sabato 27 giugno 2020

Il Regno degli Amici




Lasciare il rumore al rumore e ad ogni rumore un suono: realtà due volte opposte e complementari. Placare la forza che viene da fuori a distrarre e sapere le cose che bisogna fare nell’immediato, spillate a una finta noncuranza e allungate con mosse oziose come le file indiane dei bambini. E poi mani appiccicate alle mani, nasi all’insù e occhi puntati lontano, a far sbiadire gli orizzonti. Infilate nel nascondigli propri dell’oblio, le lunghe e disordinate liste di cose da fare stilate controvoglia e scordate in un cassetto: le cose pratiche, finite e solo utili, talvolta sono brutture proprio misere davanti al bello che c'è. Solo i condizionali sono desiderabili. E le supposizioni. L’imperfetto è per gli adulti, il futuro semplice è per gli anni che ancora restano protetti e liberi sul serio. Il futuro anteriore pare uno sgambetto, una cosa acchiappata tra i banchi di scuola solo perché serviva ripeterlo ad alta voce, borbottarlo, appiattirlo in un suggerimento mimato al compagno di sventure con la bocca e con le mani in un alfabeto muto e di soppiatto, per riuscire a saltare l’ostacolo delle temute insufficienze e andare avanti. Si recitava ad alta voce un verbo, una coniugazione italiana, latina, una lingua straniera: il piacere della scoperta ha un sapore tutto nuovo nell’adolescenza che è un’età che appare fresca d’infanzia e non più infantile.
Ma volere assaggiare ogni cosa con grande impeto, non è mica detto si fermi ai soli anni che portano il numero uno davanti, che è come una specie di diga, una linea verticale con uncino, che corre prima del due che fa il dodici e del tre panciuto dei tredici anni; a quattordici anni il quattro si siede e accavalla una gamba per vedere un po’ quello che si è combinato nel fragore dei tanti giorni alle prese con le prime volte intese in senso largo, avventato e imprevedibile. Poi viene il sei che è molle. Diciassette è quasi agli sgoccioli, diciannove occhieggia: la diga del numero uno sta per crollare. Il due dei vent’anni ha il collo lungo delle giraffe, vede le cose dall’alto per tuffarcisi meglio.
 
Tuffarsi, ora che è estate. Tuffarsi nelle acque in solitaria, saltare ad occhi chiusi dentro un tempo pigro, dilatato; tempo di cose da poco. Tempo che è facile nel silenzio di certe ore accarezzare un libro, prenderlo con mani salde e un contorno di presentimenti buoni: era estate ne Il Regno degli Amici di Raul Montanari (Einaudi): estate radiosa, estate da sudare l’anima dentro un pensiero ripetuto cento volte in pochi istanti, lì dove c’è lei che è amore, prima ancora che l’amore si formuli. La ninfa della Martesana, la pescatrice: non ha ancora quattordici anni quando sceglie di adottare un sentimento di fiducia verso cose e persone sconosciute, a piccole dosi, convinta che nulla le si ritorcerà mai contro. La bontà delle visioni integre, fertili, andrebbero serbate intatte nel cuore dei giorni e degli anni, e invece si sgretolano pian piano e dopo un po’ pure in silenzio: si perde tanto senza neppure saperlo; nel vedere una crepa verrebbe voglia di porvi rimedio, e si rattoppa l’errore finendo poi col coprire un guasto con altri guasti.
La ninfa dai capelli lunghi e gli occhi verdi dal nome smilzo come gli anni, si avventura nei territori di una Milano vista di lato, nell’ombra, lontana dalla calca. Il suo nome è Valli, e lei stessa lo impara con felicità rinnovata da voci amiche. Del resto sappiamo il nostro nome da quando abbiamo memoria, ma lo apprendiamo con vigore allegro e sorprendente quando qualcuno lo affianca con musicalità insperate e con affetto, a un’identità più o meno acerba.
Valli sente di appartenere al suo stesso nome e a chi lo usa, e dunque a un Demo venuto per abbreviazione, sbucato dal nulla: ragazzino timido dagli sguardi audaci, col rossore delle voglie e delle insicurezze impastato con le parole buone per dissimulare, avanzare, promettere, raccontare; e poi scrivere, invitare, tacere, con la bocca deliziosa quando è per i baci; e vivo, sbigottito, quando la voce muore in gola e rinasce in un sospiro per il peccato che viene solo quando non si ha tenacia e fame per desiderare con forza: è cruciale e clamorosa la bellezza di chi si scopre a chiedersi fra i denti dove fossero stati mai fino ad allora, la grazia e lo scompiglio; e la smania di due corpi ancora incerti che si cercano e respingono per un istinto scherzoso, agitato. Demo e Valli si amano senza sapere l’amore, restano nei dintorni delle mani, delle cosce, del sesso da sperimentare; traggono bocconi rapidi dal poco tempo che trascorrono in solitudine, lontani da un gruppetto di amici che si direbbero pronti a tutto per difendere un angolo di paradiso, lo stesso Regno che dà il titolo a un libro dall’impronta salda e incantevole: una casa nei pressi di strisce d’acqua limacciose, coi pesci buoni per la pescatrice che dorme sopra un albero, e per il ragazzo con un tic soffiato tra naso e mugolii a bocca chiusa a spezzare i discorsi, certe volte, ma non il suo sguardo acuto su situazioni e persone: uno sguardo spoglio di preamboli.
Poi c'è un profeta senza pulpito, un profeta per gioco con pezzetti di religione presi per contagio da una famiglia stretta; lui si rintana in casa e poi fugge, torna al Regno con gli amici e con la musica, amica anch’essa, pronto a prestare traduzioni sghembe ai pezzi rock cantati e suonati in gruppo per finta: è vera l’energia, però, tra i Talking Heads e Jimmy Page: Whole Lotta Love è il pezzo forte, il pezzo di apertura, l’inaugurazione di una casa tutta per loro. Sono vere le smorfie, la gestione del respiro che al cantante vero non mancava mai; semmai quello si trovava a grattare la gola con gli ultimi residui di voce, e allora tutto era più carnale e autentico, per forza.
Il profeta somigliava in altezza a Fabiano. Fabiano il belloccio, Fabiano che si perde in fantasie scure e in pensieri di morte ad annebbiare lo sguardo, ad anticipare un futuro infausto tratteggiato appena alla fine di serate dedicate alle baldorie di un’estate afosa e forse ultima: vi sono eventi che una volta oltrepassati segnano una fine senza appello. E nel migliore dei casi a quella seguiranno degli inizi non voluti, inizi a sorpresa, destabilizzanti. È proprio questo il gioco della vita: una promessa mantenuta e il dolore appreso in mille forme; dolore che annienta anche se diviso con altri, a prescindere da colpe e responsabilità.
 
Raul Montanari inventa, segue e rimarca un profilo non sempre dolce per ciascuno dei personaggi e delle vicende confidate a un libro che a sua volta consegna al lettore una malinconia sottile e un sorriso agrodolce, quando tutto finalmente si svela per ciò che è, e per quanto è stato. L’irreparabile resta tale, ma una scia sottile luccica sullo sfondo di visioni non proprio nitide, certe volte. Offre un riparo alle membra stanche, e una possibilità di risanamento per chi prima o poi si spezza e si ricuce partendo da uno strappo profondo. Alla fine gli anni ammonticchiati sulle spalle si riveleranno fugaci e leggeri, almeno per un momento. E sarà ancora estate nei sogni ad occhi aperti, nelle voglie accese, nella fine priva di superlativi; e adattata, smussata, recepita con occhi e maturità nuove. E nonostante tutto, bella da crederci a stento.






giovedì 18 giugno 2020

Avenida Libertador




Non li ha inghiottiti la terra. Era l’aria?
Come le arene del mare innumerevoli; non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.

Noi non li compiangiamo. Non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono dovunque.

Senza gli assenti, nulla ci sarebbe.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.

Gli scomparsi sono giusti.
Cosí anche noi in un’eco.

 Hans Magnus Enzensberger


Leggere significa trovare tra le parole un respiro nuovo in ogni istante. Scomparsi i loro nomi, i cucchiai, le suole: resto imbrigliata in questa frase dalla musicalità stanca, avvolgente per difetto, mai arresa; e ogni volta ha un’eco diversa, un’ombra sottile lì dove prima era tutto forma e calore.

Si può disegnare un’assenza con toni leggeri, appena percepibili; eppure quella è un male netto e senza cura che dilaga, preme e non dà sollievo.
Assenti sono i desaparecidos che racconta Cristina Amato in Avenida Libertador (Divergenze edizioni): esistenze sbiadite loro malgrado, ma non nel ricordo di chi si adatta ai giorni svuotati degli amori che sapeva e che sa ancora nel tempo presente, pure col bene dell’appartenersi privato di ciò che è vero, tangibile. Le parole usate per dare corpo a ciò che scolora sono tenaci, forti, restituiscono una voce a chi ormai non ne ha e una giustizia almeno ideale, a dare un conforto pallido e carezzevole a chi legge e immagina, e a chi ha vissuto una tale e ingiusta privazione. A fine lettura resta l’immedesimazione e non la certezza del sentimento; e non è poca cosa, se si pensa che i nomi sono fittizi, e i personaggi rivelano il loro valore di persone pure restando imbrigliati nei confini agrodolci dell’immaginario. Si ama Tamar: giovane donna astuta, coraggiosa e volitiva, che non teme la forza del pensiero anzi lo innalza, lo porta avanti e ben oltre lei stessa. Lo porge senza ritrosie a chi teme la libertà di espressione, riflessione e scelta; perché insieme per alcuni non è che un sinonimo di identico, comune, piatto e dunque facile all’esercizio sterile del controllo da opporre a una spontaneità che invece culla Tamar, la identifica.
L’identità converge anche nel nome e nel cognome: quello di Lucas Tizak è molto caro a Tamar. I due coltivano un amore che prende slancio dalla diversità di carattere: uno schivo, l’altra esuberante. E imita i colori di Buenos Aires come in un fermo immagine: è il 1978 e l’atmosfera è densa di contrasti; da un lato la forma squadrata e gelida della dittatura militare e dall’altro la febbre sottile e vibrante dei gruppetti di tifosi in attesa dei mondiali di calcio.
Lucas come tanti, viene rapito. Occorre scoraggiare le iniziative ragionate, fiere: la ribellione è da ostacolare col mutismo, e quello va indotto in ogni modo. Chi mostra di saper scegliere ciò che è giusto per sé, si discosta da un insieme e va riportato nel gregge.
Alla purezza di Lucas che lotta contro sé stesso finché può, pur di tenere in salvo chi ama, va contrapposta la micidiale freddezza di chi davanti ad azioni ignobili e disumane non batte ciglio; di chi non sente il male addosso, neppure per associazione: come accade a chi deve avere negata l’infanzia e qualcosa, una sorta di meccanismo rotto, inceppato tra lo sterno e la forma dissolta dell’anima.
Tra le pagine si delineano le figure di una madre-scoglio, madre fiume; della sorella di Lucas che quasi sbiadisce insieme al fratello, pure essendo combattente e combattuta. Il padre del ragazzo che si segue da vicino per l’intera vicenda, è una sola briciola davanti a una montagna di dolore. È il bambino vero, e non importano gli anni sulla schiena, la barba sul volto.
Si incontrano e non si dimenticano lunghe lettere che trovano risposta solo in mondi paralleli; un figlio veste i panni di colui che lo ha messo al mondo, una bimba con due nomi e una sola identità, una donna col ventre dolorosamente vuoto, e un libro interrotto per sempre a pagina dodici. Poi il cammino stanco ma felice di chi ritorna sapendo che nulla apparirà come alle origini. E si sente nascere due volte, mentre porta con sé il peso dei ricordi cari e voluti, e non rinnega gli episodi marci, poiché spera di ricavare da quelli una memoria rafforzata e indelebile.




martedì 16 giugno 2020

Intervista ad Alessandro Bastasi




Maciniamo passi e racconti, sotto i piedi e sotto pelle; siamo libri aperti e chiusi, la nostra storia trapela dall’inchiostro indelebile del ricordo, della testimonianza: siamo questo cielo blu che resiste alle offese dell’incuranza; gli alberi alti e nodosi col tempo da contare sugli anelli e rilievi da percorrere in punta di dita: rughe sulla corteccia come in un volto amato. L’arte ci fa discutere e incantare, conserva le visioni anche emotive dell’evolversi. E vi sono storie annidate dentro migliaia di altre storie, piene di tanta meraviglia oppure sofferte, che a contarle verrebbero le vertigini e una strana soggezione: certe volte si vorrebbe comprendere il mondo intero in un secondo, senza essere capaci di ammettere e capire sé stessi, pure contando molti indizi.
Di indizi e conoscenza, di storie interrotte e in perpetuo affanno si trova un ampio e avvincente riscontro in La Scelta di Lazzaro di Alessandro Bastasi, edito in formato eBook da Meme-Publishers e in versione cartacea da Divergenze.
La curiosità non ha risparmiato me e lui che ringrazio molto, per ogni domanda venuta dalle sue abilità narrative, per gli argomenti trattati che ho divorato. E per le risposte che ancora mi portano a quanto ho da scoprire e approfondire.
 
Hai una scrittura dinamica, quasi fotografica. La tensione, il ricordo, la sorpresa, hanno pause differenti e luci che piovono sulle parole con impeto o lenta agonia. Più volte fai riferimento al cinema: dal Citizen Kane di Orson Welles a Giulio Bonsignore, un personaggio del tuo libro che fin nei primi cenni indichi come "l'inquilino del terzo piano", che tanto ricorda l'omonimo film di Roman Polański.
Potessi affidare La Scelta di Lazzaro a un famoso regista, escludendo i già citati, quale sarebbe?
 
In effetti spesso nei miei romanzi faccio riferimento al cinema, esplicitamente o meno. Ad esempio il personaggio di Bonsignore, oltre a "L'inquilino del terzo piano", ricorda il protagonista de "Le vite degli altri", di Henckel von Donnersmarck. Ma più di tutti per questo romanzo sono debitore a Liliana Cavani. Come ho scritto nelle note dell'autore in postfazione, con "La scelta di Lazzaro" il mio obiettivo era di proporre una riflessione sul periodo della lotta armata e soprattutto sul “dopo”, visti dal punto di vista di un ex militante di allora e di personaggi che con lui, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, avevano avuto a che fare. Ma non riuscivo a definire il taglio più consono, finché non ebbi l’occasione di rivedere “Portiere di notte”, un film del 1974 della Cavani, appunto, che metteva in scena l'incontro, dopo tanti anni, di un ex ufficiale nazista con una donna ebrea sopravvissuta al lager in cui era internata. Fu una folgorazione: adesso sapevo come impostare la mia storia, e soprattutto ne conoscevo il finale, l'unico in grado di liberare i due protagonisti, Lazzaro e Barbara, dalle morse di un passato che apparteneva soltanto a loro.  Per questa ragione forse affiderei a lei, nonostante i suoi 87 anni, "La scelta di Lazzaro"; oppure a Gianni Amelio, che il tema della lotta armata, da un altro punto di vista, l'ha trattato nel suo "Colpire al cuore" del 1983.
 
Il tuo romanzo è costellato di episodi che danno un ritmo agile alla narrazione. E sono tutti mossi da un'energia che non si dissolve e non cade mai nell'eccesso. Lazzaro e Franca condividono un momento di lunga tensione: la forza rivoluzionaria che scelgono e usano, non ha sesso. La donna si discosta dall'uomo per un soffio. E avanza con gesti forti, esasperati e mascolini, col corpo nervoso e fiero; solo il passato e la memoria di Lazzaro conservano i momenti passati insieme a lei che pure sapeva riservagli premure vellutate, pacate.
Franca resta pensosa, decisa, sottile; e la sua condotta prende le parti di un concetto espresso dall'ex brigatista Adriana Faranda: "Camminare al margine di una società che non amavo, sottrarmi alle sue norme e ai suoi luoghi per andare a cercare un piccolo spazio tutto mio nel quale dividere con pochi altri i miei ideali, mi sembrò ben presto una prospettiva perdente, misera ed egoista".
Come con Franca e Lazzaro, occorreva servirsi dell'azione, delle armi, e non più delle forme pacificate del compromesso e della mediazione, per ottenere alternative valide ai mali politici e sociali del Paese.
In che modo i tuoi personaggi intendono la rivoluzione? E quest'ultima arriva mai a coincidere con la perdita di dignità, quando subentra la paura? 
La tua, di memoria, in che modo rivive quegli anni?
 
“Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana.”  Così ha scritto Erri De Luca. La rivoluzione per Franca e Lazzaro è questo: scendere nell'Ade per liberare Euridice. Darsi una missione e portarla fino in fondo.  Erano i leoni, gli artefici della potenza della Storia. La Storia li avrebbe giudicato, non la Morale. Erano gli angeli che strappano i sigilli del Libro e scatenano l’apocalisse, erano i puri di cuore, che avrebbero liberato il proletariato dai ceppi del capitale. E certo, la paura esiste, è umana, ma si supera, senza perdere la dignità. Perché in Franca e Lazzaro subentra la consapevolezza che stanno compiendo un’operazione strategicamente necessaria, e questo, nella loro visione, è l'apice della dignità. Il loro errore, e quello dei tanti che ci hanno creduto, è stato di non tenere conto fino in fondo delle condizioni strutturali in essere e di quelle che stavano maturando già in quegli anni: da un lato l’affermarsi delle nuove tecnologie che in poco tempo avrebbero scardinato i rapporti di produzione così come li avevamo conosciuti fino ad allora; dall’altro lato l’errata convinzione che le condizioni rivoluzionarie si sarebbero verificate radicalizzando fino alle estreme conseguenze lo scontro. Non comprendendo invece che il terreno del conflitto diventa fertile solo se nella presa di coscienza della natura classista della società l'élite rivoluzionaria riesce a coinvolgere le moltitudini. A questo aggiungiamo il velleitarismo contro un antagonista di classe potente e ramificato, grazie anche all’alleanza con apparati dello Stato e alle pressioni di paesi stranieri quali gli USA. Un antagonista che non ha esitato a mettere in atto una strategia stragista (questa sì di stampo “terrorista”) per combattere sul nascere i prodromi di una riscossa sociale iniziata con l’autunno caldo del ’69. 
Per ciò che mi riguarda, ripenso spesso a quegli anni, con la consapevolezza di un'occasione mancata per quella scalata al cielo che era nei sogni della generazione del '68. Anni totalmente rimossi, una rimozione voluta e imposta dalla politica, dai media, dai potentati economici, a destra ma soprattutto a sinistra, finalizzata a derubricare a mero fenomeno criminale tutto ciò che riguardava le vicende di quegli anni, come se fossero state un bubbone malato su un corpo sano. Non si è mai voluto, per scelta, addentrarsi in un’analisi puntuale e senza pregiudizi del contesto e delle ragioni politiche che hanno determinato la nascita dei movimenti armati. E secondo me ne stiamo ancora pagando le conseguenze.
 
Euridice dorme e farà di certo sogni d'arsenico. Mi torna in mente una versione del mito che porta l'impronta allucinata di Stefano Benni: «Io so che tu puoi guarirla, stregone. La mia ragazza caduta dal cielo, polvere di cometa sul mio tetto, lei che muove col pensiero le altalene dei giardini, lei che con uno sguardo dei grandi occhi bistrati gela il ghigno degli spacciatori, lei odorosa di fiori e nitrato di amile, Euridice, lei che ora è spenta, bianca, immobile nella nostra casa, dove tremano di freddo anche i ragni. (...) Io so che puoi guarirla stregone, anche se agli occhi del mondo lei è morta, troppa chimica, troppi libri, troppe notti da sola, quando io ero lontano. Così mi ha detto: si è sempre soli una notte di troppo».
 
Proprio questa frase: Si è sempre soli una notte di troppo, mi conduce alle donne inquiete, donne da amare confidate al tuo romanzo: sono forse loro la parte più energica e viva? Somigliano a qualcuno che ami o hai amato? Chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?
 
Hai colto nel segno, sono le donne la parte più viva ed energica del romanzo. Tutte e quattro, ciascuna con le sue peculiarità, la propria storia. Di Franca abbiamo già detto. Un amore tra studenti, all'inizio allegro e spensierato, poi diventato un legame di sangue, del sangue versato e del sangue proprio, dove non c'è spazio per l'amore a tutto tondo, la tensione è verso l'obiettivo, tutto il resto passa in secondo piano. Poi c'è Samar, che potrebbe essere un amore per Lazzaro se lei non conservasse dentro di sé la violenza di un passato recente, il vento mortale della guerra civile che le ha rubato prima il padre e poi la madre, se questo vissuto (anche lei, un vissuto di morte!) non la facesse tremare al minimo accenno di un possibile ritorno a quel passato, e, infine, se probabilmente lei non si fosse legata a Lazzaro per un riflesso inconscio riguardante la figura della madre, Afrah, forse l'unica donna che Lazzaro ha veramente amato. Ecco, Afrah. Personaggio minimo, dolente, riservato, che però giganteggia nel cuore di Lazzaro, tanto da accompagnarlo con la memoria nella sua lunga detenzione, durante la quale tutte le sere lui le dedicava i versi del Cantico dei Cantici (altra esplicita citazione cinematografica, da "C'era una volta in America" di Sergio Leone). E poi c'è Barbara, la vera antieroina del libro, anche lei legata al protagonista per fatti di sangue (sangue, ancora!), fragile e trasparente, determinata come una roccia, esile e dura, destinata a instaurare con Lazzaro un rapporto di odio che sfocia alla fine in una interdipendenza dei loro destini. Quindi, venendo alla domanda "chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?" direi che la risposta in generale è no, fatte salve situazioni eccezionali. Sicuramente non con un uomo come Lazzaro. 
E sull'altra tua domanda: no, nessuna di queste donne assomiglia a qualcuna che amo o che ho amato. Ho invece realmente conosciuto una Samar (si chiamava proprio così) durante una mia permanenza a Beirut nel 1994, ed è effettivamente stata la sua storia personale e familiare - simile alla storia della Samar del libro, purtroppo - a suggerirmi il personaggio che porta il suo nome. 
In fondo non sono che un ladro di storie.
 
Il viaggio è un punto fondamentale ne La Scelta di Lazzaro: ogni personaggio si trova prima o poi a ridefinire i confini interiori arricchendoli di visioni prese in prestito dalle terre conosciute, amate e rimpiante. 
I luoghi vissuti e non soltanto visitati, hanno un'anima. E l'anima dei luoghi dà senso alla persona e al suo più intimo sentire.
Qual è per te il senso del viaggio, fuori e dentro il tuo romanzo?
 
I luoghi hanno un'anima, questo per me è fuori dubbio. E in generale il senso del viaggio è esattamente questo: cercare di scoprirla e farsene tesoro, arricchendo se stessi e il proprio vissuto delle sensazioni, delle emozioni, delle suggestioni, dell'aura che emana da quell'anima. Ho viaggiato in molti paesi del mondo, dalle Americhe all'Asia, dall'Europa all'Africa, e ogni volta riflettevo su quanto sia inconcepibile il razzismo nel momento in cui vieni a contatto con genti altre da te, purché tu sia in grado di assaporare il profondo della Storia che le avvolge e non le veda con l'occhio del turista affamato di esotismo. C'è una bellissima frase in "Il tè nel deserto" che ricordo spesso: "Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori. Oh! Che differenza c'è? Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare affatto".  
Poi, a una certa età (la mia), subentra l'esigenza di un altro viaggio, quello interiore. Che consiste nel tentare di conoscerti per quella che è la tua essenza, in virtù di tutto quello che hai fatto, che hai vissuto, di quello che hai visto, dei luoghi dove ti sei fermato, delle persone che hai conosciuto. In fondo è quello che inconsciamente succede a Lazzaro, attraverso il rapporto con i personaggi che lo circondano, da Pietro Micca a Samar e soprattutto Barbara: acquisire quella coscienza di sé e del proprio destino che gli consentirà alla fine di fare la scelta giusta.
 
Quando si parla di viaggio, difficilmente non penso a Bruce Chatwin. Credo vi sia una filosofia del viaggiatore e una del luogo viaggiato, che richiamano arte e sentimento, letteratura, spirito di immersione e di sensazione. Per placare la voglia di sapere e di sapersi in ogni luogo, serve anche coraggio?
Lo saprà di certo il micio filosofo de La Scelta di Lazzaro: "il gatto è il più grande dei filosofi viventi", scrivi.
Tra le persone che Chatwin incontra nei suoi itinerari, tra le pagine di In Patagonia vi è un uomo di mare coi suoi diari pieni di scritte, di elenchi: «il carbone bagnato, le cimici nei letti delle locande, e i marinai che arrivavano a bordo ubriachi. (...) C'erano le facili ragazze della California; la sbrigativa giustizia dei tribunali; la banda di Beale Street che scolava barili di vino di Spagna in una barca, mentre Charley mangiava un tortino di zucca con la guardia notturna sul molo. (...) Ricordava Ah-Sing, il lavandaio cinese che spruzzava l'amido con la bocca; e i marinai cinesi col vestito della festa di splendide sete, che bruciavano bastoncini profumati al loro idolo, inchinandosi al sole mentre i paranchi passavano sibilando sulle loro teste».



La filosofia del viaggio, con e senza gatto, quale posto occupa nel tuo romanzo? I personaggi si muovono per fuggire o per scoprire? E soprattutto: il gatto di Lazzaro ha un approccio stoico o epicureo?


Il gatto è la filosofia. Nell'ultima pagina del romanzo Lazzaro apre la porta dell'appartamento per permettere al gatto di uscire: "L'accosto appena, quanto basta perché la filosofia possa salvarsi, correre libera anche dai vincoli dell'affetto". Se il gatto è la filosofia, è sia epicureo che stoico, in una sintesi cui solo lui può arrivare. Il gatto è atarassia, assenza di turbamento, ma è anche apatia, distacco dalle emozioni. Il suo fine, in quanto filosofo, è raggiungere la libertà, che per il gatto coincide con quella del mondo, a un livello quindi superiore rispetto a quella del singolo essere esistente. Il gatto è l'etica, l'essere nel quale Lazzaro rispecchia i propri convincimenti, i propri obiettivi, i propri comportamenti. Il gatto è il viaggio interiore, mentre per il Lazzaro della lotta armata, per Franca, Samar e Pietro Micca il viaggio è una fuga che per alcuni si risolve nella scoperta. Lazzaro fugge, braccato dalle Istituzioni, prima sui Pirenei, poi in Libano. Ma una volta a Beirut scopre un mondo, incarnato in Afrah, e scopre se stesso e la missione che si vorrà dare, quindi la propria libertà e quella del mondo, a partire dagli eventi di Sabra e Chatila. Ma anche Franca è una fuggitiva, anima tormentata, secca, bruciata. E Samar, che arriva in Italia per sfuggire alla morte, e Pietro, che vola in Brasile dove scopre chi è veramente, un mercenario che ha abbracciato la lotta armata per spirito di avventura, pronto a vendere se stesso e gli altri a chi gli propone l'ennesima scarica di adrenalina. L'unico personaggio per il quale il viaggio è un eterno ritorno, una drammatica coazione a ripetere, è Barbara: la sua intera esistenza è un loop che ritorna sempre al punto iniziale, per ripartire più intensamente di prima, per ritornare più rabbiosamente di prima. 
 
Barbara mangia e vomita, e poi ripete ancora tentando di placare un vuoto senza requie: pare uno spirito vestito a festa, un mucchietto d'ossa che vuole ogni cosa invano, senza sosta; donna dagli occhi taglienti come vetri rotti, in bilico sul ciglio di un'esistenza spenta da troppo tempo.
Lazzaro ravviva intrecci e vitalità passate solo quando abbraccia una scelta che fa capolino fin dal titolo: sappiamo che avverrà qualcosa, e abbiamo dunque il sentore e non la certezza della strada intrapresa. 
I vivi sono in fuga da qualcosa o da sé stessi, sono vigili, inquieti. I morti si lasciano ricordare, non sbiadiscono mai davvero nel tessuto del racconto.
L'amaro e giusto fine è forse il coraggio di chi intravede i propri mali tramutati in vizi, in sottili e invisibili catene, e non abbassa mai lo sguardo? E il lieto fine quando non c'è, in cosa si tramuta?
 
Il finale è dato dal coraggio di accettare di non esserci. Lazzaro e Barbara sono l’uno lo specchio dell’altra, hanno vissuto l’epoca del mito, lui quale artefice, lei quale vittima sacrificale. Nel momento in cui i ruoli si invertono, nell’istante in cui Lazzaro capisce che adesso è Barbara l’artefice del loro destino, lui l’accetta, il cerchio si chiude e così facendo decreta la fine dell’epoca del mito. Devono scomparire, non uscire più dal sepolcro, rimanere in eterno legati alle proprie icone, mentre là fuori il mondo procede a scatti, disordinato, irriconoscibile, un universo nel quale non c’è posto per i due. Un’altra epoca ha inizio. Potrebbe essere un lieto fine, che supera i destini di Lazzaro e Barbara. Ma non è. È l’alto medioevo, preda di barbarie vecchie e nuove, che deve ancora trovare la sua strada.




sabato 13 giugno 2020

Zelda




Zelda col mento poggiato sulle nocche di mani per nulla curate.
Zelda coi capelli d’argento.
Zelda che quando piove sorride agli sconosciuti.
Zelda che fa il verso ai gatti.
 
Era un elenco senza fine, quello lì. Una cosa che non sapeva dire quando fosse cominciata. Nei cassetti della memoria spiava e tastava un vuoto lungo e limaccioso, perché lui toccava tutto con le mani sporche d’acqua e alghe; mani con un reticolo di scie umide lasciate dai pesci che catturava solo per una carezza, per tenere con loro un discorso a senso unico; quelli boccheggiavano un istante e poi sgusciavano dalle mani già protese verso l’acqua, via da una stretta lieve che mai opponeva resistenza. Prima di liberarli seguiva con occhi affamati il dorso, le pinne e tutti i loro guizzi; le branchie erano una cosa da meravigliarsi per sempre. Sperava gli insegnassero per contatto come fare a nuotare: lui non l’aveva mai saputo. Quei pesci dalla pelle di fiume, pelle algida, liscia, pesci come piccole lune d’argento, sembrava sapessero meglio di lui pure certi discorsi amorosi. Zelda restava a rimirarli con aria invaghita, languida, e non parlava mai per il timore di inquietarli quando lui la invitava su una barchetta sgangherata che sembrava disegnata dalle mani tempestose di un bimbo. E dentro quei silenzi rinfoltiva il suo elenco prendendo appunti di nascosto mentre lei dormiva accovacciata in un angolo umido; e le assi di legno della barca abbracciavano il suo corpo: quale invidia sempre taciuta, invidia poderosa.
 
Zelda che segue itinerari vivaci, dietro le palpebre chiuse.
Zelda con le labbra rosse.
Zelda oggi non ha mangiato proprio niente.
 
Lui non lo poteva sapere, ma Zelda sentiva il grattare insistente della penna su un foglio troppo sottile poggiato solo sulle mani, sulle gambe, con l’oscillare su acque di lago a ostacolare i discorsi; sapeva la scrittura a zigzag, a onde, curve e spirali: aveva udito di nascosto l’uomo dei pesci imprecare contro la sua sorte e tutte le virgole del creato. Voleva scrivere in apnea come gli animaletti acquatici che tanto amava, ma non riusciva a farlo.
Da quanto tempo non toccava cibo, Zelda. Sentiva la vita assottigliarsi e non soltanto nella carne: sentiva proprio i giorni allentare la presa su di lei, i respiri farsi flebili nelle notti cupe e avverse. Sognava manicaretti sontuosi e li divorava solo nei mondi curati da Morfeo con voracità sensuale e grata: leccava le dita, le labbra, contava le briciole rimaste sul piatto affinché nemmeno una le sfuggisse. Poi le posava nell’incavo del collo, sulla punta del naso, sui polsi, e invitava l’uomo pesce, gli offriva la soluzione al dilemma che era quel loro esistere di traverso.
 
Zelda camminava da tanto, ed era così stanca. Contava i battiti del cuore: erano tre al minuto. Il giorno prima era uno solo e un pezzetto. La settimana precedente la lasciava addirittura in debito: sotto zero, con ghiaccio. Perciò aveva trasferito in un bicchiere alcuni cubetti di quel gelo imperante, seduta al tavolino di un bistrot. Vi era un forte odore di cibo nell’aria, quasi riusciva a vederne le singole sorgenti: quei profumi li pensava come fossero fiori, sassi, terra, in base alle sensazioni che le suscitavano le pietanze, gli oggetti, le reazioni altrui alla vista del piatto colmo di ogni delizia. Lei negava il bisogno, negava la fame, pronunciava un no ostinato a bassa voce, di continuo. Le negazioni erano una litania che prendevano uno spazio troppo largo nella sua mente. Le offrivano di tutto e lei diceva no, soltanto no, non voglio.
Ma l’uomo pesce la conosceva bene, perciò l’aveva invitata in quel posto. Un bel giorno le aveva detto che poteva scegliere pure poco o niente, bastava restarsi accanto. Niente più niente, farà pure qualcosa, sospirava; e subito dopo canzonava sé stesso, i suoi passi storti, i capelli appiccicati alla fronte. Lei lo ascoltava e intanto pensava: se mi spuntassero le branchie lo ameremmo entrambi, questo corpo.
 
Ora lo aspettava, seduta a un tavolino con sopra un vasetto coi fiori finti, e una tovaglia con delle toppe a forma di ciliegia, fragola, mela rossa. Dunque è così che si fa, pensava: si copre il difetto che c’è con l’armonia che si può.
Le specialità del giorno erano tutte contenute in un Menù No pensato apposta per lei e trasferito in un cartoncino sottile con un disegno di alghe, bolle e pesciolini. All’interno, non una sola voce: la scelta era da fare tra tutto quel niente e qualsiasi richiesta le fosse venuta in mente.
Fissò il vuoto con aria sollevata, rovistò in borsa, afferrò una penna e quasi distante da sé, fuori da sé, scorse le prime macchie d’inchiostro sul menù. Era proprio la sua mano a scrivere le voglie, i languori, in attesa che lui entrasse e sedesse con lei per raccontarle ancora di quella volta al lago.



- Foto di Matteo Pioltelli -


mercoledì 10 giugno 2020

Se una notte d'inverno, i Pogues




Sono giorni di pioggia, questi. Giorni e notti d’aria fresca a pungere la nuca, a pettinare le ciglia appese alle palpebre intente a imitare il sonno, solo per fare più intimo il pensiero e l’immagine che rievoca serate invernali: sere brillanti odorose di legna, di fuoco e dimenticanza; ed è lì che viene facile cercare gli opposti per il modo in cui riescono ad attrarsi, certe volte, in un viluppo stretto e saldo che viene da lontano, prende due parti e le vede coesistere sotto lo stesso cielo, la stessa terra calpestata coi piedi stanchi e coraggiosi.

Vi sono giorni in cui mancano le storie: quelle narrate in un tempo di gufi e saette, di luoghi lontani dalla calca, dalla gente che conta, con le confidenze lasciate gocciolare via da un bicchiere rotto, dagli occhi lucidi e le guance imporporate: luoghi lontani e suoni che evocano una geografia esatta, anche quando non proviene da un’esperienza diretta, ma da un disperato volere ogni cosa, all’infinito. Giorni venuti col desiderio di viaggiare, per le linee di un solo sentiero intravisto, lungo le curve e le salite ripide. Viaggiare per istinto, per sapere la meta successiva, per stancare le gambe appesantite da una ripetuta immobilità, e sgranchire l’animo che non sa più lasciarsi andare; scioglierlo in un ballo disinvolto in una notte tutta luna, che se si ascoltano i Pogues è proprio facile che conduca almeno nella fantasia, nelle terre d’Irlanda. I Pogues che in origine avevano scelto il nome di Pogue Mahone (in gaelico: Baciami il culo), per siglare la loro unione e farsi riconoscere. Proprio loro: coi suoni di violini e fisarmoniche, spesso dirompenti e a volte grezzi, che serve amarli oppure odiarli, senza mezze misure. Ascoltandoli, viene un pensiero che somiglia a certe foto: di quelle che un tempo bisognava saperle fare, e adesso sono solo gesti meccanici, stupidi tributi a una tecnologia che invade e non completa; che proietta il soggetto in uno scatto, lo fa presente per riflesso; e quello intanto scorda di essere già lì, in favore di una testimonianza da portare ad altri per vanto. Si finisce non di rado a vivere per sentito dire, avendo nelle orecchie il richiamo di altre tentazioni, come Ulisse con le sirene: succede di scoprire che ciò che viene dato per necessario, è soltanto un inganno. Che è fondamentale solo sapere i propri spazi, anche e soprattutto interiori; e imparare ad amarli.

Lo cerco ma non lo so ancora usare, questo balsamo. La ragione è sicurezza ed è follia al contempo: l’immaginazione solleva da ogni ingombro, quando ci si addentra in riflessioni tortuose. Ed è allora che si approda dritti nelle note di Sit Down By The Fire, che è una vecchia polaroid, polvere e ritmo. Capelli sciolti e mani sui fianchi, la compagnia di molti e gli occhi per uno soltanto. La voce di Shane MacGowan corre e pizzica, ha una velocità che è respiro ben dosato; è racconto già appreso e offerto, col trasporto che si deve agli impulsi, alle buone alleanze: quelle che bisogna allacciare con una voce amica, con un tepore insperato, tra le braccia della notte o di qualcuno che sappia alleviare la paura di un buio che striscia, sibila, danza con l’inquietudine che sbuffa e scalcia in compagnia della Signora Suggestione. E allora bisogna strizzare forte gli occhi, fare finta di non sentirle neppure, quelle odiose presenze: non-esseri venuti da chissà dove, a un passo dal letto, fin dentro i sogni più scuri e senza fondo.

If I Should Fall From Grace With God è un album del 1988 che reca in molti punti un’atmosfera vivace-e-veloce, nonostante i temi trattati e proprio per quelli. Rallenta un po’, certe volte. Plana su Lullaby of London con la dolcezza che può, con dei residui di malinconia nella voce. La tenerezza è una cura buona per pochi, una premura da destinare agli amori scelti: la migliore difesa contro chi vorrebbe una massa senza slanci, disumana. Siamo capaci di proteggere dalla realtà e dagli incubi, coi mezzi limitati di cui disponiamo, col corpo-guscio e l’animo in tempesta. E se si può fallire lo si fa, custodendo ancora e fino all’ultimo i buoni intenti. Streets of Sorrow si lega stretta a Birmingham Six. Una ha il sapore amaro del rimpianto, delle strade conosciute, amate, e di una separazione forzata: narra le volte in cui lasciare un luogo è una sconfitta, un prezzo da pagare per gli orrori vissuti, per le vite offese e smesse, e non per scelta ma per il torto di una mano nemica. Birmingham Six ha la grinta di una denuncia osata con voce ruvida e battente:

«You'll be counting years
First five, then ten
Growing old in a lonely hell
Round the yard and the stinking cell
From wall to wall, and back again».

Il testo racconta la vita di Hugh Callaghan, Patrick Hill, Gerard Hunter, Richard McIlkenny, William Power e John Walker, i “Sei di Birmingham” ingiustamente torturati e incarcerati per la morte di 21 persone, avvenuta in seguito all’esplosione di una bomba che si presumeva avessero piazzato proprio loro, in due diversi locali inglesi in città, nel periodo dei conflitti tra il governo inglese e l’IRA: l’esercito di liberazione clandestino dell’Irlanda del Nord. Stessa sorte toccò ai Guilford For, citati anche loro nel pezzo: Paul Hill, Gerry Conlon, Patrick (Paddy) Armstrong e Carole Richardson, accusati ingiustamente nella morte di innocenti, in seguito a una carica esplosiva piazzata in un pub di Guilford. Anche loro furono costretti a firmare delle dichiarazioni di colpevolezza in stato di semi-incoscienza.

È con Fiesta che si torna ai ritmi spediti e allegri di un gruppo serio ma non troppo, e scalmanato quanto basta: è una canzone che ammicca, che diverte; comincia piano, per sorprendere. Poi è una folle corsa per le strade della Spagna: lo spagnolo si insinua tra le righe, e rende l’insieme anche più caotico e incalzante. Non mancano i riferimenti a Coleridge, come a un chochona che parrebbe non avere un significato preciso, messo lì solo per il suono e con intento goliardico, malizioso e dirty, come direbbero gli inglesi. Non mancano neppure i riferimenti a Costello “el rey de America” e alla bassista del gruppo Cait O’Riordan: i due se la intendevano non poco, al punto che si sposarono a dispetto di un contrariato MacGowan, memore di un amore nutrito e poi dissolto tra un canto rabbioso e una potente bevuta. 

Il brano che presta il titolo all’intero album, If I Should Fall From Grace With God, è una dichiarazione d’amore per la propria terra, per la libertà di vivere e viversi come possibile, anche sull’orlo del fallimento, anche da emarginati: con gli occhi puntati a una realtà che non si cerca di abbellire ad ogni costo, che va presa per quello che è, con la dignità che spetta a ognuno: nella vita e nella morte. Così Shane canta:

«Bury me at sea
Where no murdered ghost can haunt me
If I rock upon the waves
Then no corpse can lie upon me».

 E questa sì, mi pare una libertà di tutto rispetto.




sabato 6 giugno 2020

Il Dio di Martin Michael Driessen




Mi chiedo da quando non ho risposta, cosa ci sia di più divino del restare piazzati dentro certi abbracci. Dove possa ritrovarsi un dio dalla pelle gialla, bianca, nera, un dio donna, uomo, giovane o anziano, se non nel mare che brontola la notte e allaga i pensieri, nei discorsi tutti interiori di chi deve tirarsi a galla, nello stupore, nelle mancate giustificazioni, nella musica che ricorda qualcuno e in qualcuno tutto e solo umano che è musica e letteratura, quiete e scompiglio felice. Immagino un dio nascosto nel grembo di una montagna e nello sguardo dei gatti; uno che si adagia sui contorni di un’isola, uno nel fragore delle solitudini e sulle mani paffute di un bambino quando ancora non ha coscienza di sé, non sa di impersonare la perfezione.
Non ho sentenze da avanzare, nessuna predica, niente discorsi sensati. Mi avvicino all’argomento con un misto di intimità, soggettività, e con la curiosità che mi porta a fare domande su domande da quando un prete mi zittiva con tre Ave Maria e un Padre Nostro nei pomeriggi che seguivano le lezioni di catechismo. Io sbadigliavo, volevo le storie, volevo capire soltanto quella storia grandiosa di un uomo magico che vive, muore e torna a vivere anche per me. Ma lontano-lontano, in quello che da piccina disegnavo come una specie di spazio, una stella ammobiliata senza obblighi d’affitto. Sono passati molti anni e ancora vorrei quelle storie, ancora vorrei chiedere, dubitare, restare incollata alle convinzioni altrui e costruirmene di mie, pronte a sgretolarsi e a ricomporsi in mille modi: le mie preghiere non sono statiche, non le voglio recitare.
Ed è qui che spunta Padre di Dio di Martin Michael Driessen (Del Vecchio Editore).
Ho sempre pensato alla forma umana ed emotiva del Creatore. Va bene, sarà pure divino, ma non posso pensare che non sia stato in qualche forma appena un po’ terrestre, felice, deluso. Non mi sconvolgerebbe neppure pensare a un dio innamorato, del resto cosa ci potrà mai innalzare se non l’amore sminuzzato, adorato, sospirato e condiviso in ogni forma con chi si sceglie?
Martin Michael Driessen è andato un bel pezzo oltre: si potrebbe ammonticchiare aspettative e lui le scarterebbe superandole spedito. Padre di Dio diverte un mondo. Ma questo è riduttivo, poiché non si sorride soltanto: la storia narrata è già conosciuta, ma è diversa la sostanza, lo sguardo, l’interpretazione. Il dio di tutte le cose è prima di tutto un uomo svagato, paradossale, malizioso. Con uno schiocco di dita crea intere galassie, e i suoi sogni si materializzano: si fa presto con lui, a trovarsi in casa una giungla, un concerto di lucciole, oppure Mosè in abiti discinti sul punto di rubare con fare tutt’altro che divino, un pezzo delle sorti di un popolo esagitato. Le cose vanno alla malora, l’essere umano riesce pure a scombinare i piani di Dio che intanto carezza la testa piccina di Clara la colomba, che desta in qualche modo le gelosie della governante Bartje intenta a preparare manicaretti vari. Dalla cucina vede l’universo lungo ed eccessivo appiccicato a una finestra, e la cosa la turba non poco. Bartje ha un debole per le forme sinuose e compatte del corpo di Mosè sotto le vesti.
 
«Dio si svegliò con i postumi della sbornia. A pranzo Bartje non osò rivolgergli la parola, torvo com’era, la testa china sul piatto.
- Vado a letto, - disse Dio dopo il dessert. Svegliami pure domani mattina.
- Non è ancora finita? – chiese Bartje. – Pensavo che sarebbe stato tutto pronto in sette giorni.
Dio la guardò con gli occhi iniettati di sangue sotto le sopracciglia irsute e disse: Tu non sai proprio che cosa sia pensare.
La governante stette zitta. Dio salì le scale come un vecchio e si lasciò cadere sul letto col proposito di dimenticare l’intero creato. Per la prima volta lei lo sentì russare».
 
Raccontare le Sacre Scritture con il beneficio di un’ironia dissacrante e a tratti blasfema, non è certo semplice. È abilità squisita di Martin Michael Driessen anche quella di variare registro in molti punti: i personaggi vengono ritratti alle prese con una quotidianità che ha le incombenze tipiche di chi con mezzi diversi dai nostri, doveva pur sopravvivere. Maria è una donna armoniosa, imprendibile. Giuseppe un padre che accetta suo malgrado una sorte dal sapore aspro, e non conosce rassegnazione fino alla fine dei suoi giorni. Gesù nasce piccino come tutti i bimbi, cresce con rari attimi di spensieratezza, sapendo di avere un destino alto e sofferente da abbracciare. Padre e figlio intraprendono un lungo viaggio: l’adulto non trova pace e prova ad ostacolare i piani di angeli improbabili e di un Padre Celeste che vuole sottrargli il suo affetto più grande per sacrificarlo in nome di un bene maggiore. Ecco la tenerezza che non conosce pietismi né smancerie, e le riflessioni che nascono e crescono spontanee di pagina in pagina, quando ci si trova a osservare le cose da un punto di vista nuovo, amaro e comprensibile: era tutto definito, eppure…
Eppure a volte ci si trova a rinnegare l’ovvio. Eppure a volte siamo eroi senza averne l’aria. Eppure non era modo, ma era da tentare; eppure siamo qui, eppure chi siamo?
Siamo quelli che forse ridere un po’ non farà male. E se alla fine ci faremo seri non sarà un’aria grave e greve, quella che respireremo. Sarà un vento nuovo, sottile, venuto da un bacino di stelle e da una mano divina, un alchimista buono che ha sognato formule e possibilità, fiori, carne e cielo. E da allora siamo qui: quante volte lo scordiamo?



venerdì 5 giugno 2020

Sinola







Intraprendere un viaggio è una questione delicata e appassionata, che prende slancio dalla parte più profonda di noi stessi. Occorre che vi sia curiosità, e non la chiusura di chi fa di un territorio conosciuto, un regno da difendere in maniera ottusa da un pericolo inesistente. Regno di vetro, capace di andare in frantumi per un nulla, e dunque ripiegato entro mura invalicabili. Il confronto alimenta lo spirito e le possibilità: chi resta arroccato sulle proprie convinzioni rischia di vederle franare, prima o poi, insieme alla purezza di uno scambio che non di rado si rivela necessario alla conoscenza: che sia degli individui o delle cose, rimane una ricchezza da coltivare e custodire in ogni modo.
Abbiamo memoria e prova dell’immensa distesa di mondo che si allunga oltre i nostri occhi, e che non sempre viene tutelata e rispettata. Volerla percorrere è stata materia buona per gli esploratori che da tempi lontani hanno svelato le correnti marine, ogni nucleo di terra e di civiltà, arrivando a bramare in alcuni casi, una smania di possesso che ancora adesso si coglie bene tra le righe, e i fatti stessi. Chi ha occhi attenti lo nota senza troppo scavare in significati che non sempre troverebbe: è il dissenso, a godere dei consensi maggiori; e fosse solo un gioco di parole, sarebbe assai più facile impararne le regole.
Ecco una parte delle riflessioni affiorate dalla lettura di un romanzo di Paolo Ceccarini pubblicato da Prospero Editore, e intitolato Sinola: una storia che non potrebbe essere più attuale e più sentita e che va oltre la realtà, ma la porta con sé in ogni piega. L’intera narrazione è densa di nomi ricavati dalla sola fantasia e di terre che non hanno la forma esatta della nostra geografia, coi popoli che si distinguono gli uni dagli altri per delle differenze che non sapremmo trovare identiche a nessuna delle nostre, guardandoci allo specchio. Almeno, non nelle apparenze.
 
Nella lunga lotta per conquistare Sinola, città immaginaria situata in un punto allettante per le prospettive che offre e le condizioni che mantiene, avanza il viaggio di due fratelli: Sid e Dan; sono proprio loro i personaggi principali del racconto, introdotti con una pacatezza che rende graduale un incontro che avviene prima sulla carta, e poi per l’incantesimo sottile dell’empatia: non vengono presentati come eroi, e dunque innalzati a un livello che difficilmente genererebbe comprensione; ma nemmeno come derelitti: sono delle persone comuni, con personalità distinte e un po’ sofferte, simili a noi, nonostante l’eccezione che rappresentano. Vivono ogni loro giorno sapendo di doversi rassegnare troppo presto, a rinunciare a ciò che hanno imparato ad amare, anche invischiati in ogni genere di difficoltà: la vita che hanno intorno e dentro, i volti e i luoghi familiari, la spinta al desiderio, che in uno assume forme prima carnali e poi di sentimento; e nell’altro si palesa con la spinta e la formula dell’amore inteso nel senso più ampio e totalizzante, da inseguire e rinnegare in alternanza. Il loro essere fatti di carne e di respiro, culminerà in un’esistenza radicalmente diversa, un giorno non molto lontano da un presente che mette sulle loro spalle pochi anni, a farli adulti nonostante le apparenze piccine, tipiche dei loro simili: sono tydusiani con un aspetto da adolescente e un vissuto che si discosta dalle turbolenze di quell’età, conservando stralci di una ingenuità e di un candore intatto. Sono uomini per il difetto delle definizioni e non tanto per l’esperienza, e sono anfibi per metà, in attesa inquieta, spaventata e nervosa, di diventarlo per intero. Si muoveranno prima sulla terra, camminando. Poi in una nuova dimora, tutta nuoto, abissi, modi mai sperimentati di cibarsi. Avranno un’ulteriore vita in assenza di respiro, avventura indesiderata che atterrisce, ma che lascia loro almeno un cenno di felicità, condensato nell’ipotesi di incontrare una madre persa ormai da troppo tempo, anche lei mutante, intenta a vagare in chissà quale liquido orizzonte.
Impareranno una missione presa in prestito dalle idee coraggiose di un padre rivelatosi tale al di là del vero, per via di un incontro casuale e tenuto caro dai due fratelli: partiranno per una spedizione che attraverserà luoghi aridi, desolati, con la sorpresa di compagni di viaggio conosciuti sul loro cammino: un uomo grande e grosso dal cuore tenero, una donna che imparerà insieme a Sid, la perfezione delle sintonie impensate, e il tormento per le cose che non trovano mai un giusto incastro, seppure le forme si sfiorino spesso, avendo un’impronta che combacia pure col vuoto circostante. E poi un essere minuscolo, tenero e saggio: la mascotte di quel gruppo un poco sgangherato, che siglerà la forza e il sacrificio, persino l’astuzia data dall’unione di pochi, ma attenti e di un’umanità viva e fremente che impareranno ad accogliere con la mira infallibile degli affetti più saldi. Obiettivo di tutti, sarà difendere la loro terra dal dominio di uno strapotere che toglierebbe senso a una libertà che a dispetto di tutto deve resistere e legare, trascinare se serve, fino a un’oasi di salvezza che è nella condivisione, e nella separazione che non ostacola il mescolarsi di visioni e usanze nate spontanee, come un frutto dal fiore che lo precede di un soffio: anzi lo incoraggia. Rinnega dunque la massa uniforme, quando contempla l’appiattirsi di ogni slancio, in favore di un controllo freddo, malato e tagliente, fatto di soli interessi e prevaricazione.
 
Paolo Ceccarini disegna con parole abili la sensibilità dei personaggi, attraverso una lucidità di analisi di quel mondo che non sempre si fa ospitale e di sane vedute, e un’emotività che non si traduce mai nei toni melensi di chi punta a ottenere facili consensi. Le sue, sono le parole di un equilibrista che cammina in punta di piedi sulla linea sottile dell’utopia, per dimostrare che si può arrivare sani e salvi a destinazione: sa che cadendo atterrerebbe sulla realtà, trovandola non molto diversa dai luoghi fantasiosi della sua immaginazione.



mercoledì 3 giugno 2020

Di Fiabe in Favolacce



Accadono cose che sono come un riflesso: una sorgente estranea produce un’ombra e un crepuscolo di piccole luci morenti a rimbalzare sui soffitti, sulla pelle ancora candida d’inverno. Chi le osserva sa già che quello non è la causa e l'oggetto ma una conseguenza, e subito corre con lo sguardo a cercarne le origini sapendo di dover contemplare il rischio che il vero abbia forme che non si adattano al fantastico, ma combaciano con una semplicità di intenti e di organizzazione. Reale è ciò che non necessariamente si tuffa nel fantastico e resta pratico, a volte inosservato: tra facce spente e corpi distratti, abbandonati, trascinati, accalcati con piglio disumano; carne da macello, con un guizzo negli occhi che di rado si traduce in una gustosa ribellione.

Chi visse felice e contento appartiene alla favole e non si incontra quasi mai, perché la folla degli insoddisfatti è rimpolpata bene. E allora bisogna esorcizzare l’infelicità che è un mostro con le fauci imbrattate di un nero pece, nero inchiostro; esorcizzare le paure, le solitudini e gli orrori celati negli angoli più bui e lontani della notte, che trovano riparo e costruzione nelle storie narrate da altri. Mi è successo con un film intitolato Favolacce di pensare con assurda tenacia a cosa ci sia di buono, brutto o cattivo (tanto per parafrasare un film proprio grande), in una pellicola che non infilerei tra i capolavori né tra le pieghe davvero spiacevoli ricamate nel tessuto del cinema italiano recentissimo. Ho amato Elio Germano altrove, più che qui. Ma nell’insieme c’è qualcosa che da giorni e a più riprese mi lascia appiccicata alle atmosfere torride e gelide al contempo di una storia che potrei accostare senza fatica alle Fiabe da Antonio Moresco (Società Editrice Milanese) letto qualche tempo fa.
 
«le fiabe sono estremiste
le fiabe sono elettive
le fiabe sono profetiche
le fiabe sono emblematiche
le fiabe sono sapienziali
le fiabe sono elementari
e violente».
 
Sarebbe l’esordio perfetto di una pellicola che narra con passo lento le vicende di chi si perde per le strade dell’esistere come tra un pulviscolo di macerie e una fitta boscaglia. Il centro della narrazione ricade in un gruppo di poche famiglie smembrate, che a vederle si sa bene ciò che resta di un tempo: briciole avvelenate dell’armonia che deve esserci quando viene l’amore da smezzare tra due, insieme alla fame da togliersi dalla bocca coi baci rubati al sonno, passati di labbra in mano, sorretti da voglie fiduciose e impavide. Succede che il passo veloce degli anni vissuti riservi a chi si ama una completezza sghemba data dai figli cresciuti in silenzio, sullo sfondo di una società che li vuole come puro riempimento, nei giorni e nei legami altrimenti viziati, vuoti. Figli che crescono i padri, incerti e doloranti; e crescono le madri che non sanno fare pace con la propria carne e i confini dimezzati di un essere che è stato doppio e ora è poco più che mezzo, inconcludente.
Ai bambini viene tolto il clamore gioioso dell’infanzia; lo recitano comunque in uno scarto dei giorni dati loro in pasto più che in dono; scimmiottano l’amore come una cosa che bisogna fare presto perché non c’è tempo né sostanza da azzardare. E ancora mi allaccio alle fiabe di Moresco, che si intrecciano a un sentore di kafkiana oscurità quando affermano: «Il tempo che ti è assegnato è così breve che, se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi».
Il tempo che perdi è di certo un mantra, una maledizione, un cupo contratto speso con forze che non si può definire una risorsa né una sconfitta, perché costringono a fermarsi, a pensare, a correre ai ripari, tra il dolce imbroglio delle illusioni e la lealtà dei limiti che impongono una nuova marcia. Il tempo che perdi è maestro e nega la stasi, anche quando imprigiona.
Quelle fiabe oscure, fiabe di pozzo e di ingegno, fiabe di catarsi, fiabe stonate e magnetiche, hanno le atmosfere corrotte, bruciate e a tratti disturbanti delle Favolacce di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Le illustrazioni di Nicola Samorì sono una mappa, un incanto in aggiunta; e rendono le storie narrate, un labirinto ancora più annodato da percorrere. Si resta al cospetto di un racconto dai mille volti che si sgretola e marcisce: ricomporre la morale è un’illusione non obbligatoria. Ognuno può sottrarsi al bene e al male, trovare una scorciatoia, un’alcova invitante in una voce che rompe le dighe, i silenzi e ogni indugio; e canta una nenia malinconica e cattiva, un ultimo saluto capace di riscrivere da capo e all’inverso una favola nera che via via sbiadisca, fino a lambire sogni d’ambra e speranze rinnovate.