Di Fiabe in Favolacce
Accadono
cose che sono come un riflesso: una sorgente estranea produce un’ombra e un
crepuscolo di piccole luci morenti a rimbalzare sui soffitti, sulla pelle
ancora candida d’inverno. Chi le osserva sa già che quello non è la causa e l'oggetto ma
una conseguenza, e subito corre con lo sguardo a cercarne le origini sapendo di
dover contemplare il rischio che il vero abbia forme che non si adattano al
fantastico, ma combaciano con una semplicità di intenti e di organizzazione.
Reale è ciò che non necessariamente si tuffa nel fantastico e resta pratico, a
volte inosservato: tra facce spente e corpi distratti, abbandonati, trascinati,
accalcati con piglio disumano; carne da macello, con un guizzo negli occhi che
di rado si traduce in una gustosa ribellione.
Chi
visse felice e contento appartiene alla favole e non si incontra quasi mai, perché
la folla degli insoddisfatti è rimpolpata bene. E allora bisogna esorcizzare l’infelicità
che è un mostro con le fauci imbrattate di un nero pece, nero inchiostro;
esorcizzare le paure, le solitudini e gli orrori celati negli angoli più bui e
lontani della notte, che trovano riparo e costruzione nelle storie narrate da
altri. Mi è successo con un film intitolato Favolacce
di pensare con assurda tenacia a cosa ci sia di buono, brutto o cattivo (tanto
per parafrasare un film proprio grande), in una pellicola che non infilerei tra
i capolavori né tra le pieghe davvero spiacevoli ricamate nel tessuto del
cinema italiano recentissimo. Ho amato Elio Germano altrove, più che qui. Ma
nell’insieme c’è qualcosa che da giorni e a più riprese mi lascia appiccicata
alle atmosfere torride e gelide al contempo di una storia che potrei accostare
senza fatica alle Fiabe da Antonio
Moresco (Società Editrice Milanese) letto qualche tempo fa.
«le fiabe sono estremiste
le fiabe
sono elettive
le fiabe
sono profetiche
le fiabe
sono emblematiche
le fiabe
sono sapienziali
le fiabe
sono elementari
e violente».
Sarebbe
l’esordio perfetto di una pellicola che narra con passo lento le vicende di chi
si perde per le strade dell’esistere come tra un pulviscolo di macerie e una
fitta boscaglia. Il centro della narrazione ricade in un gruppo di poche famiglie
smembrate, che a vederle si sa bene ciò che resta di un tempo: briciole
avvelenate dell’armonia che deve esserci quando viene l’amore da smezzare tra
due, insieme alla fame da togliersi dalla bocca coi baci rubati al sonno,
passati di labbra in mano, sorretti da voglie fiduciose e impavide. Succede che il passo
veloce degli anni vissuti riservi a chi si ama una completezza sghemba data dai
figli cresciuti in silenzio, sullo sfondo di una società che li vuole come puro
riempimento, nei giorni e nei legami altrimenti viziati, vuoti. Figli che
crescono i padri, incerti e doloranti; e crescono le madri che non sanno fare
pace con la propria carne e i confini dimezzati di un essere che è stato doppio
e ora è poco più che mezzo, inconcludente.
Ai
bambini viene tolto il clamore gioioso dell’infanzia; lo recitano comunque in
uno scarto dei giorni dati loro in pasto più che in dono; scimmiottano l’amore
come una cosa che bisogna fare presto perché non c’è tempo né sostanza da
azzardare. E ancora mi allaccio alle fiabe di Moresco, che si intrecciano a un
sentore di kafkiana oscurità quando affermano: «Il tempo che ti è assegnato è così breve che, se perdi un secondo,
hai già perduto tutta la vita, perché non dura di più, dura solo quanto il
tempo che perdi».
Il tempo che perdi è di certo un mantra, una
maledizione, un cupo contratto speso con forze che non si può definire una risorsa
né una sconfitta, perché costringono a fermarsi, a pensare, a correre ai
ripari, tra il dolce imbroglio delle illusioni e la lealtà dei limiti che
impongono una nuova marcia. Il tempo che
perdi è maestro e nega la stasi, anche quando imprigiona.
Quelle
fiabe oscure, fiabe di pozzo e di ingegno, fiabe di catarsi, fiabe stonate e
magnetiche, hanno le atmosfere corrotte, bruciate e a tratti disturbanti delle Favolacce di Damiano e Fabio D’Innocenzo.
Le illustrazioni di Nicola Samorì sono una mappa, un incanto in aggiunta; e
rendono le storie narrate, un labirinto ancora più annodato da percorrere. Si
resta al cospetto di un racconto dai mille volti che si sgretola e marcisce: ricomporre
la morale è un’illusione non obbligatoria. Ognuno può sottrarsi al bene e al
male, trovare una scorciatoia, un’alcova invitante in una voce che rompe le
dighe, i silenzi e ogni indugio; e canta una nenia malinconica e cattiva, un ultimo
saluto capace di riscrivere da capo e all’inverso una favola nera che via via
sbiadisca, fino a lambire sogni d’ambra e speranze rinnovate.
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