sabato 27 giugno 2020
Il Regno degli Amici
Lasciare
il rumore al rumore e ad ogni rumore un suono: realtà due volte opposte e
complementari. Placare la forza che viene da fuori a distrarre e sapere le cose
che bisogna fare nell’immediato, spillate a una finta noncuranza e allungate
con mosse oziose come le file indiane dei bambini. E poi mani appiccicate alle
mani, nasi all’insù e occhi puntati lontano, a far sbiadire gli orizzonti.
Infilate nel nascondigli propri dell’oblio, le lunghe e disordinate liste di cose
da fare stilate controvoglia e scordate in un cassetto: le cose pratiche,
finite e solo utili, talvolta sono brutture proprio misere davanti al bello che
c'è. Solo i condizionali sono desiderabili. E le supposizioni. L’imperfetto è
per gli adulti, il futuro semplice è per gli anni che ancora restano protetti e
liberi sul serio. Il futuro anteriore pare uno sgambetto, una cosa acchiappata
tra i banchi di scuola solo perché serviva ripeterlo ad alta voce, borbottarlo,
appiattirlo in un suggerimento mimato al compagno di sventure con la bocca e
con le mani in un alfabeto muto e di soppiatto, per riuscire a saltare
l’ostacolo delle temute insufficienze e andare avanti. Si recitava ad alta voce
un verbo, una coniugazione italiana, latina, una lingua straniera: il piacere della
scoperta ha un sapore tutto nuovo nell’adolescenza che è un’età che appare fresca
d’infanzia e non più infantile.
giovedì 18 giugno 2020
Avenida Libertador
Non li
ha inghiottiti la terra. Era l’aria?
Come le arene del mare innumerevoli;
non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma
scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.
Noi
non li compiangiamo. Non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono
dovunque.
Senza
gli assenti, nulla ci sarebbe.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe
saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di
commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.
Gli
scomparsi sono giusti.
Cosí anche noi in un’eco.
Hans Magnus Enzensberger
Come le arene del mare innumerevoli; non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono dovunque.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.
Cosí anche noi in un’eco.
Leggere significa trovare
tra le parole un respiro nuovo in ogni istante. Scomparsi i loro nomi, i
cucchiai, le suole: resto imbrigliata in questa frase dalla musicalità
stanca, avvolgente per difetto, mai arresa; e ogni volta ha un’eco
diversa, un’ombra sottile lì dove prima era tutto forma e calore.
Si può disegnare
un’assenza con toni leggeri, appena percepibili; eppure quella è un male netto
e senza cura che dilaga, preme e non dà sollievo.
Assenti sono i desaparecidos
che racconta Cristina Amato in Avenida Libertador (Divergenze
edizioni): esistenze sbiadite loro malgrado, ma non nel ricordo di chi si
adatta ai giorni svuotati degli amori che sapeva e che sa ancora nel tempo
presente, pure col bene dell’appartenersi privato di ciò che è vero, tangibile.
Le parole usate per dare corpo a ciò che scolora sono tenaci, forti, restituiscono
una voce a chi ormai non ne ha e una giustizia almeno ideale, a dare un
conforto pallido e carezzevole a chi legge e immagina, e a chi ha vissuto una
tale e ingiusta privazione. A fine lettura resta l’immedesimazione e non la
certezza del sentimento; e non è poca cosa, se si pensa che i nomi sono
fittizi, e i personaggi rivelano il loro valore di persone pure restando
imbrigliati nei confini agrodolci dell’immaginario. Si ama Tamar: giovane donna
astuta, coraggiosa e volitiva, che non teme la forza del pensiero anzi lo
innalza, lo porta avanti e ben oltre lei stessa. Lo porge senza ritrosie a chi
teme la libertà di espressione, riflessione e scelta; perché insieme per
alcuni non è che un sinonimo di identico, comune, piatto e dunque facile all’esercizio
sterile del controllo da opporre a una spontaneità che invece culla Tamar, la
identifica.
L’identità converge anche
nel nome e nel cognome: quello di Lucas Tizak è molto caro a Tamar. I due
coltivano un amore che prende slancio dalla diversità di carattere: uno schivo,
l’altra esuberante. E imita i colori di Buenos Aires come in un fermo immagine:
è il 1978 e l’atmosfera è densa di contrasti; da un lato la forma squadrata e
gelida della dittatura militare e dall’altro la febbre sottile e vibrante dei gruppetti di
tifosi in attesa dei mondiali di calcio.
Lucas come tanti, viene
rapito. Occorre scoraggiare le iniziative ragionate, fiere: la ribellione è da
ostacolare col mutismo, e quello va indotto in ogni modo. Chi mostra di saper
scegliere ciò che è giusto per sé, si discosta da un insieme e va riportato nel
gregge.
Alla purezza di Lucas che
lotta contro sé stesso finché può, pur di tenere in salvo chi ama, va
contrapposta la micidiale freddezza di chi davanti ad azioni ignobili e
disumane non batte ciglio; di chi non sente il male addosso, neppure per
associazione: come accade a chi deve avere negata l’infanzia e qualcosa, una
sorta di meccanismo rotto, inceppato tra lo sterno e la forma dissolta dell’anima.
Tra le pagine si
delineano le figure di una madre-scoglio, madre fiume; della sorella di Lucas
che quasi sbiadisce insieme al fratello, pure essendo combattente e combattuta.
Il padre del ragazzo che si segue da vicino per l’intera vicenda, è una sola
briciola davanti a una montagna di dolore. È il bambino vero, e non importano
gli anni sulla schiena, la barba sul volto.
Si incontrano e non si
dimenticano lunghe lettere che trovano risposta solo in mondi paralleli; un
figlio veste i panni di colui che lo ha messo al mondo, una bimba con due nomi e una
sola identità, una donna col ventre dolorosamente vuoto, e un libro interrotto per
sempre a pagina dodici. Poi il cammino stanco ma felice di chi ritorna sapendo
che nulla apparirà come alle origini. E si sente nascere due volte, mentre porta
con sé il peso dei ricordi cari e voluti, e non rinnega gli episodi marci, poiché
spera di ricavare da quelli una memoria rafforzata e indelebile.
martedì 16 giugno 2020
Intervista ad Alessandro Bastasi
Maciniamo
passi e racconti, sotto i piedi e sotto pelle; siamo libri aperti e chiusi, la
nostra storia trapela dall’inchiostro indelebile del ricordo, della
testimonianza: siamo questo cielo blu che resiste alle offese dell’incuranza; gli
alberi alti e nodosi col tempo da contare sugli anelli e rilievi da percorrere
in punta di dita: rughe sulla corteccia come in un volto amato. L’arte ci fa
discutere e incantare, conserva le visioni anche emotive dell’evolversi. E vi
sono storie annidate dentro migliaia di altre storie, piene di tanta meraviglia
oppure sofferte, che a contarle verrebbero le vertigini e una strana
soggezione: certe volte si vorrebbe comprendere il mondo intero in un secondo,
senza essere capaci di ammettere e capire sé stessi, pure contando molti indizi.
Di
indizi e conoscenza, di storie interrotte e in perpetuo affanno si trova un
ampio e avvincente riscontro in La Scelta di Lazzaro di Alessandro
Bastasi, edito in formato eBook da Meme-Publishers e in versione cartacea da
Divergenze.
La
curiosità non ha risparmiato me e lui che ringrazio molto, per ogni domanda
venuta dalle sue abilità narrative, per gli argomenti trattati che ho divorato.
E per le risposte che ancora mi portano a quanto ho da scoprire e approfondire.
Hai una scrittura dinamica, quasi
fotografica. La tensione, il ricordo, la sorpresa, hanno pause differenti e
luci che piovono sulle parole con impeto o lenta agonia. Più volte fai
riferimento al cinema: dal Citizen Kane di Orson Welles a Giulio Bonsignore, un
personaggio del tuo libro che fin nei primi cenni indichi come
"l'inquilino del terzo piano", che tanto ricorda l'omonimo film di Roman Polański.
Potessi affidare La Scelta di Lazzaro a un famoso
regista, escludendo i già citati, quale sarebbe?
In effetti spesso
nei miei romanzi faccio riferimento al cinema, esplicitamente o meno. Ad
esempio il personaggio di Bonsignore, oltre a "L'inquilino del terzo
piano", ricorda il protagonista de "Le vite degli altri",
di Henckel von Donnersmarck. Ma più di tutti per questo romanzo sono
debitore a Liliana Cavani. Come ho scritto nelle note dell'autore in
postfazione, con "La scelta di Lazzaro" il mio obiettivo era di
proporre una riflessione sul periodo della lotta armata e soprattutto sul
“dopo”, visti dal punto di vista di un ex militante di allora e di personaggi
che con lui, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, avevano avuto
a che fare. Ma non riuscivo a definire il taglio più consono, finché non ebbi
l’occasione di rivedere “Portiere di notte”, un film del 1974 della Cavani,
appunto, che metteva in scena l'incontro, dopo tanti anni, di un ex ufficiale
nazista con una donna ebrea sopravvissuta al lager in cui era
internata. Fu una folgorazione: adesso sapevo come impostare la mia
storia, e soprattutto ne conoscevo il finale, l'unico in grado di liberare i
due protagonisti, Lazzaro e Barbara, dalle morse di un passato che apparteneva
soltanto a loro. Per questa ragione forse affiderei a lei,
nonostante i suoi 87 anni, "La scelta di Lazzaro"; oppure a Gianni
Amelio, che il tema della lotta armata, da un altro punto di vista, l'ha
trattato nel suo "Colpire al cuore" del 1983.
Il tuo romanzo è costellato di
episodi che danno un ritmo agile alla narrazione. E sono tutti mossi da
un'energia che non si dissolve e non cade mai nell'eccesso. Lazzaro e Franca
condividono un momento di lunga tensione: la forza rivoluzionaria che scelgono
e usano, non ha sesso. La donna si discosta dall'uomo per un soffio. E avanza
con gesti forti, esasperati e mascolini, col corpo nervoso e fiero; solo il
passato e la memoria di Lazzaro conservano i momenti passati insieme a lei che
pure sapeva riservagli premure vellutate, pacate.
Franca resta pensosa, decisa,
sottile; e la sua condotta prende le parti di un concetto espresso dall'ex
brigatista Adriana Faranda: "Camminare al margine di una società che
non amavo, sottrarmi alle sue norme e ai suoi luoghi per andare a cercare
un piccolo spazio tutto mio nel quale dividere con pochi altri i miei
ideali, mi sembrò ben presto una prospettiva perdente, misera ed
egoista".
Come con Franca e Lazzaro,
occorreva servirsi dell'azione, delle armi, e non più delle forme pacificate
del compromesso e della mediazione, per ottenere alternative valide ai mali
politici e sociali del Paese.
In che modo i tuoi personaggi
intendono la rivoluzione? E quest'ultima arriva mai a coincidere con la perdita
di dignità, quando subentra la paura?
La tua, di memoria, in che modo
rivive quegli anni?
“Cos’altro ha di
meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua
Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo
con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica
italiana.” Così ha scritto Erri De Luca. La rivoluzione per Franca e
Lazzaro è questo: scendere nell'Ade per liberare Euridice. Darsi una
missione e portarla fino in fondo. Erano i leoni, gli artefici della
potenza della Storia. La Storia li avrebbe giudicato, non la Morale. Erano gli
angeli che strappano i sigilli del Libro e scatenano l’apocalisse, erano i puri
di cuore, che avrebbero liberato il proletariato dai ceppi del capitale. E
certo, la paura esiste, è umana, ma si supera, senza perdere la dignità. Perché
in Franca e Lazzaro subentra la consapevolezza che stanno compiendo
un’operazione strategicamente necessaria, e questo, nella loro visione, è
l'apice della dignità. Il loro errore, e quello dei tanti che ci hanno
creduto, è stato di non tenere conto fino in fondo delle condizioni
strutturali in essere e di quelle che stavano maturando già in quegli anni: da
un lato l’affermarsi delle nuove tecnologie che in poco tempo avrebbero
scardinato i rapporti di produzione così come li avevamo conosciuti
fino ad allora; dall’altro lato l’errata convinzione che le condizioni
rivoluzionarie si sarebbero verificate radicalizzando fino alle estreme
conseguenze lo scontro. Non comprendendo invece che il terreno del conflitto
diventa fertile solo se nella presa di coscienza della natura classista
della società l'élite rivoluzionaria riesce a coinvolgere le moltitudini.
A questo aggiungiamo il velleitarismo contro un antagonista di classe
potente e ramificato, grazie anche all’alleanza con apparati dello
Stato e alle pressioni di paesi stranieri quali gli USA. Un antagonista che non
ha esitato a mettere in atto una strategia stragista (questa sì di stampo
“terrorista”) per combattere sul nascere i prodromi di una riscossa sociale
iniziata con l’autunno caldo del ’69.
Per ciò che mi
riguarda, ripenso spesso a quegli anni, con la consapevolezza di un'occasione
mancata per quella scalata al cielo che era nei sogni della generazione del
'68. Anni totalmente rimossi, una rimozione voluta e imposta dalla
politica, dai media, dai potentati economici, a destra ma soprattutto a
sinistra, finalizzata a derubricare a mero fenomeno criminale tutto ciò che
riguardava le vicende di quegli anni, come se fossero state un bubbone malato
su un corpo sano. Non si è mai voluto, per scelta, addentrarsi in un’analisi
puntuale e senza pregiudizi del contesto e delle ragioni politiche che hanno
determinato la nascita dei movimenti armati. E secondo me ne stiamo ancora
pagando le conseguenze.
Euridice dorme e farà di certo
sogni d'arsenico. Mi torna in mente una versione del mito che porta l'impronta
allucinata di Stefano Benni: «Io so che tu puoi guarirla, stregone. La mia
ragazza caduta dal cielo, polvere di cometa sul mio tetto, lei che muove
col pensiero le altalene dei giardini, lei che con uno sguardo dei grandi
occhi bistrati gela il ghigno degli spacciatori, lei odorosa di fiori e nitrato
di amile, Euridice, lei che ora è spenta, bianca, immobile nella nostra
casa, dove tremano di freddo anche i ragni. (...) Io so che puoi
guarirla stregone, anche se agli occhi del mondo lei è morta,
troppa chimica, troppi libri, troppe notti da sola, quando io ero lontano.
Così mi ha detto: si è sempre soli una notte di troppo».
Proprio questa frase: Si è
sempre soli una notte di troppo, mi conduce alle donne inquiete,
donne da amare confidate al tuo romanzo: sono forse loro la parte più energica
e viva? Somigliano a qualcuno che ami o hai amato? Chi come loro rincorre una
completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai
darsi amore?
Hai colto nel
segno, sono le donne la parte più viva ed energica del romanzo. Tutte e
quattro, ciascuna con le sue peculiarità, la propria storia. Di Franca abbiamo
già detto. Un amore tra studenti, all'inizio allegro e spensierato, poi
diventato un legame di sangue, del sangue versato e del sangue proprio, dove
non c'è spazio per l'amore a tutto tondo, la tensione è verso l'obiettivo,
tutto il resto passa in secondo piano. Poi c'è Samar, che potrebbe essere un
amore per Lazzaro se lei non conservasse dentro di sé la violenza di un passato
recente, il vento mortale della guerra civile che le ha rubato prima il padre e
poi la madre, se questo vissuto (anche lei, un vissuto di morte!) non la
facesse tremare al minimo accenno di un possibile ritorno a quel passato, e,
infine, se probabilmente lei non si fosse legata a Lazzaro per un riflesso
inconscio riguardante la figura della madre, Afrah, forse l'unica donna che
Lazzaro ha veramente amato. Ecco, Afrah. Personaggio minimo, dolente,
riservato, che però giganteggia nel cuore di Lazzaro, tanto da accompagnarlo
con la memoria nella sua lunga detenzione, durante la quale tutte le sere lui
le dedicava i versi del Cantico dei Cantici (altra esplicita citazione
cinematografica, da "C'era una volta in America" di Sergio Leone). E
poi c'è Barbara, la vera antieroina del libro, anche lei legata al protagonista
per fatti di sangue (sangue, ancora!), fragile e trasparente, determinata come
una roccia, esile e dura, destinata a instaurare con Lazzaro un
rapporto di odio che sfocia alla fine in una interdipendenza dei loro
destini. Quindi, venendo alla domanda "chi come loro rincorre una
completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai
darsi amore?" direi che la risposta in generale è no, fatte salve
situazioni eccezionali. Sicuramente non con un uomo come Lazzaro.
E sull'altra tua
domanda: no, nessuna di queste donne assomiglia a qualcuna che amo o che ho
amato. Ho invece realmente conosciuto una Samar (si chiamava proprio così)
durante una mia permanenza a Beirut nel 1994, ed è effettivamente stata la sua
storia personale e familiare - simile alla storia della Samar del libro,
purtroppo - a suggerirmi il personaggio che porta il suo nome.
In fondo non sono
che un ladro di storie.
Il viaggio è un punto
fondamentale ne La Scelta di Lazzaro: ogni personaggio si trova prima o poi a
ridefinire i confini interiori arricchendoli di visioni prese in prestito dalle
terre conosciute, amate e rimpiante.
I luoghi vissuti e non soltanto
visitati, hanno un'anima. E l'anima dei luoghi dà senso alla persona e al suo
più intimo sentire.
Qual è per te il senso del
viaggio, fuori e dentro il tuo romanzo?
I luoghi hanno
un'anima, questo per me è fuori dubbio. E in generale il senso del viaggio è
esattamente questo: cercare di scoprirla e farsene tesoro, arricchendo se
stessi e il proprio vissuto delle sensazioni, delle emozioni, delle
suggestioni, dell'aura che emana da quell'anima. Ho viaggiato in molti paesi
del mondo, dalle Americhe all'Asia, dall'Europa all'Africa, e ogni volta
riflettevo su quanto sia inconcepibile il razzismo nel momento in cui vieni a
contatto con genti altre da te, purché tu sia in grado di assaporare il
profondo della Storia che le avvolge e non le veda con l'occhio del
turista affamato di esotismo. C'è una bellissima frase in "Il tè nel
deserto" che ricordo spesso: "Noi non siamo turisti, siamo
viaggiatori. Oh! Che differenza c'è? Il turista è uno che appena
arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare
affatto".
Poi, a una certa
età (la mia), subentra l'esigenza di un altro viaggio, quello interiore. Che
consiste nel tentare di conoscerti per quella che è la tua essenza, in virtù di
tutto quello che hai fatto, che hai vissuto, di quello che hai visto, dei
luoghi dove ti sei fermato, delle persone che hai conosciuto. In fondo è quello
che inconsciamente succede a Lazzaro, attraverso il rapporto con i personaggi
che lo circondano, da Pietro Micca a Samar e soprattutto Barbara: acquisire
quella coscienza di sé e del proprio destino che gli consentirà alla fine di
fare la scelta giusta.
Quando si parla di viaggio,
difficilmente non penso a Bruce Chatwin. Credo vi sia una filosofia del
viaggiatore e una del luogo viaggiato, che richiamano arte e sentimento,
letteratura, spirito di immersione e di sensazione. Per placare la voglia di
sapere e di sapersi in ogni luogo, serve anche coraggio?
Lo saprà di certo il micio
filosofo de La Scelta di Lazzaro: "il gatto è il più
grande dei filosofi viventi", scrivi.
Tra le persone che Chatwin
incontra nei suoi itinerari, tra le pagine di In Patagonia vi
è un uomo di mare coi suoi diari pieni di scritte, di elenchi: «il carbone
bagnato, le cimici nei letti delle locande, e i marinai che arrivavano a bordo
ubriachi. (...) C'erano le facili ragazze della California; la sbrigativa
giustizia dei tribunali; la banda di Beale Street che scolava barili di vino di
Spagna in una barca, mentre Charley mangiava un tortino di zucca con la guardia
notturna sul molo. (...) Ricordava Ah-Sing, il lavandaio cinese che spruzzava
l'amido con la bocca; e i marinai cinesi col vestito della festa di splendide
sete, che bruciavano bastoncini profumati al loro idolo, inchinandosi al sole
mentre i paranchi passavano sibilando sulle loro teste».
La filosofia del viaggio, con e senza gatto, quale posto occupa nel tuo romanzo? I personaggi si muovono per fuggire o per scoprire? E soprattutto: il gatto di Lazzaro ha un approccio stoico o epicureo?
Il gatto è la
filosofia. Nell'ultima pagina del romanzo Lazzaro apre la porta
dell'appartamento per permettere al gatto di uscire: "L'accosto appena,
quanto basta perché la filosofia possa salvarsi, correre libera anche dai
vincoli dell'affetto". Se il gatto è la filosofia, è sia epicureo che
stoico, in una sintesi cui solo lui può arrivare. Il gatto è atarassia, assenza
di turbamento, ma è anche apatia, distacco dalle emozioni. Il suo fine, in
quanto filosofo, è raggiungere la libertà, che per il gatto coincide con quella
del mondo, a un livello quindi superiore rispetto a quella del singolo essere
esistente. Il gatto è l'etica, l'essere nel quale Lazzaro rispecchia i propri
convincimenti, i propri obiettivi, i propri comportamenti. Il gatto è il
viaggio interiore, mentre per il Lazzaro della lotta armata, per Franca, Samar
e Pietro Micca il viaggio è una fuga che per alcuni si risolve nella scoperta.
Lazzaro fugge, braccato dalle Istituzioni, prima sui Pirenei, poi in Libano. Ma
una volta a Beirut scopre un mondo, incarnato in Afrah, e scopre se stesso e la
missione che si vorrà dare, quindi la propria libertà e quella del
mondo, a partire dagli eventi di Sabra e Chatila. Ma anche Franca è
una fuggitiva, anima tormentata, secca, bruciata. E Samar, che arriva in Italia
per sfuggire alla morte, e Pietro, che vola in Brasile dove scopre chi è
veramente, un mercenario che ha abbracciato la lotta armata per spirito di
avventura, pronto a vendere se stesso e gli altri a chi gli propone l'ennesima
scarica di adrenalina. L'unico personaggio per il quale il viaggio è un eterno
ritorno, una drammatica coazione a ripetere, è Barbara: la sua intera esistenza
è un loop che ritorna sempre al punto iniziale, per ripartire più intensamente
di prima, per ritornare più rabbiosamente di prima.
Barbara mangia e vomita, e poi
ripete ancora tentando di placare un vuoto senza requie: pare uno spirito
vestito a festa, un mucchietto d'ossa che vuole ogni cosa invano, senza sosta;
donna dagli occhi taglienti come vetri rotti, in bilico sul ciglio di un'esistenza
spenta da troppo tempo.
Lazzaro ravviva intrecci e
vitalità passate solo quando abbraccia una scelta che fa capolino fin dal
titolo: sappiamo che avverrà qualcosa, e abbiamo dunque il sentore e non la
certezza della strada intrapresa.
I vivi sono in fuga da qualcosa o
da sé stessi, sono vigili, inquieti. I morti si lasciano ricordare, non
sbiadiscono mai davvero nel tessuto del racconto.
L'amaro e giusto fine è forse il
coraggio di chi intravede i propri mali tramutati in vizi, in sottili e invisibili
catene, e non abbassa mai lo sguardo? E il lieto fine quando non c'è, in cosa
si tramuta?
Il finale è dato
dal coraggio di accettare di non esserci. Lazzaro e Barbara sono l’uno lo
specchio dell’altra, hanno vissuto l’epoca del mito, lui quale artefice, lei
quale vittima sacrificale. Nel momento in cui i ruoli si invertono,
nell’istante in cui Lazzaro capisce che adesso è Barbara l’artefice del loro
destino, lui l’accetta, il cerchio si chiude e così facendo decreta la fine
dell’epoca del mito. Devono scomparire, non uscire più dal sepolcro, rimanere
in eterno legati alle proprie icone, mentre là fuori il mondo procede a scatti,
disordinato, irriconoscibile, un universo nel quale non c’è posto per i due.
Un’altra epoca ha inizio. Potrebbe essere un lieto fine, che supera i destini
di Lazzaro e Barbara. Ma non è. È l’alto medioevo, preda di barbarie vecchie e
nuove, che deve ancora trovare la sua strada.
sabato 13 giugno 2020
Zelda
Zelda
col mento poggiato sulle nocche di mani per nulla curate.
Zelda
coi capelli d’argento.
Zelda
che quando piove sorride agli sconosciuti.
Zelda
che fa il verso ai gatti.
Era
un elenco senza fine, quello lì. Una cosa che non sapeva dire quando fosse
cominciata. Nei cassetti della memoria spiava e tastava un vuoto lungo e
limaccioso, perché lui toccava tutto con le mani sporche d’acqua e alghe; mani
con un reticolo di scie umide lasciate dai pesci che catturava solo per una
carezza, per tenere con loro un discorso a senso unico; quelli boccheggiavano
un istante e poi sgusciavano dalle mani già protese verso l’acqua, via da una
stretta lieve che mai opponeva resistenza. Prima di liberarli seguiva con occhi
affamati il dorso, le pinne e tutti i loro guizzi; le branchie erano una cosa
da meravigliarsi per sempre. Sperava gli insegnassero per contatto come fare a
nuotare: lui non l’aveva mai saputo. Quei pesci dalla pelle di fiume, pelle
algida, liscia, pesci come piccole lune d’argento, sembrava sapessero meglio di
lui pure certi discorsi amorosi. Zelda restava a rimirarli con aria invaghita,
languida, e non parlava mai per il timore di inquietarli quando lui la invitava
su una barchetta sgangherata che sembrava disegnata dalle mani tempestose di un
bimbo. E dentro quei silenzi rinfoltiva il suo elenco prendendo appunti di
nascosto mentre lei dormiva accovacciata in un angolo umido; e le assi di legno
della barca abbracciavano il suo corpo: quale invidia sempre taciuta, invidia
poderosa.
Zelda
che segue itinerari vivaci, dietro le palpebre chiuse.
Zelda
con le labbra rosse.
Zelda
oggi non ha mangiato proprio niente.
Lui
non lo poteva sapere, ma Zelda sentiva il grattare insistente della penna su un
foglio troppo sottile poggiato solo sulle mani, sulle gambe, con l’oscillare su acque di lago a ostacolare i discorsi; sapeva la scrittura a zigzag, a onde, curve e
spirali: aveva udito di nascosto l’uomo dei pesci imprecare contro la sua sorte e tutte le
virgole del creato. Voleva scrivere in apnea come gli animaletti acquatici che
tanto amava, ma non riusciva a farlo.
Da
quanto tempo non toccava cibo, Zelda. Sentiva la vita assottigliarsi e non
soltanto nella carne: sentiva proprio i giorni allentare la presa su di lei, i
respiri farsi flebili nelle notti cupe e avverse. Sognava manicaretti sontuosi e li divorava solo nei mondi curati da Morfeo con voracità sensuale e grata:
leccava le dita, le labbra, contava le briciole rimaste sul piatto affinché
nemmeno una le sfuggisse. Poi le posava nell’incavo del collo, sulla punta del
naso, sui polsi, e invitava l’uomo pesce, gli offriva la soluzione al dilemma
che era quel loro esistere di traverso.
Zelda
camminava da tanto, ed era così stanca. Contava i battiti del cuore: erano tre
al minuto. Il giorno prima era uno solo e un pezzetto. La settimana precedente
la lasciava addirittura in debito: sotto zero, con ghiaccio. Perciò aveva
trasferito in un bicchiere alcuni cubetti di quel gelo imperante, seduta al
tavolino di un bistrot. Vi era un forte odore di cibo nell’aria, quasi riusciva
a vederne le singole sorgenti: quei profumi li pensava come fossero fiori,
sassi, terra, in base alle sensazioni che le suscitavano le pietanze, gli
oggetti, le reazioni altrui alla vista del piatto colmo di ogni delizia. Lei negava
il bisogno, negava la fame, pronunciava un no
ostinato a bassa voce, di continuo. Le negazioni erano una litania che
prendevano uno spazio troppo largo nella sua mente. Le offrivano di tutto e lei
diceva no, soltanto no, non voglio.
Ma l’uomo
pesce la conosceva bene, perciò l’aveva invitata in quel posto. Un bel giorno
le aveva detto che poteva scegliere pure poco o niente, bastava restarsi accanto. Niente
più niente, farà pure qualcosa, sospirava; e subito dopo canzonava sé stesso, i
suoi passi storti, i capelli appiccicati alla fronte. Lei lo ascoltava e
intanto pensava: se mi spuntassero le branchie lo ameremmo entrambi, questo
corpo.
Ora
lo aspettava, seduta a un tavolino con sopra un vasetto coi fiori finti, e una
tovaglia con delle toppe a forma di ciliegia, fragola, mela rossa. Dunque è
così che si fa, pensava: si copre il difetto che c’è con l’armonia che si può.
Le
specialità del giorno erano tutte contenute in un Menù No pensato apposta per lei e trasferito in un cartoncino
sottile con un disegno di alghe, bolle e pesciolini. All’interno, non una sola
voce: la scelta era da fare tra tutto quel niente e qualsiasi richiesta le
fosse venuta in mente.
Fissò
il vuoto con aria sollevata, rovistò in borsa, afferrò una penna e quasi
distante da sé, fuori da sé, scorse le prime macchie d’inchiostro sul menù. Era
proprio la sua mano a scrivere le voglie, i languori, in attesa che lui
entrasse e sedesse con lei per raccontarle ancora di quella volta al lago.
- Foto di Matteo Pioltelli - |
mercoledì 10 giugno 2020
Se una notte d'inverno, i Pogues
Sono
giorni di pioggia, questi. Giorni e notti d’aria fresca a pungere la nuca, a
pettinare le ciglia appese alle palpebre intente a imitare il sonno, solo per
fare più intimo il pensiero e l’immagine che rievoca serate invernali: sere
brillanti odorose di legna, di fuoco e dimenticanza; ed è lì che viene facile cercare
gli opposti per il modo in cui riescono ad attrarsi, certe volte, in un viluppo
stretto e saldo che viene da lontano, prende due parti e le vede coesistere
sotto lo stesso cielo, la stessa terra calpestata coi piedi stanchi e
coraggiosi.
Vi sono giorni in cui mancano le storie: quelle narrate in un tempo di gufi e saette, di luoghi lontani dalla calca, dalla gente che conta, con le confidenze lasciate gocciolare via da un bicchiere rotto, dagli occhi lucidi e le guance imporporate: luoghi lontani e suoni che evocano una geografia esatta, anche quando non proviene da un’esperienza diretta, ma da un disperato volere ogni cosa, all’infinito. Giorni venuti col desiderio di viaggiare, per le linee di un solo sentiero intravisto, lungo le curve e le salite ripide. Viaggiare per istinto, per sapere la meta successiva, per stancare le gambe appesantite da una ripetuta immobilità, e sgranchire l’animo che non sa più lasciarsi andare; scioglierlo in un ballo disinvolto in una notte tutta luna, che se si ascoltano i Pogues è proprio facile che conduca almeno nella fantasia, nelle terre d’Irlanda. I Pogues che in origine avevano scelto il nome di Pogue Mahone (in gaelico: Baciami il culo), per siglare la loro unione e farsi riconoscere. Proprio loro: coi suoni di violini e fisarmoniche, spesso dirompenti e a volte grezzi, che serve amarli oppure odiarli, senza mezze misure. Ascoltandoli, viene un pensiero che somiglia a certe foto: di quelle che un tempo bisognava saperle fare, e adesso sono solo gesti meccanici, stupidi tributi a una tecnologia che invade e non completa; che proietta il soggetto in uno scatto, lo fa presente per riflesso; e quello intanto scorda di essere già lì, in favore di una testimonianza da portare ad altri per vanto. Si finisce non di rado a vivere per sentito dire, avendo nelle orecchie il richiamo di altre tentazioni, come Ulisse con le sirene: succede di scoprire che ciò che viene dato per necessario, è soltanto un inganno. Che è fondamentale solo sapere i propri spazi, anche e soprattutto interiori; e imparare ad amarli.
Lo cerco ma non lo so ancora usare, questo balsamo. La ragione è sicurezza ed è follia al contempo: l’immaginazione solleva da ogni ingombro, quando ci si addentra in riflessioni tortuose. Ed è allora che si approda dritti nelle note di Sit Down By The Fire, che è una vecchia polaroid, polvere e ritmo. Capelli sciolti e mani sui fianchi, la compagnia di molti e gli occhi per uno soltanto. La voce di Shane MacGowan corre e pizzica, ha una velocità che è respiro ben dosato; è racconto già appreso e offerto, col trasporto che si deve agli impulsi, alle buone alleanze: quelle che bisogna allacciare con una voce amica, con un tepore insperato, tra le braccia della notte o di qualcuno che sappia alleviare la paura di un buio che striscia, sibila, danza con l’inquietudine che sbuffa e scalcia in compagnia della Signora Suggestione. E allora bisogna strizzare forte gli occhi, fare finta di non sentirle neppure, quelle odiose presenze: non-esseri venuti da chissà dove, a un passo dal letto, fin dentro i sogni più scuri e senza fondo.
If I Should Fall From Grace With God è un album del 1988 che reca in molti punti un’atmosfera vivace-e-veloce, nonostante i temi trattati e proprio per quelli. Rallenta un po’, certe volte. Plana su Lullaby of London con la dolcezza che può, con dei residui di malinconia nella voce. La tenerezza è una cura buona per pochi, una premura da destinare agli amori scelti: la migliore difesa contro chi vorrebbe una massa senza slanci, disumana. Siamo capaci di proteggere dalla realtà e dagli incubi, coi mezzi limitati di cui disponiamo, col corpo-guscio e l’animo in tempesta. E se si può fallire lo si fa, custodendo ancora e fino all’ultimo i buoni intenti. Streets of Sorrow si lega stretta a Birmingham Six. Una ha il sapore amaro del rimpianto, delle strade conosciute, amate, e di una separazione forzata: narra le volte in cui lasciare un luogo è una sconfitta, un prezzo da pagare per gli orrori vissuti, per le vite offese e smesse, e non per scelta ma per il torto di una mano nemica. Birmingham Six ha la grinta di una denuncia osata con voce ruvida e battente:
«You'll
be counting years
First five, then ten
Growing old in a lonely hell
Round the yard and the stinking cell
From wall to wall, and back again».
Il
testo racconta la vita di Hugh Callaghan, Patrick Hill, Gerard Hunter, Richard
McIlkenny, William Power e John Walker, i “Sei di Birmingham” ingiustamente
torturati e incarcerati per la morte di 21 persone, avvenuta in seguito
all’esplosione di una bomba che si presumeva avessero piazzato proprio loro, in
due diversi locali inglesi in città, nel periodo dei conflitti tra il governo
inglese e l’IRA: l’esercito di liberazione clandestino dell’Irlanda del Nord.
Stessa sorte toccò ai Guilford For,
citati anche loro nel pezzo: Paul Hill, Gerry Conlon, Patrick (Paddy) Armstrong
e Carole Richardson, accusati ingiustamente nella morte di innocenti, in
seguito a una carica esplosiva piazzata in un pub di Guilford. Anche loro
furono costretti a firmare delle dichiarazioni di colpevolezza in stato di
semi-incoscienza.
È con Fiesta che si torna ai ritmi spediti e allegri di un gruppo serio ma non troppo, e scalmanato quanto basta: è una canzone che ammicca, che diverte; comincia piano, per sorprendere. Poi è una folle corsa per le strade della Spagna: lo spagnolo si insinua tra le righe, e rende l’insieme anche più caotico e incalzante. Non mancano i riferimenti a Coleridge, come a un chochona che parrebbe non avere un significato preciso, messo lì solo per il suono e con intento goliardico, malizioso e dirty, come direbbero gli inglesi. Non mancano neppure i riferimenti a Costello “el rey de America” e alla bassista del gruppo Cait O’Riordan: i due se la intendevano non poco, al punto che si sposarono a dispetto di un contrariato MacGowan, memore di un amore nutrito e poi dissolto tra un canto rabbioso e una potente bevuta.
Il brano che presta il titolo all’intero album, If I Should Fall From Grace With God, è una dichiarazione d’amore per la propria terra, per la libertà di vivere e viversi come possibile, anche sull’orlo del fallimento, anche da emarginati: con gli occhi puntati a una realtà che non si cerca di abbellire ad ogni costo, che va presa per quello che è, con la dignità che spetta a ognuno: nella vita e nella morte. Così Shane canta:
«Bury
me at sea
Where no murdered ghost can haunt me
If I rock upon the waves
Then no corpse can lie upon me».