giovedì 28 maggio 2020

Il Favoloso Mondo di Letizia




Il teatro è una cosa che a vedersi non si direbbe mica che siamo così belli, confusi, zoppi nell’animo e dritti nel passo; cupi, veggenti, sani, pesci fuori dall’acqua che sognano l’onda e la spinta degli abissi per tutto il tempo di una vita lunga vent’anni, ottanta, oppure un mucchio di giorni soltanto.
L’attimo che precede i più succosi eventi è quasi sempre gustoso, rivelatore: anticipa il desiderio con buona pace di ogni contenimento. Volere è un imperativo che trapela dagli occhi, dalle mani nervose come quelle della Letizia Forever che viene da Rosario Palazzolo e da lui prende corpo, sostanza ed espressione.
Vi è tutta quanta la Sicilia nelle parole di una donna a tutti gli effetti: donna di tronco, nodosa, donna barbuta così morbida e sfaccettata nel porsi. Si notano e non bastano, le parole dette a perdifiato. Si notano i gesti marcati, le spalle ricurve per difendersi, i cenni bambini che sperano in un’intesa che si può avere solo con le persone intelligenti, che una cultura se la fanno sulle scritte dei giornali, per le strade; e poi tenendo le mani strette sulla pancia perché c’è un dolore che viene da lì ed è sordo, costante: lo chiamano rifiuto, lontananza. Iddi lo direbbero una mancata o errata gestione delle emozioni. Iddi sono quelli che stanno fuori e in alto, quelli che puntano le dita su un caso clinico, mica su una persona. Quelli che però qualche volta e a forza di muovere mani più o meno a casaccio, tirano fuori da chi resta chiuso in un mondo proprio, una musica che poi non la si scorda più.
Ed è proprio la musica che anima Letizia: la stropiccia, la rivolta, e lei la canta e poi soffia via l’aria dai polmoni e morde lo spazio intorno in un flusso di coscienza che non teme stanchezza fino alla fine, quando si ritrae non per negare, ma per un supplizio leggero, l’ennesimo cenno d’intesa raccolto dal pubblico che sa, pur non sapendo con certezza. Le ammissioni sono una cosa inutile, certe volte. Basta ascoltare canzoni che rientrano nel genere amore che piace tanto a Letizia per capire che nei versi nascosti sotto i versi, si concentra ogni verità. Come quando la musica è allegra ma lei intanto racconta la fine di un matrimonio voluto con una forza che con l’età si pensa che possa allentarsi un poco e invece no: Letizia si agita e continua a muovere le mani, a tirare giù l’orlo di un vestito ancora e ancora. Tutto di lei parla, perfino gli occhi che mai si arrendono alla disillusione.
Le note accompagnano i racconti di una Biancaneve senza mela, ed è tutto preso all’inverso: il ruolo del principe appartiene al padre che cade inerte, preda di un incantesimo di fine-vita; e lei lo bacia ma lui fa il duro che non si sveglia, la favola che non riesce.
 
Assisto a questa storia da lontano, la seguo su uno schermo. Aspetto di poterla vedere da vicino, di sospendere il respiro come ho fatto in certi punti anche da qui, commossa in un modo barbuto che si addice alla protagonista: senza lacrime ma dentro e forte, profondamente, come le persone che maneggiano l’icoscio con sapienza.
La parte straordinaria dello spettacolo, insieme a Rosario Palazzolo, è Salvatore Nocera che interpreta con grandezza e semplicità il ruolo assegnatogli. E la commistione di sensazioni che deriva da un’impronta spiccatamente ironica, genuina e gentile nonostante le parole gettate in corsa, parole non forbite ma estremamente alte, perché solo le cretinaggini sono il male vero e quello non è detto si sveli a un primo ascolto.
Letizia commuove, Letizia è saggia, è scomoda, irriverente. Letizia insegna tanto senza saperlo, e deve essere vera da qualche parte, non ha solo un cuore di carta. Letizia è esagerata. Letizia dice che «il fatto è ca iddi vogliono sapere la realtà. Ci interessa solo questo, a iddi, la realtà.
Forza, signora Letizia, ci dica cosa capitò quel nove di marzo millenovecentonovanta? Suo marito l’ammazzò? Lei ammazzò a suo marito? Accetti la realtà, signora Letizia… cosa capitò in realtà?
Come se la realtà fosse una cosa semplice, a raccontalla.
Come se fosse una vita scritta nel Sorriso e Canzone.
No.
Ca la realtà, pi mia, è una cosa troppo incarbugliata ca può essere sottasopra e sottasopra e sottasopra… E come la giriati la giriati, è comunque una cosa.
Ca magari a voialtri vi pare «l’unica cosa», e invece è solo «n’àvotra» cosa.
Ca io, pure a mio figlio Michelino, ce le spiego, queste cose qua, ogni volta che viene.
E difatti, iddu, un poco mi chiama mamma, un poco mi chiama papà…
È confuso…
Proprio come àvi a essere la realtà».



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