Marinai, Profeti e Balene
Coltivare
l’interiorità e nel contempo immergersi nelle cose di ogni giorno, è un
privilegio e una fatica che bisogna saper indossare. Occorre vagare in lungo e
in largo sulla terra conosciuta, saggiare il nuovo, muoversi al suo interno con
spirito il più possibile candido, aperto: e così conoscere la profondità in
ogni senso, fino al vertice scuro e basso che si tocca molte volte, pur di non
restare fedeli alla sola superficie. La disperazione e la complessità, col
fardello della consapevolezza che solo dopo molti sforzi si rivela dolce, sono
i mezzi necessari alla conoscenza dei propri punti cedevoli, mancanti; e dei
nodi irrisolti da lisciare in punta di dita, coi pensieri che danzano nella
mente o le intenzioni che si impongono nei giorni più impensati, pronti a
svelare la natura originaria e mutevole di ogni essere umano.
Ci si
trova a vagare con la fame degli esuli che da sempre sospirano la terra
promessa e negata; e con la sete di chi calpesta i luoghi più aridi al mondo,
nel centro esatto del poco e del nulla. Si impara a camminare, avendo passi
instancabili da muovere sull’orlo dello stretto necessario, sul ciglio delle
inconsistenze, dei tentativi vani, dei sogni lasciati marcire. E nel petto
un’urgenza che bussa, sconquassa, spezzetta, logora e anima chi la porta,
rinvigorisce ciò che è detto e tutto quanto invece resta taciuto, mettendo in
bocca ai silenziosi tutti i discorsi sempre pensati, e la certezza che sia
giusto pure quello che è sbagliato, certe volte. Soprattutto quando il rischio
è non sentire affatto, e la categoria dell’errore e della misura corretta sono
solo un miscuglio sbiadito, una cosa senza alcuna sostanza, messa lì per dare
spinta a una teoria della colpa usata senza alcun criterio.
Il
filo del discorso si intreccia e sorregge, attraversa una vastità di elementi
che non si può sempre dire senza darsi prima un ordine, una regola, una
compostezza almeno apparente. Il caos è della mente, e la sua espressione più sana
e profonda, è la creatività. Quel caos è sistemato bene, vestito a festa oppure
immusonito, spigoloso, morbido o sagace, lascivo: è tutto e il suo contrario.
Si può soppesare un’energia specifica, e dare a quella una e molte forme. Farsi
goccia ripetuta e ipnotica, voce di grotta, sale e malia; oppure ombra nella
quale riporsi a contemplare. Proprio questo è ciò che appartiene a Vinicio
Capossela: l’ombra, lo scarto, la voce che vibra, recita, graffia, cade nel
silenzio con un tonfo sordo. Batte, scarta, gratta via uno strato alla realtà,
e deve farlo con braccia nodose, mani come radici robuste, di albero secolare.
Lo si immagina come certe creature mitologiche, in Marinai, Profeti e Balene. Come creature che si ridestano da un
sonno lungo secoli, che è attivo e partecipe, seppure palesemente inerme; mosso
in una dimensione che non può essere solamente umana, di carne e limite. Va ben
oltre, infatti, facendo appello alle forze residue, all’immaginazione. Perché
la parola serve come l’aria, ma da sola non placa nulla, se resta troppo
concreta, fino a farsi negazione ostinata e chiusa da togliere il respiro. E
allora bisogna mettere su le branchie, imparare un respiro nuovo, farsi pesce,
sirena, riflesso di sole su acque increspate. Avere per casa una conchiglia,
una bolla minuscola in un mare sconfinato, e nuotare, galleggiare, mettere
piede su un vascello fantasma, sentire scricchiolare le assi di legno e sapere
che è stata proprio ieri la prima missione, il viaggio in solitaria, lo sbarco
sperduto dei naufraghi, anche se tutto è corroso dal tempo e dall’oblio. Storie
di pirati, storie di fantasmi che a volte sono tali pure quando hanno ancora il
sangue nelle vene, e in testa la razionalità che serve a scindere la vita viva
e impavida, dal genio e dalla malinconia dei sopravvissuti.
Ogni
brano di Marinai, Profeti e Balene, è
una tappa, un’oasi, una danza circense, l’abisso e il mancato respiro. La lancia del Pelide è la luce ovattata
del blu più profondo, la culla e il rimpianto. Il suono basso e nostalgico che
si risolleva solo alla fine, per rimescolare destini e malcelate speranze per
un amore smesso e i segni da quello ereditati, non necessariamente cattivi e
non soltanto lievi. Miele e veleno in dosi improvvisate, e la tenerezza di chi
si arrende e non serba alcun rancore.
Pryntyl ha un ritmo pizzicato,
ondeggiante, e le atmosfere dei varietà trasferite su un fondo di spuma di
mare. Ha per protagonista una sirena improbabile, che fa l’occhiolino al suo
dio: un Nettuno che si accorcia solo per sentito dire, e fa di nome Nunù in via del tutto eccezionale. Goliath è un carillon sgraziato, un
tendone da circo, la vittima che diventa un fenomeno nel giro di una manciata
di istanti: balena senza acque, con interi continenti celati in fondo agli
occhi vitrei, il ricordo dell’ultimo respiro ficcato nelle squame come una
ferita insanabile, e un colorito non proprio accattivante: la musica stride,
incalza, ha un ritmo irregolare, e lo spettacolo prosegue e strega i piccoli,
mortali astanti, fino a che non resta che il silenzio, e l’immagine di un pesce
grande e offeso, con una manciata di stelle nella pancia come una reliquia: la
sua muta e inutile rivalsa.
Billy Budd è una voce sola e affranta, un
battito costante e ripetuto, e frammenti di altre voci in coro, ma solo per pochi
momenti: una pausa breve tra un racconto e una parentesi rassegnata, una
condanna pronunciata da tempo, un inchino alla Signora Morte e presto sarà
tutto spento.
L’Oceano oilalà è un canto di marinai, omaggio
al mare, all’avventura, alle storie vissute solo in punta di fantasia: una
marcia forzuta che insegna a non restare fermi, e rimarca gli itinerari già
appresi da Melville in Moby Dick, col
cielo che cova le sue tempeste e un languore che risponde al nome del rum:
quello che inventa la sete e non la toglie, e intanto pizzica l’umore e
accorcia le distanze tra una riva e l’altra, e una casa che sbiadisce insieme
alla memoria.
Si
scende vertiginosamente, giù dalla nave e dalla cresta dell’onda, in un abisso scuro-scuro. Ci si impiastriccia con
l’inchiostro nero-nero di un Polpo d’amor immerso nelle acque,
nell’attesa e nello spessore dei dintorni, che restringono istinti e
possibilità. La voce di Capossela è un labirinto da percorrere, piano. E piano è il tempo giusto, il modo
migliore per raccontare un’inquietudine amorosa, coi sensi vigili e le carezze
agognate.
Polpo d’amor è un brano da ascoltare nelle
sere d’estate, con la luna sospesa tra cielo e mare, come in un dipinto che
insegna la continuità, l’uniformità di sfondo e di colore: la sola coordinata
attendibile è il bisogno. L’attesa non si risolve, e quella creatura non può
che vagare ancora, con le otto braccia che gli mancano per abbracciare lei, che resta appena abbozzata,
immaginata, eppure necessaria: le note sono quasi un fruscio, una carezza, le
si balla bene ad occhi chiusi e a piedi nudi. Con le dita, i talloni, le gambe
buone per fare invidia alle sirene, i capelli intrecciati dal vento, ornati di
conchiglie e stretti da altre mani. Con gli occhi che misurano l’orizzonte un
puntino alla volta, le nostalgie strizzate in un granello di sabbia, e i
gabbiani che sorreggono sulla curva delle ali, tutto quanto il peso del cielo.
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