mercoledì 3 giugno 2020

Di Fiabe in Favolacce



Accadono cose che sono come un riflesso: una sorgente estranea produce un’ombra e un crepuscolo di piccole luci morenti a rimbalzare sui soffitti, sulla pelle ancora candida d’inverno. Chi le osserva sa già che quello non è la causa e l'oggetto ma una conseguenza, e subito corre con lo sguardo a cercarne le origini sapendo di dover contemplare il rischio che il vero abbia forme che non si adattano al fantastico, ma combaciano con una semplicità di intenti e di organizzazione. Reale è ciò che non necessariamente si tuffa nel fantastico e resta pratico, a volte inosservato: tra facce spente e corpi distratti, abbandonati, trascinati, accalcati con piglio disumano; carne da macello, con un guizzo negli occhi che di rado si traduce in una gustosa ribellione.

Chi visse felice e contento appartiene alla favole e non si incontra quasi mai, perché la folla degli insoddisfatti è rimpolpata bene. E allora bisogna esorcizzare l’infelicità che è un mostro con le fauci imbrattate di un nero pece, nero inchiostro; esorcizzare le paure, le solitudini e gli orrori celati negli angoli più bui e lontani della notte, che trovano riparo e costruzione nelle storie narrate da altri. Mi è successo con un film intitolato Favolacce di pensare con assurda tenacia a cosa ci sia di buono, brutto o cattivo (tanto per parafrasare un film proprio grande), in una pellicola che non infilerei tra i capolavori né tra le pieghe davvero spiacevoli ricamate nel tessuto del cinema italiano recentissimo. Ho amato Elio Germano altrove, più che qui. Ma nell’insieme c’è qualcosa che da giorni e a più riprese mi lascia appiccicata alle atmosfere torride e gelide al contempo di una storia che potrei accostare senza fatica alle Fiabe da Antonio Moresco (Società Editrice Milanese) letto qualche tempo fa.
 
«le fiabe sono estremiste
le fiabe sono elettive
le fiabe sono profetiche
le fiabe sono emblematiche
le fiabe sono sapienziali
le fiabe sono elementari
e violente».
 
Sarebbe l’esordio perfetto di una pellicola che narra con passo lento le vicende di chi si perde per le strade dell’esistere come tra un pulviscolo di macerie e una fitta boscaglia. Il centro della narrazione ricade in un gruppo di poche famiglie smembrate, che a vederle si sa bene ciò che resta di un tempo: briciole avvelenate dell’armonia che deve esserci quando viene l’amore da smezzare tra due, insieme alla fame da togliersi dalla bocca coi baci rubati al sonno, passati di labbra in mano, sorretti da voglie fiduciose e impavide. Succede che il passo veloce degli anni vissuti riservi a chi si ama una completezza sghemba data dai figli cresciuti in silenzio, sullo sfondo di una società che li vuole come puro riempimento, nei giorni e nei legami altrimenti viziati, vuoti. Figli che crescono i padri, incerti e doloranti; e crescono le madri che non sanno fare pace con la propria carne e i confini dimezzati di un essere che è stato doppio e ora è poco più che mezzo, inconcludente.
Ai bambini viene tolto il clamore gioioso dell’infanzia; lo recitano comunque in uno scarto dei giorni dati loro in pasto più che in dono; scimmiottano l’amore come una cosa che bisogna fare presto perché non c’è tempo né sostanza da azzardare. E ancora mi allaccio alle fiabe di Moresco, che si intrecciano a un sentore di kafkiana oscurità quando affermano: «Il tempo che ti è assegnato è così breve che, se perdi un secondo, hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il tempo che perdi».
Il tempo che perdi è di certo un mantra, una maledizione, un cupo contratto speso con forze che non si può definire una risorsa né una sconfitta, perché costringono a fermarsi, a pensare, a correre ai ripari, tra il dolce imbroglio delle illusioni e la lealtà dei limiti che impongono una nuova marcia. Il tempo che perdi è maestro e nega la stasi, anche quando imprigiona.
Quelle fiabe oscure, fiabe di pozzo e di ingegno, fiabe di catarsi, fiabe stonate e magnetiche, hanno le atmosfere corrotte, bruciate e a tratti disturbanti delle Favolacce di Damiano e Fabio D’Innocenzo. Le illustrazioni di Nicola Samorì sono una mappa, un incanto in aggiunta; e rendono le storie narrate, un labirinto ancora più annodato da percorrere. Si resta al cospetto di un racconto dai mille volti che si sgretola e marcisce: ricomporre la morale è un’illusione non obbligatoria. Ognuno può sottrarsi al bene e al male, trovare una scorciatoia, un’alcova invitante in una voce che rompe le dighe, i silenzi e ogni indugio; e canta una nenia malinconica e cattiva, un ultimo saluto capace di riscrivere da capo e all’inverso una favola nera che via via sbiadisca, fino a lambire sogni d’ambra e speranze rinnovate.


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