martedì 16 giugno 2020

Intervista ad Alessandro Bastasi




Maciniamo passi e racconti, sotto i piedi e sotto pelle; siamo libri aperti e chiusi, la nostra storia trapela dall’inchiostro indelebile del ricordo, della testimonianza: siamo questo cielo blu che resiste alle offese dell’incuranza; gli alberi alti e nodosi col tempo da contare sugli anelli e rilievi da percorrere in punta di dita: rughe sulla corteccia come in un volto amato. L’arte ci fa discutere e incantare, conserva le visioni anche emotive dell’evolversi. E vi sono storie annidate dentro migliaia di altre storie, piene di tanta meraviglia oppure sofferte, che a contarle verrebbero le vertigini e una strana soggezione: certe volte si vorrebbe comprendere il mondo intero in un secondo, senza essere capaci di ammettere e capire sé stessi, pure contando molti indizi.
Di indizi e conoscenza, di storie interrotte e in perpetuo affanno si trova un ampio e avvincente riscontro in La Scelta di Lazzaro di Alessandro Bastasi, edito in formato eBook da Meme-Publishers e in versione cartacea da Divergenze.
La curiosità non ha risparmiato me e lui che ringrazio molto, per ogni domanda venuta dalle sue abilità narrative, per gli argomenti trattati che ho divorato. E per le risposte che ancora mi portano a quanto ho da scoprire e approfondire.
 
Hai una scrittura dinamica, quasi fotografica. La tensione, il ricordo, la sorpresa, hanno pause differenti e luci che piovono sulle parole con impeto o lenta agonia. Più volte fai riferimento al cinema: dal Citizen Kane di Orson Welles a Giulio Bonsignore, un personaggio del tuo libro che fin nei primi cenni indichi come "l'inquilino del terzo piano", che tanto ricorda l'omonimo film di Roman Polański.
Potessi affidare La Scelta di Lazzaro a un famoso regista, escludendo i già citati, quale sarebbe?
 
In effetti spesso nei miei romanzi faccio riferimento al cinema, esplicitamente o meno. Ad esempio il personaggio di Bonsignore, oltre a "L'inquilino del terzo piano", ricorda il protagonista de "Le vite degli altri", di Henckel von Donnersmarck. Ma più di tutti per questo romanzo sono debitore a Liliana Cavani. Come ho scritto nelle note dell'autore in postfazione, con "La scelta di Lazzaro" il mio obiettivo era di proporre una riflessione sul periodo della lotta armata e soprattutto sul “dopo”, visti dal punto di vista di un ex militante di allora e di personaggi che con lui, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, avevano avuto a che fare. Ma non riuscivo a definire il taglio più consono, finché non ebbi l’occasione di rivedere “Portiere di notte”, un film del 1974 della Cavani, appunto, che metteva in scena l'incontro, dopo tanti anni, di un ex ufficiale nazista con una donna ebrea sopravvissuta al lager in cui era internata. Fu una folgorazione: adesso sapevo come impostare la mia storia, e soprattutto ne conoscevo il finale, l'unico in grado di liberare i due protagonisti, Lazzaro e Barbara, dalle morse di un passato che apparteneva soltanto a loro.  Per questa ragione forse affiderei a lei, nonostante i suoi 87 anni, "La scelta di Lazzaro"; oppure a Gianni Amelio, che il tema della lotta armata, da un altro punto di vista, l'ha trattato nel suo "Colpire al cuore" del 1983.
 
Il tuo romanzo è costellato di episodi che danno un ritmo agile alla narrazione. E sono tutti mossi da un'energia che non si dissolve e non cade mai nell'eccesso. Lazzaro e Franca condividono un momento di lunga tensione: la forza rivoluzionaria che scelgono e usano, non ha sesso. La donna si discosta dall'uomo per un soffio. E avanza con gesti forti, esasperati e mascolini, col corpo nervoso e fiero; solo il passato e la memoria di Lazzaro conservano i momenti passati insieme a lei che pure sapeva riservagli premure vellutate, pacate.
Franca resta pensosa, decisa, sottile; e la sua condotta prende le parti di un concetto espresso dall'ex brigatista Adriana Faranda: "Camminare al margine di una società che non amavo, sottrarmi alle sue norme e ai suoi luoghi per andare a cercare un piccolo spazio tutto mio nel quale dividere con pochi altri i miei ideali, mi sembrò ben presto una prospettiva perdente, misera ed egoista".
Come con Franca e Lazzaro, occorreva servirsi dell'azione, delle armi, e non più delle forme pacificate del compromesso e della mediazione, per ottenere alternative valide ai mali politici e sociali del Paese.
In che modo i tuoi personaggi intendono la rivoluzione? E quest'ultima arriva mai a coincidere con la perdita di dignità, quando subentra la paura? 
La tua, di memoria, in che modo rivive quegli anni?
 
“Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana.”  Così ha scritto Erri De Luca. La rivoluzione per Franca e Lazzaro è questo: scendere nell'Ade per liberare Euridice. Darsi una missione e portarla fino in fondo.  Erano i leoni, gli artefici della potenza della Storia. La Storia li avrebbe giudicato, non la Morale. Erano gli angeli che strappano i sigilli del Libro e scatenano l’apocalisse, erano i puri di cuore, che avrebbero liberato il proletariato dai ceppi del capitale. E certo, la paura esiste, è umana, ma si supera, senza perdere la dignità. Perché in Franca e Lazzaro subentra la consapevolezza che stanno compiendo un’operazione strategicamente necessaria, e questo, nella loro visione, è l'apice della dignità. Il loro errore, e quello dei tanti che ci hanno creduto, è stato di non tenere conto fino in fondo delle condizioni strutturali in essere e di quelle che stavano maturando già in quegli anni: da un lato l’affermarsi delle nuove tecnologie che in poco tempo avrebbero scardinato i rapporti di produzione così come li avevamo conosciuti fino ad allora; dall’altro lato l’errata convinzione che le condizioni rivoluzionarie si sarebbero verificate radicalizzando fino alle estreme conseguenze lo scontro. Non comprendendo invece che il terreno del conflitto diventa fertile solo se nella presa di coscienza della natura classista della società l'élite rivoluzionaria riesce a coinvolgere le moltitudini. A questo aggiungiamo il velleitarismo contro un antagonista di classe potente e ramificato, grazie anche all’alleanza con apparati dello Stato e alle pressioni di paesi stranieri quali gli USA. Un antagonista che non ha esitato a mettere in atto una strategia stragista (questa sì di stampo “terrorista”) per combattere sul nascere i prodromi di una riscossa sociale iniziata con l’autunno caldo del ’69. 
Per ciò che mi riguarda, ripenso spesso a quegli anni, con la consapevolezza di un'occasione mancata per quella scalata al cielo che era nei sogni della generazione del '68. Anni totalmente rimossi, una rimozione voluta e imposta dalla politica, dai media, dai potentati economici, a destra ma soprattutto a sinistra, finalizzata a derubricare a mero fenomeno criminale tutto ciò che riguardava le vicende di quegli anni, come se fossero state un bubbone malato su un corpo sano. Non si è mai voluto, per scelta, addentrarsi in un’analisi puntuale e senza pregiudizi del contesto e delle ragioni politiche che hanno determinato la nascita dei movimenti armati. E secondo me ne stiamo ancora pagando le conseguenze.
 
Euridice dorme e farà di certo sogni d'arsenico. Mi torna in mente una versione del mito che porta l'impronta allucinata di Stefano Benni: «Io so che tu puoi guarirla, stregone. La mia ragazza caduta dal cielo, polvere di cometa sul mio tetto, lei che muove col pensiero le altalene dei giardini, lei che con uno sguardo dei grandi occhi bistrati gela il ghigno degli spacciatori, lei odorosa di fiori e nitrato di amile, Euridice, lei che ora è spenta, bianca, immobile nella nostra casa, dove tremano di freddo anche i ragni. (...) Io so che puoi guarirla stregone, anche se agli occhi del mondo lei è morta, troppa chimica, troppi libri, troppe notti da sola, quando io ero lontano. Così mi ha detto: si è sempre soli una notte di troppo».
 
Proprio questa frase: Si è sempre soli una notte di troppo, mi conduce alle donne inquiete, donne da amare confidate al tuo romanzo: sono forse loro la parte più energica e viva? Somigliano a qualcuno che ami o hai amato? Chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?
 
Hai colto nel segno, sono le donne la parte più viva ed energica del romanzo. Tutte e quattro, ciascuna con le sue peculiarità, la propria storia. Di Franca abbiamo già detto. Un amore tra studenti, all'inizio allegro e spensierato, poi diventato un legame di sangue, del sangue versato e del sangue proprio, dove non c'è spazio per l'amore a tutto tondo, la tensione è verso l'obiettivo, tutto il resto passa in secondo piano. Poi c'è Samar, che potrebbe essere un amore per Lazzaro se lei non conservasse dentro di sé la violenza di un passato recente, il vento mortale della guerra civile che le ha rubato prima il padre e poi la madre, se questo vissuto (anche lei, un vissuto di morte!) non la facesse tremare al minimo accenno di un possibile ritorno a quel passato, e, infine, se probabilmente lei non si fosse legata a Lazzaro per un riflesso inconscio riguardante la figura della madre, Afrah, forse l'unica donna che Lazzaro ha veramente amato. Ecco, Afrah. Personaggio minimo, dolente, riservato, che però giganteggia nel cuore di Lazzaro, tanto da accompagnarlo con la memoria nella sua lunga detenzione, durante la quale tutte le sere lui le dedicava i versi del Cantico dei Cantici (altra esplicita citazione cinematografica, da "C'era una volta in America" di Sergio Leone). E poi c'è Barbara, la vera antieroina del libro, anche lei legata al protagonista per fatti di sangue (sangue, ancora!), fragile e trasparente, determinata come una roccia, esile e dura, destinata a instaurare con Lazzaro un rapporto di odio che sfocia alla fine in una interdipendenza dei loro destini. Quindi, venendo alla domanda "chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?" direi che la risposta in generale è no, fatte salve situazioni eccezionali. Sicuramente non con un uomo come Lazzaro. 
E sull'altra tua domanda: no, nessuna di queste donne assomiglia a qualcuna che amo o che ho amato. Ho invece realmente conosciuto una Samar (si chiamava proprio così) durante una mia permanenza a Beirut nel 1994, ed è effettivamente stata la sua storia personale e familiare - simile alla storia della Samar del libro, purtroppo - a suggerirmi il personaggio che porta il suo nome. 
In fondo non sono che un ladro di storie.
 
Il viaggio è un punto fondamentale ne La Scelta di Lazzaro: ogni personaggio si trova prima o poi a ridefinire i confini interiori arricchendoli di visioni prese in prestito dalle terre conosciute, amate e rimpiante. 
I luoghi vissuti e non soltanto visitati, hanno un'anima. E l'anima dei luoghi dà senso alla persona e al suo più intimo sentire.
Qual è per te il senso del viaggio, fuori e dentro il tuo romanzo?
 
I luoghi hanno un'anima, questo per me è fuori dubbio. E in generale il senso del viaggio è esattamente questo: cercare di scoprirla e farsene tesoro, arricchendo se stessi e il proprio vissuto delle sensazioni, delle emozioni, delle suggestioni, dell'aura che emana da quell'anima. Ho viaggiato in molti paesi del mondo, dalle Americhe all'Asia, dall'Europa all'Africa, e ogni volta riflettevo su quanto sia inconcepibile il razzismo nel momento in cui vieni a contatto con genti altre da te, purché tu sia in grado di assaporare il profondo della Storia che le avvolge e non le veda con l'occhio del turista affamato di esotismo. C'è una bellissima frase in "Il tè nel deserto" che ricordo spesso: "Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori. Oh! Che differenza c'è? Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare affatto".  
Poi, a una certa età (la mia), subentra l'esigenza di un altro viaggio, quello interiore. Che consiste nel tentare di conoscerti per quella che è la tua essenza, in virtù di tutto quello che hai fatto, che hai vissuto, di quello che hai visto, dei luoghi dove ti sei fermato, delle persone che hai conosciuto. In fondo è quello che inconsciamente succede a Lazzaro, attraverso il rapporto con i personaggi che lo circondano, da Pietro Micca a Samar e soprattutto Barbara: acquisire quella coscienza di sé e del proprio destino che gli consentirà alla fine di fare la scelta giusta.
 
Quando si parla di viaggio, difficilmente non penso a Bruce Chatwin. Credo vi sia una filosofia del viaggiatore e una del luogo viaggiato, che richiamano arte e sentimento, letteratura, spirito di immersione e di sensazione. Per placare la voglia di sapere e di sapersi in ogni luogo, serve anche coraggio?
Lo saprà di certo il micio filosofo de La Scelta di Lazzaro: "il gatto è il più grande dei filosofi viventi", scrivi.
Tra le persone che Chatwin incontra nei suoi itinerari, tra le pagine di In Patagonia vi è un uomo di mare coi suoi diari pieni di scritte, di elenchi: «il carbone bagnato, le cimici nei letti delle locande, e i marinai che arrivavano a bordo ubriachi. (...) C'erano le facili ragazze della California; la sbrigativa giustizia dei tribunali; la banda di Beale Street che scolava barili di vino di Spagna in una barca, mentre Charley mangiava un tortino di zucca con la guardia notturna sul molo. (...) Ricordava Ah-Sing, il lavandaio cinese che spruzzava l'amido con la bocca; e i marinai cinesi col vestito della festa di splendide sete, che bruciavano bastoncini profumati al loro idolo, inchinandosi al sole mentre i paranchi passavano sibilando sulle loro teste».



La filosofia del viaggio, con e senza gatto, quale posto occupa nel tuo romanzo? I personaggi si muovono per fuggire o per scoprire? E soprattutto: il gatto di Lazzaro ha un approccio stoico o epicureo?


Il gatto è la filosofia. Nell'ultima pagina del romanzo Lazzaro apre la porta dell'appartamento per permettere al gatto di uscire: "L'accosto appena, quanto basta perché la filosofia possa salvarsi, correre libera anche dai vincoli dell'affetto". Se il gatto è la filosofia, è sia epicureo che stoico, in una sintesi cui solo lui può arrivare. Il gatto è atarassia, assenza di turbamento, ma è anche apatia, distacco dalle emozioni. Il suo fine, in quanto filosofo, è raggiungere la libertà, che per il gatto coincide con quella del mondo, a un livello quindi superiore rispetto a quella del singolo essere esistente. Il gatto è l'etica, l'essere nel quale Lazzaro rispecchia i propri convincimenti, i propri obiettivi, i propri comportamenti. Il gatto è il viaggio interiore, mentre per il Lazzaro della lotta armata, per Franca, Samar e Pietro Micca il viaggio è una fuga che per alcuni si risolve nella scoperta. Lazzaro fugge, braccato dalle Istituzioni, prima sui Pirenei, poi in Libano. Ma una volta a Beirut scopre un mondo, incarnato in Afrah, e scopre se stesso e la missione che si vorrà dare, quindi la propria libertà e quella del mondo, a partire dagli eventi di Sabra e Chatila. Ma anche Franca è una fuggitiva, anima tormentata, secca, bruciata. E Samar, che arriva in Italia per sfuggire alla morte, e Pietro, che vola in Brasile dove scopre chi è veramente, un mercenario che ha abbracciato la lotta armata per spirito di avventura, pronto a vendere se stesso e gli altri a chi gli propone l'ennesima scarica di adrenalina. L'unico personaggio per il quale il viaggio è un eterno ritorno, una drammatica coazione a ripetere, è Barbara: la sua intera esistenza è un loop che ritorna sempre al punto iniziale, per ripartire più intensamente di prima, per ritornare più rabbiosamente di prima. 
 
Barbara mangia e vomita, e poi ripete ancora tentando di placare un vuoto senza requie: pare uno spirito vestito a festa, un mucchietto d'ossa che vuole ogni cosa invano, senza sosta; donna dagli occhi taglienti come vetri rotti, in bilico sul ciglio di un'esistenza spenta da troppo tempo.
Lazzaro ravviva intrecci e vitalità passate solo quando abbraccia una scelta che fa capolino fin dal titolo: sappiamo che avverrà qualcosa, e abbiamo dunque il sentore e non la certezza della strada intrapresa. 
I vivi sono in fuga da qualcosa o da sé stessi, sono vigili, inquieti. I morti si lasciano ricordare, non sbiadiscono mai davvero nel tessuto del racconto.
L'amaro e giusto fine è forse il coraggio di chi intravede i propri mali tramutati in vizi, in sottili e invisibili catene, e non abbassa mai lo sguardo? E il lieto fine quando non c'è, in cosa si tramuta?
 
Il finale è dato dal coraggio di accettare di non esserci. Lazzaro e Barbara sono l’uno lo specchio dell’altra, hanno vissuto l’epoca del mito, lui quale artefice, lei quale vittima sacrificale. Nel momento in cui i ruoli si invertono, nell’istante in cui Lazzaro capisce che adesso è Barbara l’artefice del loro destino, lui l’accetta, il cerchio si chiude e così facendo decreta la fine dell’epoca del mito. Devono scomparire, non uscire più dal sepolcro, rimanere in eterno legati alle proprie icone, mentre là fuori il mondo procede a scatti, disordinato, irriconoscibile, un universo nel quale non c’è posto per i due. Un’altra epoca ha inizio. Potrebbe essere un lieto fine, che supera i destini di Lazzaro e Barbara. Ma non è. È l’alto medioevo, preda di barbarie vecchie e nuove, che deve ancora trovare la sua strada.




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