confusione di intenti
e mancate prospettive, e la voglia di restare col naso all’insù a lasciarsi
tramortire dalle stelle; lo si trova nei libri che riescono a sorpassare,
accarezzare, trovare uno spiraglio e insinuarsi nella scorza di chi legge con
un pizzicore in mente, come una sete di stupore che alcuni autori sfiorano e
rincalzano con squisita abilità.
Accade
una magia simile con Rosario Palazzolo ne La
Vita Schifa edito da Arkadia, volendo essere precisi. Perché preciso è il luogo e l’intercalare, precisa-sputata la somiglianza con
questo o quel destino che chi l’avrebbe detto mai di trovarsi vivi stecchiti,
dopo essere morti cento volte in una sola esistenza?
Si
incontra Ernesto Scossa e lo si ama. Ernesto è tutti noi e neppure uno, neppure
un pezzetto di noi, perché da solo incarna i vizi e tutte le virtù intentate,
lasciate sporche, abbattute, scordate come una cosa inservibile; ed è
coraggioso fallire così, nessuno vuole fallire mentre gli altri restano a
guardare, magari con un sorriso cattivo appuntato alla faccia, a metà tra l’ebete
e il compiaciuto: fallire alla luce del sole con l’evidenza che dice cose che
si vorrebbero seppellire, rinnegare e maledire casomai; coi pugni stretti e le
proteste nate in gola, messe a tacere da flebili piani di rinascita, che a pensarci
un attimo finisce a schifìu, si rinuncia in partenza.
Ma
Ernesto non rinuncia, Ernesto ha fame di idee, ha parole che gli cadono storte
dalla bocca, una mezza speranza maciullata tra le mani serrate, una specie di
strana gentilezza che non sta zitta mai, come le parole di Palazzolo che per
fortuna hanno una voce, hanno un’immagine di nuovo precisa-sputata a quelle che
uno potrebbe farsi assistendo a un’opera con gli attori, un palcoscenico o uno
schermo grande a illuminare il buio: Palazzolo ha parole in carne ed ossa,
parole toste, serrate, come un flusso di coscienza con la punteggiatura, coi
ritmi veloci, agili. A tratti si legge in apnea, a tratti ci si ferma a ridere,
a riflettere, a ripetere una parola a voce alta per vedere l’effetto che fa.
La Vita Schifa si legge perché fa bene e perché
l’ha scritto Palazzolo.
La
storia gira intorno ai buoni, ai cattivi, e al protagonista che si arrampica lungo-lungo pur di non mettersi in una sola tra la vertigine e lo
spavento di categorie disponibili. Non per distinguersi ma per amore del
dubbio, si risolleva e cade mille volte, sguazza nella sostanza infima di
pochi, dunque la reinventa cercando un senso di giustizia nello sgarro; come
quando toglie la vita a un mucchietto di ignoti passanti, ignoti viventi, ma
intanto si prende un istante, lo rende palese, chiede ai morenti di accorgersi
di stare smettendo l’esistenza come un abito logoro. Ernesto non campa mica bene,
perciò decide di smetterla con la farsa che è quel suo ciondolare assetato e
sfatto, unito a una stanchezza primordiale, a un amore con la data di scadenza,
agli slanci che parevano una febbre, una pena nera, e invece poi si
sgretolano e appiattiscono, dimenticano le loro altezze, dormono un sonno che è
come cadere senza fine, senza requie, senza mostri.
Ed è
una cosa schifa questa qui, ma mica tanto se si dimentica di avere una storia
da percorrere anche fuori dai libri, e un nuovo inizio appiccicato a un punto
smilzo e promettente, da ringraziare.
sabato 13 febbraio 2021
Magari un giorno, a Roma
Magari riuscire a cambiare, magari riuscire a crescere, contare i propri anni senza alleggerirne il peso: uno, più uno, più uno, fino a tutto il tempo vissuto. Non per gravare da soli sul proprio essere, ma per creare forme nuove con il tempo che si suppone di poter contare. E aprire le scommesse con i tessuti interiori, tra ritagli di coscienza, di stupore fragrante, col pensiero che fa a gara con l’umore e il sentimento da trovare ripiegato tra le pagine dei libri, tra foto stropicciate e scritte sbiadite a segnare i ricordi che per contro si ravvivano: anche quando perdono definizione nei volti e nelle voci, animano chi li conserva; fanno la persona intatta, con un bagaglio di esperienze, di malinconie e contentezze arruffate.