martedì 28 dicembre 2021

Nothing's Gonna Hurt You Baby

 
Ricorda di colorare forte sopra i muri. Tu non ne sei capace, tu muovi le mani come in una danza sospetta, sorvoli l’aria con faccia contrita, con faccia distratta, turbata e in estasi. Ma l’aria non trasuda la tempera, gli acquerelli sbiadiscono ai primi cenni d’umido; il gesso si impasta con la pioggia, crea miscele che vedi solo tu, al netto delle vesti: la sera quando nessuno ti vede; la notte, quando ai pensieri si accosta a malapena il tuo respiro.
 
Niente potrà più ferirti: Nothing’s Gonna Hurt You Baby, le diceva lui. Poi precisava quanto fosse da rivedere la follia del pensarsi indenni davanti ai fatti della vita. E che ferirsi era una pratica come un’altra, un male necessario, la vanità rivista e da esibire dopo averci fatto pace due o tre secoli più in là. Niente potrà più ferirti fino a ucciderti, ecco. Come quelle smagliature: merletti senza lode e tanta infamia, messi lì per dire a tutti quanto costa sopravviversi, e quanto viversi invece, tagliando di netto le cose che nessuno vede, strato su strato, fino a raggiungere un segno e un senso più profondo. Vivere prestando fede al gioco crudele di chi si espande e si ritrae, come l’onda che abbraccia lo scoglio, il fiore che beve il sole e poi si piega, piccino, a baciare la terra.
Lei non sapeva colorare solo i muri, però. Allora pensò bene di imprimere bocconi di esistenza sulla pelle, significati emersi di soppiatto, racconti concessi con sole metafore sparse: non vi è niente da spiegare per intero a tutti, in fondo. Non serve rendere partecipe chiunque della propria intimità. Uno vede un groviglio di fiori, ghirigori simili a un acchiappasogni astratto e un pianeta appeso al nulla, sulla carne, alle spalle, dove gli occhi per vedere devono proprio cercare a fondo, la testa ruotare, impuntarsi, indagare i riflessi negli specchi che altrimenti mica lo saprebbe lei stessa, cosa ha lasciato lì dietro e come è arrivata a superarsi. Sono disegni sparsi che durano minuti e invece bisogna prenderli per quello che sono: giorni, mesi e forse anni, condensati in pochi tratti.
Una folata di vento ferma il tempo un istante: i suoi capelli inventano un’onda gentile, il capo cade su un lato, chiede una risposta che plachi l’insistere di una domanda mai osata. Cosa saremmo se non fossimo io e te?
Lui si china a raccogliere un’ipotesi, la rivela a capo chino, con voce biascicata, non può mica fornire la formula esatta col bianco candore delle certezze. Bianco accecante, anonimo, troppo pulito. Chi le vuole le cose sempre giuste? Chi desidera che sia soltanto intonso, il tempo speso a disegnare carezze sulla pelle? Dove lo sporco non è un affronto ma un’alleanza che leva briciole di sogni depositati nell’incavo delle labbra. Labbra di fragola che non si possono vedere perché lei lo guarda ancora, guarda solo lui così ostinato, chinato su sé stesso, mentre scrive per terra con un sasso appuntito: come eravamo. Così, senza punto di domanda. Senza respiro, senza perché.
Il tempo slitta, scivola, sguscia i frutti di un destino maturo da contraddire: se contiamo le rughe sul volto, percorriamo da capo le volte in cui siamo rimasti impigliati in un sospiro d’anfora, terroso e antico; e poi le voglie negate e taciute, fino a che quelle prendono l’iniziativa, levano la brina addossata ai gesti scordati, muovono un passo timido che infine diviene una danza.
Le tue braccia sono come radici, gli diceva. Lui era albero, mente liscia, salda, con le parti nascoste da non dire mai, da percorrere in segreto: su invito o piano, per tentazione indicibile da non poter trascurare.
E insomma: come eravamo.
Eravamo in due in un giorno qualunque. Due senza nome per i passanti: se mi sporgo ci vedo ancora, eravamo due da sembrare uno, da sembrare niente. Due da fare invidia ai sassi, al silenzio, alle stelle, al capo chino di una luna d’argento, al sole quando sorge e già pensa al sonno d’ambra da riversare, liquido, su colline di un verde da prendere boccate d’aria ampie prima di tuffarcisi; come se fossero blu, come se fossero un oceano. Eravamo quelli che non temono l’oggi, sapendo che il domani verrà perché si ha sempre sete di speranza. E la speranza ha fili gracili da intrecciare, colori sgargianti da celebrare con dita gentili. Eravamo quelli che urlavano forte l’offesa di un fiore rubato alla terra; e c’era una scommessa fatta e da rinnovare ogni volta: se si trovava un fiore con la corolla appannata, lo stelo spezzato, i petali socchiusi per la vergogna di non avere più un posto nel mondo, lo si doveva raccogliere, ringraziare, baciare petalo per petalo, baciare labbra per labbra, così quello restava appeso alle mani, sapeva che era proprio un dolce addio, una dolce scadenza. Guardava il mondo per la prima volta a testa in giù, si trovava piantato su un cielo senza fine, tra nubi sfilacciate, bianche come cotone. E la testa a vedere i piedi di quei due a farsi vicini, e quanti baci, tanti baci; e onde d’abito a spezzare le onde immobili del suolo: che novità assoluta, un cambio di prospettiva in fin di vita. Come si dice: morire in grande stile, morire coi fuochi d’artificio nella testa, morire sottosopra fino ad imparare che invece essere umani significa non farne mai o quasi mai una dritta, ma saper raddrizzare le cose, se non altro. Il fiore risale, la mano che lo tiene è gentile ma distratta; è una sola perché l’altra percorre linee differenti, ugualmente soffici, da segnare un sorrisetto obliquo sulle labbra e volerne ancora. Il fiore impara l’arte della sospensione: galleggia senza acqua, senza onde, solo aria. Impara la vista dritta e lunga, presa per il verso giusto; l’equilibrio sopra una vertigine che forse non lo vedrà mai più con lo stelo per terra, ma coi petali sulle nuvole, quello sì, E il suo buon odore di vegetale bello, bellissimo. Lui è unico, è solo, e lo sa bene. Così chiude gli occhi e ascolta il mormorare di quei due alla sua destra. Si sono sdoppiati: due prima, due dopo. Due coppie che ne fanno una, nel perpetuo dubbio dell’essere e del divenire.
Come eravamo conta giusto un poco. Solo per capire come siamo adesso, e come si deve andare per parlare insieme la stessa lingua, per trovare in due lo stesso passo. Uno che non escluda le differenze ma le accomuni.
Poi svaniscono in un soffio, attratti da un alito di vento pregno dell’ultimo respiro di un fiore contento, nonostante tutto. Finiscono di giocare a nascondino, finiscono di contare, nessuno deve più nascondersi. Nessuno deve più cercare. Uniscono le mani, chiudono gli occhi: al tre sono già due senza riflesso. Due soltanto, a cominciare da un bacio e un abito bianco, senza moine, senza riti, due che si baciano sapendo di baciarsi, mentre il tempo si dilata, si vergogna, si ripiega, manca un battito di lancette come il cuore certe volte, quando la bellezza è tanta da non poterla proprio sopportare.


Foto di Estéban Puzzuoli


venerdì 3 dicembre 2021

È Stata la Mano di Dio

 
È stata la Mano di Dio a dire quando fu il tempo di ridersi la vita addosso, scagliarsela contro come il più agguerrito dei giochi, come la sfida amata più del dirsi "bravi, avete fatto bene, avete fatto tutto giusto". Vi sono attimi in cui fare male, fare sporco e impreciso per godersi il passaggio dal nulla al tutto, vale più di ogni regola seguita passo-passo. Vale la presa di coscienza che rasenta la perfezione perché finalmente viene e schiarisce. Viene e porge un senso alle cose rimaste sopite da lungo tempo, se non da sempre.
È Stata la Mano di Dio, visto ieri al cinema, porta l’impronta di un Sorrentino che ha l'abilità di essere carnale, pronto ad esplorare il mondo che intende raccontare, e non per imitazione. Solo un po' compiaciuto, forse, per gli effetti speciali che quasi sempre derivano dall'immagine e dall'effetto che questa porta con sé.
Nel film, la visione è quella di una Napoli vissuta e tenace, Napoli bella che non chiede mai: si concede come il più tenero degli amanti, il più audace e flessuoso, coi suoi odori e le stradine anguste, i cieli che mutano come l'umore e le esperienze di chi li osserva e intanto vive una manciata di istanti addossato uno all'altro e non li vede ammucchiarsi fitti-fitti fino a farsi esistenza compiuta, finita.
La Napoli del dio Maradona, la fede nel calcio che unisce anche chi non ce l'ha, perché è sfacciato il talento e il legame che celebra: legame con la terra che è madre e sovrana, legame che è come le viscere; e il mare tutto intorno altro non è che sangue che nutre gli organi, li rende capaci di sostenere il corpo di nascosto: restare fissi e immobili, e da tali muovere tutto il fuori dall'interno. I personaggi del film hanno una bellezza a tratti dolorosa: la zia Patrizia possiede la bellezza, non le è soltanto capitata. E se respira, se si muove e guarda un punto lontano, inafferrabile, lei crea abissi intorno a sé. Abissi di stupore e quasi adorazione; e di scalpore, perché ciò che è bello e non si può toccare crea quasi sempre un sentimento sbigottito e ostinato, come una foto sfocata che racconta l'attimo in cui da fermo il soggetto si è mosso, come per dire "no, io qui così non ci posso stare". Patrizia è un incanto triste. Ha gli occhi languidi e di un buio pesto, come la notte. Pure ridendo non celano il male di una donna che vorrebbe essere altro e non può. E pare sempre così di passaggio, lei che tutto sommato è coriacea; pare sempre sul punto di togliersi la vita, specie quando resta sospesa sul ciglio di un pendio scosceso, con rocce a capitolare nell'infinito blu di un mare da levare il fiato. E invece lei galleggia, avendo nel cuore un peso di piombo e destando amori grandi che sono anche un tabù: neppure il nipote Fabietto può sottrarvisi. Sta lì è non la tocca neppure, la guarda come fosse una dea sconfitta e sinuosa che lascia indovinare il mistero di accostarsi a una donna per un gioco diverso da quello dell'infanzia; anche quando è ancora troppo presto per saperlo sul serio.
Fabietto quando si invaghisce di qualcosa, resta incantato e si direbbe assente: la bocca schiusa come i pesci quando ingoiano gli ultimi istanti di vita fuori dall'acqua, e lo sguardo stordito, inebetito, come se tutto fosse troppo a un certo punto; è un privilegiato che gode della benedizione di sentirsi toccati e rimestati con forza da tutto ciò che esiste.
Fabietto è piccolo, vive sotto le ali di una madre imperfetta e luminosa. E un padre partorito da Servillo, l’amato Servillo che sa sempre il fatto suo. Qui incarna tutte le sfumature dei papà quando sono belli quasi da far male, perché pregni di troppi sbagli e frammenti a rendere per paradosso intatto tutto quanto: ogni sbaglio, ogni tentativo di dire o mostrare affetto, anche se nulla poi va come si vorrebbe e lo si vede, quel papà, barcamenarsi in lungo e in largo in un mondo di cose in conflitto eppure stranamente armoniche, e sempre amate.
Fabietto resta solo pure avendo tanti intorno, all'improvviso. E capisce che a volte, piangere non è così facile come si vorrebbe. Capisce che si può farlo pure col volto proprio asciutto, piangere con un nodo in gola colloso, di piombo, che poi si scioglie a suo piacimento e coglie di sorpresa, destabilizza in ogni modo.
Fabietto impara cosa accade quando un flusso si muove da un corpo all’altro creando legami di qualche tipo, reazioni immediatamente fisiche da meccanismi per lo più mentali: un desiderio che ha la pretesa finta e dolce di insegnare il futuro, e non è facile che lo si racconti così, affidato a un’accoppiata scomoda, spinosa. Un ragazzo e una donna dalla bellezza intensa, seppure troppo vecchia per godere di un corpo senza cogliere nell’atto sessuale la sola tenerezza: per il tempo andato e per quello agli sgoccioli, per i lunghi capelli che qualcuno prima di allora deve avere a lungo districato, accarezzato, tenuto stretti tra le mani per giocosa e complice imposizione. Una donna che sa bene che a volte scordare è un verbo che salva, uno che bisogna dire a voce alta e con fermezza, per salvarsi da gorghi taciuti e aguzzi. E lui non vede su di lei le pieghe che prende il corpo, come un pezzo di stoffa sgualcito eppure amato forte. Non vede le rughe e se le vede non importa: affonda nel suo vuoto che viene per contrasto; è abisso perché così dice il corpo di lei se si schiude, ma sanno tutti che al vuoto si contrappone una pienezza che risiede altrove, e che di pudore ne sa molto, perché è con quello che lei si difende e si concede per davvero.
 
L’intero film è intriso di una certa nostalgia, fortissima pure quando tutti ridono. Nelle case piene di allegria, con le orecchie drizzate verso il caos dei tifosi a partita vinta a spezzare il silenzio nelle strade coi cori urlati, festosi, e gli striscioni bianco-azzurri a sventolare ovunque. Nelle giornate trascorse a sprofondare nel mare, con al fianco scie fumose di vulcano; e nei ritratti di una città e di un tempo che non saranno mai uguali: muteranno sempre, come i ricordi dei giorni felici, nei luoghi felici; sapendo che chi fa luminoso un tempo e una distanza altro non è che il bene che si scambia chi può.
Gli scorci e le riflessioni da contemplare sono così tanti, e molti di questi combaciano con la magia che è credere in un prodigio che viene per caso o volontà, nel vero o appena oltre i confini del concreto: lì dove la superstizione coincide con l’alchimia; dove il velo tra credere e potere è troppo sottile, e allora che male può fare aprire gli occhi e sognare un po’. Che male può fare chiuderli poi a bordo di un treno, nei pressi delle incognite e nei punti conquistati con fatica, rubati a un gioco sleale e tutto sommato mai definitivi. Perché si può cambiare forma almeno in parte al proprio vivere, mutarne alcune svolte e infelicità, solo credendoci.


Filippo Scotti e Luisa Ranieri in È Stata La Mano di Dio



martedì 19 ottobre 2021

Cuòre: Sostantivo Maschile

 
Amo le poesie, in particolare quelle senza rime. Quelle che non hanno troppi argini, battono dove tutto duole perché è bene indagare il dolore in ogni forma e senza inutili tabù, insieme alle paure, alle rivalse che non sono da alimentare né da allontanare: capitano come goffe mosse di esseri piccini, dispetti di infante sopra i giochi svelati al contrario di come si voleva; e dire che il finale non voleva mica essere buono o cattivo in partenza, ma porre solo un punto tondo e fertile dal quale ripartire.
Al teatro se ne trovano, di poesie. Specie negli spettacoli che sollevano e nutrono una curiosità che comincia a dipanarsi da inviti silenti, energici e gentili, allungati a macchia d’olio, di bocca in bocca. Ad Angela Di Maso devo la gratitudine per l’invito a me destinato, che mi ha permesso di conoscere due attrici favolose e confermare l’idea che avevo di una drammaturga già apprezzata e da apprezzare ancora, con la calma dovuta ai riti che salvano dall’omologazione, dal fare-per-mostrare e non per godere, fino alla condivisione che serve a dividere esperienze per moltiplicare esempi ed entusiasmi.
Cuòre: sostantivo maschile è uno spettacolo che ha un effetto pirotecnico pari almeno a quello di chi lo ha ideato. E bisogna assistervi senza troppo badare all’età, alle diverse provenienze, ai pensieri che restano attaccati come polvere agli abiti: quelli non vanno lasciati fuori, scrollati, esclusi; ciascuno può e deve portare un pezzo del proprio mondo con sé, vederlo narrare da attrici capaci di una precisione puntuale, chirurgica, dissacrante. Nulla va tutelato, poiché si vive in mezzo ai danni e mica da dannati: siamo sacri esempi di inconcludenza, noi imperfetti umani; saltimbanchi e giocolieri, vittime e carnefici, ognuno con una parte di viltà o verità da biascicare, sussurrare o gridare a gran voce.
Dunque ci si siede, e a una prima occhiata si familiarizza con Alvia Reale e Daniela Giovanetti: donne nude e crude, pure coi vestiti addosso, ritte sopra un rettangolo di palco, immobili, sguardo fisso: il saluto e l’esordio più efficace è il contatto visivo con un pubblico muto, l’attesa che qualcosa accada da un momento all’altro, e che il silenzio venga rotto prima o poi, con una voce e poi due, in perfetta armonia. La rivoluzione è portare la realtà dritta in scena, adattata all’esistenza trascorsa e mai passata delle due voci alleate, alternate e giocose, serie e intense, immerse in un vissuto già vissuto almeno cento volte. L’abilità davvero alta, sta nel condensare in una sola ora un alternarsi di emozioni, di dolori, paradossi e rinascite, oltre che di affronti e reazioni affiancate a un orgoglio che non teme di essere smontato. Che donne, mi è venuto subito da pensare. Quanto è bello fare parte di quel genere, di quel dato languore, di una certa tempra, farsi minuti, soffici e scheletrici, partecipi di un talento che pure non si possiede ma si ammira e si incoraggia con lo sguardo, con le mani che sanno applaudire, e una strana familiarità alla fine, come per dirsi che non ci conosciamo per davvero, ma un poco sì: siamo prede degli stessi affanni, cambiano solo le linee, i risvolti, gli imprevisti e le morali indesiderate; ma non la sostanza. Cambiano le intensità, e alle tre donne narrate e citate, bisogna dire grazie molto forte. Grazie per il tempo e l’impegno speso, per le risate delle altre donne e degli uomini tra il pubblico.
Grazie ad Angela, per la capacità di dire. Per i ritmi serrati e distesi, e ancora surreali, toccanti in un modo che davvero ha del sensuale, ed è a tratti violento, tenace, risoluto, pronto a farsi valere con poche cose e pause disseminate in un racconto che si addossa sopra quelle, riempie di tutto una scenografia davvero esile, minima, ridotta all’osso. Perché suppongo che si debba dare e darsi tanto col corpo e l’espressione, fortissimi entrambi, senza che nulla distragga da un significato che è così sfaccettato e ampio da non volerlo interrompere, diluire, coprire col superfluo.
Alvia Reale ha gli occhi grandi, lucidi, occhi di pozzo e di specchio, occhi che pure quando ride si allagano d’un tratto, ed è questo lo stupore. Sembra una sorta di perenne tributo a una natura nascosta, una cosa che le sfugge in ogni modo e parte: insieme al personaggio la persona, ma un passo indietro per non guastare l’incanto. Con gli abiti ben poco femminili, donna compiuta negli atti gentili, nei piccoli riti condensati in uno spiegare e ripiegare vecchi centrini come lembi di pelle di un corpo non più tale, andato e mai lasciato per davvero. Alvia parla con le parole e con la carne, non teme il suo corpo, non lo ripudia, parla di carezze da imparare e da spiegare, affinché pure chi non le sa possa apprenderle. Alvia infligge e subisce l’abbandono; e la sa lunga, mica come quelli che la vorrebbero zittire.
Daniela ha un gioco delizioso di ossa appena sporgenti, sul petto. Sembrano due volte belle, perché in una si fanno una strana metafora così vicina al suo essere leggero, imprendibile: pare che debbano trattenere pure quelle un volo di ostinati desideri, una nostalgia imbronciata e bambina, capriccio mai sconfitto nato in tempi lontani. Daniela è aggraziata, lieve come la veste fluttuante che indossa. Ed è gatto, è figlia, è un crescendo di movenze esasperate perché lei ama il ballo: lo dice il suo collo del piede, lo dice il suo corpo ferito, gettato come una cosa inerme sul freddo pavimento. Lo dice il suo sguardo che danza, e danza sulle punte perfino lui, che non saprebbe farsi indiscreto neppure volendolo. Daniela è la parte integra di un insieme smontato in ogni punto e rivisto, incollato, tenuto insieme col bene di una meraviglia sempre presente, a dispetto degli scherzi di un destino non troppo benevolo.
 
Per la trama, come sempre rimando ad altri luoghi e parole diversamente pronte, capaci e su misura di una teoria che da sempre mi fa difetto.
Una vocina mi dice che pure la pratica, non è che mi sia del tutto congeniale: capito in questo mondo con il volere imperioso di chi ha forse avuto poco, per poco impegno o bussole rotte, e troppe strade dissestate in cui inciampare. Ma ho da sempre e ovunque, pure in testa e nelle orecchie, il rumore insistente e dolce delle piccole cose, dei dettagli ignorati dai più; dei paesaggi dai contorni acerbi e sfumati tenuti in disparte, uniti alla voglia di essere viva con ogni male, con l’età da rivedere e misurare secondo sentimento, con l’ostinazione di chi non rinuncia a una forza latente e palese, utile ad avvolgere le cose oltre gli accadimenti e le brutture (in)necessarie: la stessa forza che chi vorrà potrà trovare in uno spettacolo fatto da donne e senza indirizzo, che innamorerà chiunque si fermerà a raccoglierlo.



 


mercoledì 6 ottobre 2021

Circuiti, Odori e Sapori della Bellezza Femminile per Julia Ducournau

 


Pensavo a quanto sia necessaria e potente, la bellezza. Quella che a suo modo delimita ruoli e confini, che risveglia il consueto e il fantastico, lascia migrare le fantasie verso un altrove che il più delle volte risulta compiuto e pacifico ben più del vero nel quale si resta immersi.
Persino il brutto ha una sua funzione, una spinta quieta che rivolta le sorti dell’insignificanza: al di fuori dell’indifferenza, vi è un orizzonte di risorse infinite da prendere in prestito da tutto quanto ci rivela chi siamo, anche a un primo sguardo, con un rifiuto netto a scoraggiare illusioni varie e congetture. Qualsiasi cosa scateni una reazione che si allontana dal torpore di chi preferisce il nulla al tutto, diviene ad un certo punto desiderabile. E desiderare esercita un'attrazione che ancora una volta conduce al bello e al brutto, alla negazione o al bisogno di diventare parte di un insieme più ampio, in divenire.
La bellezza ha avuto un ruolo cruciale in due film visti di recente. Nell’ordine: Titane e Raw, una cruda verità. Il primo visto al cinema, e dunque pregno di una commistione di odori, atmosfere e suoni molto efficaci. Il secondo a casa, da sola, in un giorno di pioggia e fame da non intendere in senso letterale, tantomeno in uno che si avvicini all’energia insopprimibile e spinosa espressa nella pellicola.
La regista di entrambi i film, Julia Ducournau, ha un’abilità a mio parere deliziosa, che è quella di far sembrare scorrevole una narrazione farcita di tematiche a dir poco sfaccettate e ingombranti. Le donne ricoprono ruoli di una forza a loro modo lirica e tenace, distruttiva e ancora in potenziale: si lasciano divorare dal male, dal dolore di un’esistenza cattiva, capitata loro per inclinazioni malsane e strani giochi di un destino avverso. E sono loro a impersonare quello stesso male, infine, plasmandolo secondo personalità che conoscono i punti acerbi dell’inesperienza e quelli di vedute più ampie che si possiedono seguendo impulsi ai quali contrapporre una minima resistenza, poiché non vi è imperativo più efficace di una natura emersa dal profondo dell’animo, a dispetto di qualunque difficoltà.
 
In Titane incontriamo Alexia; la seguiamo in molte fasi della sua esistenza: in versione bambina e donna, in carne ed ossa e in carne, ossa e metallo. È una specie di piccola donna bionica, resa un poco artificiale da un incidente in auto, mentre era in viaggio con un padre che per l’intera durata del film non mostra alcun tipo di slancio verso una creatura che pare quasi non riconoscere, non apprezzare; sembra addirittura non la consideri neppure, alla stregua di un congegno di cui si ignori dal principio alla fine quale sia, l’utilità e il meccanismo che gli consente di funzionare in maniera corretta.
E infatti tutto appare sbagliato, in Alexia: la placca in titanio conficcata nel cranio dopo l’incidente, l’amore misto alla violenza, e intorno uno sfumare continuo di sentimenti in altri sentimenti indefiniti: senza ruolo, appartenenza o punto d’origine. Pare quasi un vortice, una voragine, dove tutto è vuoto, è eco. Prima o poi qualcosa dovrà pure combaciare, riempire, non slittare ma fissarsi alle pareti di quel corpo estraneo; farsi sostanza e radice dalla quale ripartire.
Julia Ducournau ha un modo molto interessante di raccontare la donna, oltre che la maternità. Ha uno sguardo duro e gelido, estraneo e non partecipe. Sembra quasi chiedere ai personaggi usati come piccole pedine, quale sia il finale e non la morale: non vi è nulla di giusto e sbagliato, nulla di ovvio. Solo passioni brucianti e ricordi scontornati, mutevoli. Un erotismo da fare storcere il muso a molti, ma carnale anche se macchinoso in un senso vicino alle mille difficoltà oggettive, ma anche in uno meno ovvio, che si accosta alla ferraglia: l’orgasmo non è solo della carne nella carne, ma del corpo estraneo che si trovi a torcere e toccare a fondo luoghi inesplorati, qualunque sia il gioco della mente a renderlo vivo ben più di chi, semplicemente, respira.
Il dolore pure fisico, è un fatto puramente casuale, necessario; non per forza più doloroso del male venuto in senso figurato a corrompere e spezzare l’animo umano.
La maternità, in tutto ciò, non è che una trasformazione quasi presuntuosa, quasi violenta, ad appropriarsi di un corpo che prima vedeva scorrere nelle vene una linfa simile al titanio che dà il titolo al film, e alla benzina che disseta le auto viste come una prolunga del corpo umano, una voglia sibilante, perentoria, senza alcuna giustificazione. L’amore verso una creatura che si nutre del proprio essere, che abita l’organismo e lo vede, lo conosce ben più intimamente di chi lo riveste di ossa, passi e sogni, non gode di un affetto venuto per istinto ma di risentimento, incredulità, rigetto; e soltanto alla fine, di stupore e benefico supporto, curiosità. Voler bene non viene che poi, quando è quasi ora di chiudere tutto, voltarsi, non chiedersi mai più il motivo di pene atroci e ingiuste cause subite e inflitte. Non è scontato e non è dovuto: ciascuno di noi lo apprende come può, in ogni modo lecito e illecito e a dispetto delle conseguenze che dovrà subire.



In Raw, una cruda verità, è Justine a impersonare una giovane donna all’apparenza ingenua, fragile, tutta votata a compiacere una madre dai modi severi.
Una vegetariana iscritta alla facoltà di veterinaria, con le carcasse sanguinolente di animali prestati alle mani incerte di aspiranti medici.
Anche qui, le donne hanno un ruolo di primaria importanza: gli uomini sono giusto un contorno sfizioso, una visione presa in prestito, un gustoso sfizio in una notte senza sonno. E gustoso è un termine a dir poco azzeccato, poiché il gusto non è solo dei baci venuti a siglare un patto segreto tra due amanti, ma è della lingua che assapora tratti di pelle dall’odore così buono e accattivante; assaggio che misura la giusta distanza dal pasto vero e proprio, che in questo caso offre della carne umana. Quella di Justine diventa un’ossessione, una fame implacabile che trova sfogo in comportamenti esagitati e in un cambiamento radicale della protagonista, non solo nelle abitudini alimentari ma nel corpo e nel carattere, nel modo di incedere e appropriarsi del mondo, non soltanto vivendolo distrattamente, come di passaggio.
Sorprende quanto tutto venga narrato con naturalezza, nonostante le tematiche affrontate. La musica incalza con ritmi accelerati nei momenti giusti, ma non vi sono scene che ricalcano in maniera teatrale e in crescendo, quanto accade: ogni cosa ha un impatto quasi minimo sulla vita di tutti i personaggi, per quanto enorme sia il cambiamento e quella stessa fame, che nessuno mai potrebbe giustificare.
Il finale lascia colpiti allo stesso modo: non con effetti grandi, ma con eventi che spiazzano, narrati perfino a bassa voce; mentre una voce canta, in un abbraccio in solitaria, disperato:
 
«La notte adesso scende
Con le sue mani fredde su di me
Ma che freddo fa
Ma che freddo fa».



domenica 26 settembre 2021

Le Carceri di Palazzo Steri a Palermo

 

Vi è una lunga strada da percorrere, per arrivare a comprendere ciò che ha fatto da culla e da sementi ai luoghi amati, soltanto conosciuti o ancora tutti da esplorare.
Talvolta non si narra di fatti piacevoli ma comunque affascinanti: di natura turbolenta, insana, sbagliata ma pur sempre rivelatoria dello stato di coscienza o incoscienza dell’essere umano; della concezione di giustizia improvvisata sull’esercizio di parametri tutt’altro che nobili. Giunti a Palermo che è tutta colori e profumi sferzanti, Palermo che è città feconda, orgogliosa e ferita, si viene avvolti dalla nobile arte dello stordimento: quello dato dalla bellezza, che maestosa e incantevole anche se imperfetta, rivede le coordinate, le inventa, si lascia guidare dall’improvvisazione. E passo dopo passo, può arrivare dritto fino alle carceri di Palazzo Steri.
Mettendoci piede si viene avvolti da una processione di piccoli brividi sulle braccia, a pizzicare pure la schiena; mentre gli occhi cercano appigli, con fame e con pudore; e misurano il perimetro di stanze piccole, che si immagina come raccoglitori di un dolore che non può aver cancellato le proprie tracce, neppure dopo tanto tempo.
 
Siamo ai tempi dell’Inquisizione, all’idea della tortura da usare come arma infallibile contro chi veniva ritenuto colpevole di un’esistenza non concepita come giusta e sana, marchiata come una colpa da punire. Le pareti conservano tracce di fortissimo impatto, del passaggio di quelle anime alla deriva: vi sono graffiti marcati sui muri, che i detenuti ottenevano amalgamando e usando i pochi materiali a loro disposizione: residui di carbone nei piani alti della costruzione, rimasti alla loro portata grazie alle stufe usate per riscaldare ambienti gelidi. Oppure argilla e terracotta miste ad acqua o urina, che venivano poi usati per raccontare una vita indegna su pareti che racchiudevano da sole, la forza distruttiva di un calvario ingiusto.



















“Manca Anima”, scriveva qualcuno. E da solo pare una preghiera per rischiarare un posto buio ed estraneo, che poteva facilmente accostarsi al proprio corpo-gabbia, a un guscio di carne che non poteva oltrepassare come l’anima, ogni ostacolo.
Ogni sorta di tortura veniva dunque inflitta a ebrei, musulmani, streghe e stregoni, omosessuali. Furono circa 8.000 le persone detenute, più di 500 quelle condannate al rogo. Una pratica diffusa era quella della corda: la vittima veniva legata per i polsi posizionati dietro la schiena e lasciata cadere dall’alto, provocando slogature a braccia e spalle.
Camminando a passi lievi nelle carceri di Palazzo Steri, si ripercorre con la mente anche la storia di Fra’ Diego La Matina, recluso ed evaso più volte dai luoghi dalla prigione che gli aveva portato nel tempo, diverse e atroci ferite. Il suo nome resta indimenticato, amato e curato anche da Leonardo Sciascia nel suo Morte dell’Inquisitore, perché dopo maltrattamenti disumani, riuscì a liberarsi dalle catene e uccise il suo inquisitore usando come arma proprio i ferri che lo tenevano inerme, sapendo che un simile atto lo avrebbe comunque condotto alla morte.
 
Sono molte le storie altrettanto forti, che si possono apprendere in un giorno come tanti: mentre fuori si resta affaccendati, innamorati, spersi, incantati; col naso immerso in un libro o una canzone a riempire la mente e scandire i passi sul selciato.
In un giorno a Palermo, basta poco per prestare ascolto a ciò che forse consideriamo poco: il senso della libertà nascosto nelle cose minime. E la fortuna di poter considerare, amare e ammirare l’arte e la storia, a dispetto del calderone di eventi orribili che talvolta racchiude.


      


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giovedì 5 agosto 2021

La Gelosia in Alfredo Oriani

 


Vi sono parti ben riposte, come la fiducia nelle cure di una persona amica o tra le pagine di un libro, che coincidono alla perfezione. Gli affetti si ritrovano con facilità insperata, a volte, proprio come la sintonia allacciata con le parole che ancora rilasciano odori di un passato remoto e ben teso tra maglie del tempo. Alcune letture non hanno nomi e forme comuni ai giorni attuali, eppure con questi stringono un legame di totale comprensione e di supporto a una capacità di pensare e immedesimarsi tratte con difficoltà in mezzo alle cose dovute, arrese, alle cose futili che non di rado riempiono le ore con inutili affanni.
Leggere invece restituisce tempo al tempo, fa generose le ore colme di storie nuove e riflessioni a creare spazi interiori e interpersonali di volta in volta più fecondi: accade infatti di trovarsi profondi e inesplorati, e di scoprire delle affinità con anime sparse e mai conosciute prima. I libri e i mondi che contengono non conoscono confini o impedimenti, per chi li accoglie e condivide per mezzo della parola e degli sguardi, ben più che sui social.
Gelosia di Alfredo Oriani (Divergenze) è un esempio più che efficace di espressività non solo compresa ma facile da incontrare e amare, nonostante la molta strada percorsa col suo fagotto di contenuti e descrizioni incantevoli: dal 1894 sino a qui, e non la minima traccia di stanchezza fra le righe. Dalla prima pagina si viene accolti da un racconto dei luoghi vissuti e amati, quasi fotografico. Ai contorni terrosi e dorati, si unisce una riflessione intesa in più versi: come di cosa che si accoglie da fuori e mette ancora in circolo uno spettro di sensazioni disparate, a scompigliare il dentro; e come pensiero covato in segreto e ben oliato con la febbre, il conforto, la speranza di essere vivi con convinzione e con trasporto autentici: «La strada, larga e dritta, in quell’incendio di sole sembrava confondersi col tremolìo dell’aria, entro la quale la polvere, sollevandosi, metteva tratto tratto una nebbia giallognola. Il caldo era soffocante. L’ombra, ritiratasi sotto gli alberi, ne allargava la base dei tronchi, e l’erba appariva sporca sui margini dei fossi, mentre nella strada solitaria il solco dei veicoli e l’orma dei piedi si vedevano sino molto lungi, profondi quanto nel fango.
Non s’incontrava anima viva. Solo il coro delle cicale, nascoste fra le fronde, seguitava a cantare con tale monotonia, che vi si sentiva sotto l’oppressione del silenzio. Poi qualche uccello, staccandosi dalla cima di un albero, sembrava gettare un lieve strido d’impazienza, e passava rapido nel sole».
 
È in un cono di luce, in un’atmosfera densa e ambrata, che si allarga il gioco sottile e malsano che vedrà restringere il cerchio intorno a pochi personaggi e poi ad uno soltanto, che risponde al nome di Mario: giovane uomo dalle vesti distinte e dai modi discutibili, che non ha mordente eppure ha pretese di mordere un amore ostinato, ossessivo e fugace, che ha ben poco di ingenuo e spontaneo; chi risponde con capriccio e rari istanti di esultanza al malato amore di Mario è Annetta, che viene subito inquadrata da Oriani come una donna dal temperamento sfrontato e vivace di una bambina: «i suoi occhi troppo grandi, di un verde che talvolta pareva turchino, non avevano abbastanza luce; la sua bocca fresca, coi denti bianchissimi, parlava e rideva colla stessa vivacità; le sue guance avevano la brina delle pesche, mentre la sua fronte liscia, di un bianco più intenso, pareva una benda sotto l’oro ardente dei capelli».
Con un solo guizzo nello sguardo, lei accende e spegne le esaltazioni di un uomo come Mario che resta nell’ombra, figura cupa e bistrattata da sé stesso più che dalle benevolenze di un avvocato, marito di Annetta, che vive realmente la vita immaginaria, negata quasi per dispetto a chi ama di un amore illecito, lontano dalle cose concesse per legge amorosa e divina.
E qui l’amore prende una piega da raddrizzare, vive in pieno la negazione di un’armonia che ne muove i fili quando tutto fila liscio: il tradimento non è mai ammesso a chiare lettere; e l’affronto sotto gli occhi di tutti, contempla l’offesa alla lealtà mista a un orgoglio non opportunamente omaggiato: così Mario si vendica con pochi gesti anche teatrali di quella vita che lo ha schivato per un soffio, del desiderio di ogni cosa che lo incatena a un’attesa nuda e febbrile. Mentre gli altri avanzano, lui resta solo a guardare.
 
La caratterizzazione dei personaggi avviene per mano di Oriani con una facilità che spiazza e che gioca spesso per contrasti. Annetta col suo fare impetuoso, viene presentata in un contesto che in nulla le somiglia: spunta infatti come un piccolo sole al chiuso di una stanza disadorna, puntellata di attenzioni scarse e imbastite da mani disattente, coi piatti di maiolica spaiati, foglie di vite sotto i bicchieri e vecchie posate d’argento: pallido bagliore in un insieme opaco, cadente. Tra pareti anonime, un tavolino zoppo e sedie malconce, verrà un pasto frugale diviso con pochi e molte parole non dette a piovere nei silenzi, nei muti gesti d’intesa, nella spasmodica attesa di un momento rubato allo scorrere di un’esistenza avvertita come ingiusta e insensibile a qualsiasi forma di ribellione, di consapevolezza e riscatto.
Nulla importa davvero, se non la gelosia che nomina e scandisce i ritmi di un romanzo che sfodera verità scomode con un’agilità e partecipazione che non possono lasciare indifferenti; una gelosia che rivede il concetto di amore e lo riduce a «un incontro fortuito, fors’anco prestabilito dalla natura fra due individui, breve e violento, dopo il quale ognuno ripigliava la propria strada, ricordandosi appena dell’altro, spesso conservandone una impressione antipatica». È un residuo di amore, messo in dubbio da parole tutt’altro che pacifiche e anzi risentite, pungenti; una rabbia vibrante e china su di sé, ripiegata, scordata, rinnegata, a dare voce a Mario ancora una volta, che «come tutti i gelosi, avrebbe voluto lasciare sulla donna la propria impronta, cristallizzandola nella adorazione di se stesso».
 
Il tormento e la fame di attenzioni da una sola e imprendibile donna, sono il filo che tutto lega, annoda e disfa. La pretesa dell’altro al di sopra di ogni evidenza, e la verità cruda e non voluta, tornano a ribattere in ogni punto, su ogni pagina, il destino già segnato per chi non vuole intendere altro che la propria fine.
Alfredo Oriani ha una scrittura a tratti trasognata, e al contempo terrena, agile, capace di incidere a fondo senza neppure forzare la mano; e deliziosamente antica: nel leggere sembra di rovistare nei cassetti, nei bauli impolverati, in cerca di tesori smessi, scoperti e amati ancora con rinnovata forza.

Alfredo Oriani: Gelosia. 
(Divergenze)



giovedì 18 marzo 2021

La Vita Schifa

 


Poniamo il caso che vi sia da qualche parte un senso compiuto, un cerchio aperto e poi chiuso, coi punti stretti e liquidi da capo a fine; così non solo in geometria, ma nel verso stolido e pensato che pretende di sapere il senso che non c’è: della vita, della fame e della morte, camurrìa! Il senso della cura prima della malattia: con quelli che sono medici improvvisati, figuranti a mescolare il ruolo con l’essenza, distratti da un nulla chiassoso: fuori è ciò che conta, fuori dai gangheri, fuori tempo e dentro un coro di identiche voci.
Eppure si trova un conforto e un rifugio perfetto, nonostante la confusione di intenti e mancate prospettive, e la voglia di restare col naso all’insù a lasciarsi tramortire dalle stelle; lo si trova nei libri che riescono a sorpassare, accarezzare, trovare uno spiraglio e insinuarsi nella scorza di chi legge con un pizzicore in mente, come una sete di stupore che alcuni autori sfiorano e rincalzano con squisita abilità.
Accade una magia simile con Rosario Palazzolo ne La Vita Schifa edito da Arkadia, volendo essere precisi. Perché preciso è il luogo e l’intercalare, precisa-sputata la somiglianza con questo o quel destino che chi l’avrebbe detto mai di trovarsi vivi stecchiti, dopo essere morti cento volte in una sola esistenza?
Si incontra Ernesto Scossa e lo si ama. Ernesto è tutti noi e neppure uno, neppure un pezzetto di noi, perché da solo incarna i vizi e tutte le virtù intentate, lasciate sporche, abbattute, scordate come una cosa inservibile; ed è coraggioso fallire così, nessuno vuole fallire mentre gli altri restano a guardare, magari con un sorriso cattivo appuntato alla faccia, a metà tra l’ebete e il compiaciuto: fallire alla luce del sole con l’evidenza che dice cose che si vorrebbero seppellire, rinnegare e maledire casomai; coi pugni stretti e le proteste nate in gola, messe a tacere da flebili piani di rinascita, che a pensarci un attimo finisce a schifìu, si rinuncia in partenza.
Ma Ernesto non rinuncia, Ernesto ha fame di idee, ha parole che gli cadono storte dalla bocca, una mezza speranza maciullata tra le mani serrate, una specie di strana gentilezza che non sta zitta mai, come le parole di Palazzolo che per fortuna hanno una voce, hanno un’immagine di nuovo precisa-sputata a quelle che uno potrebbe farsi assistendo a un’opera con gli attori, un palcoscenico o uno schermo grande a illuminare il buio: Palazzolo ha parole in carne ed ossa, parole toste, serrate, come un flusso di coscienza con la punteggiatura, coi ritmi veloci, agili. A tratti si legge in apnea, a tratti ci si ferma a ridere, a riflettere, a ripetere una parola a voce alta per vedere l’effetto che fa.
La Vita Schifa si legge perché fa bene e perché l’ha scritto Palazzolo.
La storia gira intorno ai buoni, ai cattivi, e al protagonista che si arrampica lungo-lungo pur di non mettersi in una sola tra la vertigine e lo spavento di categorie disponibili. Non per distinguersi ma per amore del dubbio, si risolleva e cade mille volte, sguazza nella sostanza infima di pochi, dunque la reinventa cercando un senso di giustizia nello sgarro; come quando toglie la vita a un mucchietto di ignoti passanti, ignoti viventi, ma intanto si prende un istante, lo rende palese, chiede ai morenti di accorgersi di stare smettendo l’esistenza come un abito logoro. Ernesto non campa mica bene, perciò decide di smetterla con la farsa che è quel suo ciondolare assetato e sfatto, unito a una stanchezza primordiale, a un amore con la data di scadenza, agli slanci che parevano una febbre, una pena nera, e invece poi si sgretolano e appiattiscono, dimenticano le loro altezze, dormono un sonno che è come cadere senza fine, senza requie, senza mostri.
Ed è una cosa schifa questa qui, ma mica tanto se si dimentica di avere una storia da percorrere anche fuori dai libri, e un nuovo inizio appiccicato a un punto smilzo e promettente, da ringraziare.




 

sabato 13 febbraio 2021

Magari un giorno, a Roma

 

Magari riuscire a cambiare, magari riuscire a crescere, contare i propri anni senza alleggerirne il peso: uno, più uno, più uno, fino a tutto il tempo vissuto. Non per gravare da soli sul proprio essere, ma per creare forme nuove con il tempo che si suppone di poter contare. E aprire le scommesse con i tessuti interiori, tra ritagli di coscienza, di stupore fragrante, col pensiero che fa a gara con l’umore e il sentimento da trovare ripiegato tra le pagine dei libri, tra foto stropicciate e scritte sbiadite a segnare i ricordi che per contro si ravvivano: anche quando perdono definizione nei volti e nelle voci, animano chi li conserva; fanno la persona intatta, con un bagaglio di esperienze, di malinconie e contentezze arruffate.

Sentire l’eco dei propri passi e non prestare parole al silenzio: restare coi suoni impigliati in gola, tra parentesi curve, sofferte, aperte e mai chiuse con dentro tutto un mondo di cose mai provate per cui inventare itinerari: saperli la cura ideale, lo sguardo offerto al mondo da un dentro che resta a tratti chiuso da togliere il respiro alle proteste: smorzate sul nascere, impedite, come tutte le cose che necessitano di un divieto per trovare uno spazio lecito nel mondo.
Chi può, esplori; anche restando a pochi passi dal posto abitato. Anche sentendo che molto ancora c’è da fare e dire. Non a caso il verbo è posto all’infinito, così viene comodo: i limiti sono spine che bisogna temperare come le matite, per disegnare meglio i contorni delle possibilità.

Un passo dopo l’altro, i piedi mossi lungo una linea ideale, stretta, come su corde che dondolano, corde d’equilibrista. Serve lasciare spazio al vuoto: il vuoto consente il colore, la fantasia, allena lo spirito di adattamento, trova soluzioni ai problemi esistenti e a quelli che invece nascono quasi all’insaputa di chi li porta in grembo, sfiniti e acquattati nei non-luoghi pacifici di un sonno ristoratore, appesi alla schiena con cupa tenacia, appuntiti come artigli di rapace.
Camminare col bene dell’improvvisazione sotto un ombrello trasparente con un disegno di stelle e pallini, su un fondo di cielo uniforme, fumoso: preso a colpi di spatola da un artista distratto. Pestare i pedi sulle pozzanghere, saltare sul dorso di marciapiedi con passo di meraviglia: Lewis Carroll ne avrebbe fatto come minimo il disegno di lunghi bruchi anneriti, un cappello-matto per ogni bozzo, fino al Paese che tutti sanno e che qui, invece, ha le destinazioni varie e sempre incantevoli e sconosciute, di una Roma che come i gatti distoglie lo sguardo quando la si osserva, ma sa di essere molto bella. 


C’è una piramide piantata nel bel mezzo di una strada, e a forza di passarci forse ci si abitua. L’abitudine toglie smalto allo stupore, ma quello a volte torna a presentarsi, mette in chiaro il suo ruolo primario, non lo si può certo svilire: sa che può rinnovarsi a uno schiocco di dita, sa che è suo il compito di dare colore a un’esistenza che altrimenti risulterebbe stretta e pallida. Il gioco talvolta è creare ipotesi affastellate, tenute insieme con mosse incerte e fiduciose: muri di carte per castelli alti fino alle nuvole, nell’immaginazione. Catturare un istante in uno scatto, trovarvi impresse linee sconosciute, persone intente a vivere vite delle quali quasi sicuramente non si saprà mai nulla. E inventare una riflessione, darvi seguito, approdare alle forme d’espressione altrui, più o meno discutibili, a colorare i muri, a imbrattarli, a reinventare il senso e il muto dialogo di un intero quartiere come Tor Marancia. La storia che anima le vie e i palazzi ribolle a lungo come le pozioni migliori in un calderone. Le espressioni impresse sui volti sono sempre differenti, tra gli avventori e gli abitanti del luogo che al contrario dei primi, lo sanno bene di cosa vive quel breve tratto di città aperto e chiuso al contempo: poiché entrarvi non è un divieto, ma farne parte è ben altra cosa. L’identità, l’appartenenza, non le si inventano mica col solo osservare, col respirare l’atmosfera che emerge dalle strade, dai gesti consueti: dai negozi piccini e le insegne sbiadite, tra cassette di frutta e verdura e l’odore che allargano nelle immediate vicinanze, quando si passa di lì e si occhieggia attratti dai colori e dalle voci. 











Pochi passi e viene l’odore del caffè, delle brioches appena sfornate, e svoltato l’angolo una processione di piccole case e attività in pacato fermento, in mezzo ad altre scritte, altri disegni, accostamenti di colori audaci, messaggi più o meno validi, più o meno criptici, che lasciano un’impronta e vogliono essere seguiti, interpretati, semplicemente guardati: senza un perché o uno scambio effettivo. Uno racconta, l’altro assiste. E come me, forse, vede perfino quello che non c’è.