giovedì 10 dicembre 2020

Gabbie Per Sirene


«Era come neve, la tua presenza. Era gelo a gravare sui rami spezzati delle ossa. Tu non avevi argini, ma fuori si: fuori ti ritraevi, scomparivi».
Finito di parlare, la donna con cent'anni sul volto e sette lustri raschiati sul registro dell'anagrafe si alza dalla sedia. Toglie il cappello, lo accartoccia tra le mani. Torna a sedersi con l'aria rassegnata di chi colleziona risposte giunte in ritardo o andate smarrite; ma a volte intercetta con occhi e agilità di lepre, appena un sibilo, una crepa nel corpo amato e ricurvo gettato come una cosa che non serve sopra una sedia e un tavolino spoglio: c’è chi ascolta lunghi racconti con la segreta pretesa che vadano a segnare per tutti un risveglio. E chi si limita ad annuire, allacciando le mani alle mani già incontrate con fame d'affetto, fame di rapace. Quante calorie conta l'aria ingerita? 
«Cosa hai mangiato ieri»?
«Pulviscolo e luccicore di stelle».
«Ti si vedono le ossa». 
«Quelle non sono ossa, sono sbarre. Sono gabbie per sirene».





















Una stanza e tre tavolini: uno è risolto, ne restano due. Come un vecchio gioco di prestigio compaiono dal nulla mani piccole e nervose, sporche di colore; allungano un dipinto all'ospite desiderato e silenzioso. Dai polsi arrossati e abbandonati si risale a un viso che sospira, sbuffa e piega l'aria intorno con lo sguardo. Spuntano di nuovo le mani e coprono il volto; poi provano a inventare le reazioni sperate: hanno giallo il pollice, rosso l'anulare, verde l'indice che disegna un sorriso sul volto amato giunto fin lì da tre quarti di mondo più in là per offrire coraggio, con in mano una valigia di cartone, un fiore di cartapesta all'occhiello, e lenti tonde e spesse a puntare un foglio candido con il disegno di una grossa bocca di roccia e argilla che vomita la parola fame nelle lingue di tutti i continenti; e in una marziana, inventata in una notte insonne. Amore è scritto un poco più giù, con una grafia sottile e falcate di gazzella. L’autore del disegno cattivo, bisbiglia d’un tratto: «l’amore bisogna dirlo in fretta, masticarlo appena. Senti come riempie? Ora devo sputarlo via. Tu intanto resta qui e aspettami».
«Cosa hai mangiato ieri?»
«Ogni cosa, lo diresti mai?»
«Che ti è rimasto nello stomaco?»
«Oltre il rimorso? nulla. La gola è un varco segreto che le mie dita conoscono bene». 
 
Ultimo tavolo, ultimo incontro. «Chi è che cantava La Donna Cannone? Aspetta, ora mi viene. Tu intanto vieni qui e non mi toccare.
(E toccami, ti prego. Ti prego. Se no come faccio a ricordarmi di me?)».
«Cosa non hai mangiato ieri»?
«Ho scansato solo il gusto, il poco e l’utile; al centro del mio vuoto esasperato, divoravo tutto e non sentivo niente. Ora resto ben piantata qui, ma non fiorisco».
 
È come neve, pure lei. Non un fiocco solo: una valanga. Guarda gli assenti nella stanza come da un angolo di purgatorio: il corpo è un luogo inospitale e allora lo lasciano, almeno con la mente. Sono presenti altrove, ciascuno col proprio dolore. Eppure riescono ad allacciare uno sguardo d'intesa: sotto la scorza smezzano una comunione stramba dagli intenti nebulosi. Sono un racconto e una ferita affine, distanti solo a uno sguardo disattento.
Una vita dopo, qualcuno giurò di aver visto tre ombre per strada in una notte di luna piena, notte di incontri da ladri di tempo e di speranze. Un’ombra valeva per quattro e contava i granelli di sabbia in riva al mare. Aveva dita agili, d’avorio, serrate una ad una con un nastro rosso per apparire più esili. Era meglio che saperle come sempre: dita tonde, sgraziate, che sapevano ogni gentilezza, ogni fuga, solletico, carezza furtiva. Dita nascoste, dita senza gioco. Un granello di sabbia, più uno, più uno, e avanti per chissà quante notti: era un pegno, un giaciglio da sistemare per l’amore perduto o inventato, per l’amore di sé.
Oltre una piccola piramide di sabbia sostava la seconda ombra, intenta a soffiare su un biscotto appena sfornato. Teneva appesi al collo un lucchetto e due chiavi ramate a sbucare da un taschino ad altezza cuore. Vomitava sospiri, e i piedi si staccavano da terra. Inspirava e atterrava, addentava il biscotto e osava una specie di tiptap. Finito di sgranocchiare il dolce pasto chiudeva con cura il lucchetto. E mormorava: «ora tu resti lì, biscotto. Tu resti lì e mi fai fare sogni di zucchero».
L’ultima ombra pareva un filo orfano di palloncino, un filo d’ossa, filo di vertebre come anelli senza fede, e rincorreva nuvole vaporose appese a un cielo guasto. Giocava ad indossarle: somigliavano ad abiti di pregevole fattura da imparare a riempire con una fame finalmente zitta, e sogni tondi e languidi come lune d’argento.














Per le illustrazioni, ringrazio moltissimo Simona Fiori 🌸

martedì 3 novembre 2020

La Rivoluzione, forse Domani

Vi sono sguardi malinconici che diluiscono le tracce dei tempi andati, ne ricercano il passo per non perdere del tutto l'impronta di un tempo che sapeva farsi gioco, fatica e fiducia in alternanza; e che riempiva i giorni di chi assisteva al mutare delle stagioni: nelle fitte maglie di un tempo anche presente, si infiltrano tenui bagliori di usanze sopite, e racconti da trarre con incantata prudenza da volti e voci amate, a rivelare la parte più autentica di chi ascolta e non si accorge più del passo ossuto del dio Saturno. 
Il progresso non sempre contempla una reale evoluzione, soprattutto su un piano culturale ed emotivo: non di rado il soggetto diviene oggetto, si ripiega e svanisce dietro le pressioni di una società non più adatta a coltivare i ritmi lenti e profondi del singolo, e di una coscienza che trova pace in breve e non teme corruzioni.
La ricerca delle origini, delle cause e dei rimedi che hanno condotto a un mondo attuale, smembrato da conflitti e incomprensioni portate avanti a scapito del buonsenso, non si può arrestare: quello che siamo stati farebbe gola a chi gioca con le parole e intreccia destini ormai improbabili. Qualcuno ha fatto la storia ben prima di noi, e ha lasciato in eredità ai più fortunati i frutti e le coordinate di una realtà ben più accogliente e sensata. Eravamo così belli, e non lo sapevamo. Chi vive il presente non può arretrare, neppure sapendo che la marcia verso il futuro non è delle più rosee, e per questo si arresta, si lagna ben più del dovuto, e solo a volte si accontenta di ciò che può. In passato le cose non erano diverse: ciascuno doveva fare i conti con ristrettezze e impedimenti da ricondurre a fattori economici, pratici, o discussi tra sé con il linguaggio delle emozioni. Ma c’era ancora la volontà di incontrarsi, fidarsi e affidarsi al prossimo; e le poche risorse possedute venivano il più possibile esaltate con la carezza della condivisione. Accomunare il destino e la condotta di ognuno non è possibile, ora come allora: le eccezioni sono l’unica cosa che consente di dare una mira esatta alle regole, che sono la misura della civiltà.
La bellezza, un tempo, vestiva spesso i panni del rigore e dell’ingenuità. E la povertà, quando non era di spirito, poteva trovare contrasti buoni nell’ingegno che sopperiva alle mancanze e collocava i concetti di utilità e di vantaggio in un punto lontano, rispetto a quello che intendiamo adesso: gli agi dell’era moderna non si potevano neppure indovinare, tranne in pochi casi, fortunati o coraggiosi. Un esempio viene da Rosa Mangini: donna originaria dei colli oltrepadani tra Pavia e Piacenza, di una cultura e una sensibilità assai vaste. Leggendola, si capisce che non le serviva dosare le parole: quelle scorrevano sulla carta agili e intense, coglievano e anticipavano trame future osservando il presente con immersione profonda. L’ispirazione non è cosa da sottovalutare, come le inclinazioni che sanno dare corpo a ciò che si chiama realtà; e sanno filtrarla senza celare nulla, ricavando da ogni punto quanto sfugge a occhi indifferenti.
Poche cose sono belle quanto il restare impigliati nelle maglie generose e imprevedibili della fantasia. Anche quando, come nel caso di Rosa Mangini, i riferimenti marcati sulla carta non sono poi così distanti dal vero. Appartiene proprio a lei uno scritto intitolato La Rivoluzione, forse Domani, pubblicato da Divergenze dopo il ritrovamento di un manoscritto risalente al 1941. La storia tracciata sui fogli contenuti in una cartelletta di pregevole fattura, racconta le vicende di un gruppo di ragazzi che si muovono tra Zenevredo e Costa de’ Nobili. E si potrebbe definire una storia di resistenza prima della Resistenza, che è dentro i fatti e non estranea. L’autrice chiama in causa il regime fascista, eppure non lo nomina apertamente: trova molti modi di parlare di quel male, senza contorni precisi ma simboli, mezze parole, facilmente riconducibili ai diretti interessati: i neri, o quelli, a seconda del momento. I personaggi raccolti intorno ai piccoli e grandi rumori di paese, sono intenti a vivere una vita che si avvicini il più possibile a princìpi e valori che fanno ricco l'animo di chi li osserva. Si tratta di cose semplici e preziose, che prendono corpo e spinta dalla terra: a lei si devono i frutti che sfamano il corpo e lo spirito, ed è per questo che occorrerebbe preservarla dagli affronti che non di rado, coincidono con la sola presenza umana.
Il Michele e Melania sono due personaggi fondamentali, nel racconto; hanno colori diversi e complementari, una forza di carattere che prende spinta e ragione da angolazioni differenti, e che non trova difficile convergere verso uno stesso punto: la loro è una conoscenza che prende vigore piano, che si nutre di gesti rubati e sussurrati, di evidenze celate dietro cure minuziose, pur di non rendere esplicito ciò che va rimandato e incoraggiato: i due sono quasi all’opposto. Uno conosce ben poco le dimensioni letterarie ed è goffo e tenero, a tratti. Non nasconde la sua natura ma la porge all’altro, con una fiducia che andrebbe preservata ad oltranza. Melania invece è sorniona, ammicca ma non esaspera mai nessuna delle attenzioni che porge a Michele, anche quando spera che quelle possano avere un seguito. La breve parentesi di mondo conosciuto e le larghe distese altrui, hanno connotati metaforici, sensuosi, di appartenenza. Lei chiede, perché non si accontenta di vivere soltanto di passaggio: indaga il senso dell’umano esistere, e le sue riflessioni la conducono spesso al nonu Balossi: uomo capace di conservare il calore dell’esperienza, il riserbo, la forza di chi muta col mutare del tempo, e non si lascia atterrire dalle difficoltà. Burbero nell’aspetto, ma di una tenerezza disarmante. La profondità dei dialoghi tra i due, ad un certo punto, mette in luce la piccolezza degli uomini, quando si riducono a fare scempio della ricchezza del territorio col disegno ottuso e inutile delle case spuntate in ogni dove: le linee di un’attività edilizia sconsiderata, fu evidente negli anni del fascismo. Melania aveva una gemella; ed è davanti a quegli stravolgimenti, che il nonno Balossi confida loro: 
«Ai miei tempi la campagna andava alla città, adesso è la città che va alla campagna!».
«E non è bello?», replicavano in coro, candidamente.
«È bello se andate a fare una gita; era bello per chi ci andava a lavorare. Ma oggi la città non va alla campagna per lavorare la terra».
«Oh», dicevano, «e per cosa ci va?».
«Per fare le case».
«Ma allora è bene», osservava la Melania. «Case nuove, calde, come quelle dei signori».
«Figliole mie, la casa è bene, ma i signori l’hanno già una casa. Tanti anche due, tre, quattro case».
«E noi?»
«Noi no. Noi abbiamo la terra, che è la casa più bella e più sicura. Se copri la terra e fai su una casa, che non è la casa di chi lavora la terra, hai perduto la terra e quella casa non è più sicura. La terra perduta è perduta, non dà più il pane, e noi non mangiamo le pietre».


Non vi è nulla che si allontani mai da una verità che apparteneva agli uomini e alle donne del passato descritto; se non per calcolare le distanze, dilatarsi e arrivare fino a noi, esprimendo un gran numero di sensazioni e riflessioni più che mai attuali.
Ogni personaggio è irrinunciabile. Tra questi, sono degni di nota la signora Peppa con lo sguardo arcigno e furbo; e un marito tonto al seguito, vittima di improperi e deliziose frecciatine, entrambi alle prese con l’ingombro di un’osteria che era teatro di spassose scenette di paese. Con le loro piccole baruffe, i disaccordi vivi e ispidi, si immagina una vita coniugale piuttosto movimentata, la pelle grinzosa, le mani stanche, la postura lievemente arcuata, le ginocchia capaci di scricchiolii mica da poco. Eppure la Mangini non usa troppe parole per descriverli: li fa muovere insieme agli altri e proprio dalle azioni adottate si ottengono le forme, che chissà per quale magia sono precise più di ogni termine ricercato e preciso.
Poi vi sono la tenera e operosa Gina, il Balussìn con la musica in testa; Stalin, che indossa con disinvoltura il nome affibbiatogli. E il Volpe: a lui vengono affidati i più succosi slanci.
Ogni personaggio contribuisce allo svolgimento di una trama che non smette di accarezzare, di commuovere e divertire. In alcuni punti risulta evidente più che in altri, la grandezza di una donna che seppe anticipare eventi non ancora intuibili: Rosa Mangini vedeva in largo, vedeva lungo, non sapeva fermarsi alle ovvietà. Viaggiava nel futuro, e senza alcun congegno: con la sola mente, con la febbre di vita e di sapere. Con un bagaglio di affetti e visioni confluiti in una storia forse ascoltata da altre voci e regalata alla carta e a chi vorrà percorrerla.
Carta preziosa, come ogni testimonianza capace di restituire interezza al quadro frammentato di noi tutti, che spesso siamo vivi solo per sentito dire.



La Rivoluzione, forse Domani - Rosa Mangini





martedì 25 agosto 2020

Morti di Sicilia e Altre Stranezze




 La terra maliarda va annusata di notte ad occhi chiusi. La terra strega, terra diamante, terra di notti insonni, va omaggiata con la malinconia dell’esule e col frutto ridente della gratitudine propria di chi resta e non fa nulla per cambiare, prende per buono anche gli avanzi, le sbavature: indolente e bramoso a tratti, come un amante che pure essendo amato di un amore smezzato non sa privarsi di una tale grazia e rovina.
 La terra alchemica, terra madre, terra di origini mai rinnegate, conserva nel proprio grembo storie che andrebbero preservate dal tempo che fugge e che dimentica; andrebbero donate di bocca in bocca, specie quando non hanno morale: buone come il peccato, come le carezze furtive, come chi resta incastrato nelle ripetizioni e di volta in volta vi trova nuova linfa da usare a piacimento, per crescere e non crescere, restare promessa imbozzolata, spiccare il volo per distrazione.
Vi sono storie calamitanti, che pure prive del brio delle cose felici donano il sottile e ricamato gusto delle migliori avventure, a chi ne solca le pagine con fantasia vivace e acuta in ogni pagina. E anche quando le pagine sono proprio una manciata il cammino può essere interminabile, poiché ci si lascia guidare dai fatti impressi sulla carta, e non di rado si vorrebbe ascoltare dalla voce viva di qualcuno quanto raccontato. Accade con Morti di Sicilia e Altre Stranezze (Rossomalpelo edizioni) di fare ritorno in ogni tratto di isola mai conosciuta, e in quella amata ben oltre il tempo vissuto per intero nella vita tutta, perché le storie che racchiude portano le testimonianze di chi è nato, morto e non morto, capitato in epoche di sola fantasia oppure lontane, ma così lontane che si vorrebbe per una volta cadere addormentati come in un incantesimo, sognando viaggi senza rotte ben distinte, senza impedimento; e giungere fino alla voce roca e disperata di chi pensa a ciò che non ha più spoglie terrene, e maledice a suo modo l’erosione del tempo e del corpo che frana alla fine dei pochi anni che contiamo, precipita nel dirupo delle cose mai potute osare, rimpiange i tempi argentini dei momenti goduti, amati e condivisi.
Nel leggere si immagina con chiarezza una sorta di lamento cantato, un pianto asciutto, gutturale:

«Più nulla! più nulla! né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. Né i tuoi occhi bramosi, pei quali sfidavo il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ho più. Ti rammenti? I baci insaziati dietro quell’uscio! E neppure i morsi acuti della mia gelosia, il delirio sanguinoso che mi mise in mano l’arma omicida in quell’andito buio. Né le lagrime che si piangevano attorno al mio letto, e cercavo di stamparmi negli occhi dilatati dall’agonia. Né le ansie in cui vegliai tante notti davanti a quel guanciale in cui posava la cara testa bianca. Né le carezze colle quali mi pagavi il latte del mio seno e i dolori della mia maternità. E neppure le lotte in cui mi son logorato. Né le speranze che mi hanno accompagnato sin qui. Né i fiori del campo per cui ho tanto sudato. Né i libri sui quali ho vissuto tanta e tanta vita. Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alighe secche nelle falangi disperate. Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. E neppure l’azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. L’onda che s’ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla Tavola del Prete si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa».

A Giovanni Verga è data questa parte di bellezza, che fa pace con le inquietudini dell’uomo e dell’isola, trova un insistere caparbio sotterrato come le ossa in piccole tane asciutte, terrose: il tempo corrompe la carne, ma difficilmente intacca gli affetti o il ricordo. Quest’ultimo cambia forma, rivede i contorni un tempo così netti; e rivive le testimonianze narrate in prima persona da chi poi scompare, le percorre e le impara a memoria pur di custodirle sempre; poi le dona ad altri purché non vadano mai smarrite. Chi vorrà potrà tornare dai luoghi ultraterreni sconosciuti a chi respira. Potrà tornare e portare con sé qualunque cosa voglia: un dispetto, un fiore tra i fiori sopravvissuti alla carezza gelida delle lapidi, una forma di caverna propria del momento del trapasso, e un bagliore pacato, ancora fiori e danze, e ricongiungimenti morbidi per forme nuove che non si possono dire: nessuna voce sul vocabolario sa ancora disegnarle bene.
 
Morti di Sicilia e Altre Stranezze, che solo a dirlo pizzica strati di stupori assorti, ha un sentore di muschio, di erba mossa da poco, di mosto e vino rosso colato dalle labbra e fin sul collo: tributo odoroso al sangue che scorre nel lungo e sottile cilindro della giugulare. Ha suoni di mare, di lacrime a sguazzare negli occhi: lacrime intentate, fondi di lago tra le palpebre schiuse. E rintocchi di campana appuntite come spilli, a creare squarci tra dimensioni differenti: facile inciampare tra veglia e incubo, perdersi e mai più ritrovarsi.
E tutto nel tempo breve e accorato di racconti piccoli, agili, che ad un certo punto ricalcano le atmosfere di Giuseppe Pitrè alle quali Giuseppina Radice si accosta per scrivere I Crozzi ri Motti, in un miscuglio di dialetti venuti da più parti dell’isola bedda; i dialetti si sa che sono un tesoro vero, un tesoro quasi perso. E allora nel mio piccolo io l’ho ringraziato, tutto quel bene. E ho letto ad alta voce:

«(…) i fimmini cuntavanu tanti cunti: ri fantasimi senza testa, ri morti c’havanu murutu ‘mmazzati e chi non havivanu rizettu e jvanu jendu casi casi facendu – cetti voti – sgrusciu ri catini chi i tinivanu ‘ncatinati. Cunti macari ri riavuli chi trasivanu e niscivanu intra di li cristianuzzi e cci facivanu fari cosi ri pazzi (…)».



mercoledì 5 agosto 2020

Donne nei Loro Letti




Vi sono titoli di libri che catturano ancora prima di una visione d’insieme, prima delle forme e degli odori. Donne nei loro letti di Gina Berriault (Mattioli1885) è fra questi.
 
Io nel letto so starci, mi sono detta. Non sul letto ma quasi dentro, sprofondata per sogno e per immagine, lì in mezzo come lontana appendice del mio essere, quando mi metto a pensare e arrivo chissà dove solo abbracciando il cuscino.
Il libro è un poco arrotondato agli angoli, ruvido sotto i polpastrelli: la donna ritratta sulla copertina ha gli occhi marcati da un fascio di luce ambrata. Ma si torna sempre al titolo con insistenza dolce, perché è allettante e da solo conserva la promessa di una visione non solo sensuale e sessuale, non solo impersonale, abbandonata al caso e all’assenza. Il titolo batte in mente, crea sottili strati di stupore quando conferma che nei letti non giacciono languide, pensose e inermi le sole donne: spuntano gli uomini su quelle soffici zattere, in alto mare come la controparte e simile all’opposto che almeno nel corpo è così facile individuare; sguardi, linee e genitali sono solo un patto stretto con l’evidenza che salva dal doversi annunciare ad ogni piè sospinto. La donna ha un canto sottile, l’uomo una piccola selva sulla faccia: uno strato di barba come minuscole e ruvide cime d’albero sotto le dita. Siamo un’alleanza sghemba, visti da lontano: territorio comune, differente e complementare. È quando una parte e l’altra si trovano a sfumare infilandosi nei panni e nella carne altrui, che tutto si fa interessante. Ed è cosa perfino più buona quando ci si trova a supporre e poi a chiedere stille di certezze per meglio comprendere cosa accade, quando due che non si sanno accelerano il passo, spezzettano distanze, si incontrano mescolando esigenze differenti senza vederle combaciare nell’immediato. Le donne e gli uomini di Gina Berriault sono spesso e fortemente somiglianti, a volte quasi interscambiabili. E non per mancanza di carattere o sostanza: non intendono annullare le sane differenze tra i due sessi, non riuscirebbero a farlo neppure volendo. Sono soltanto vittime e carnefici in misura uguale tra le parti: si ritraggono dalla sorte che tenta di pescare loro per uno scherzo strambo dentro il gioco stesso. L’azzardo è rimanere vivi per la vita stessa, e non in funzione del solo ruolo ricoperto.
Lo sguardo che Gina Berriault riserva ai suoi personaggi è denso, magnanimo. Lei sta lì, scrive di loro, è la loro madre poiché li crea dal nulla, li crea nel grembo della carta e del libro, sa che l’inchiostro è il sangue che scorre nelle loro vene di cellulosa. Li osserva, li lascia fare: li perdona quando è tempo di svelare errori senza troppe accuse. E quelli restano defilati quando è tempo di godere meno del necessario, per tentare di conservare ancora un poco di energia e usarla nei giorni additati come inutili. Le storie a volte sono fulminanti, e fin dalle prime righe svelano luoghi, protagonisti e piccoli retroscena a dare corpo alla narrazione: i racconti ai quali si dedica sono universi in piccolo.
E quanto sono belli i letti letterari, i letti manchevoli, letti di conchiglia e di poesia.
 
«Poi a letto penso a te,
la tua lingua metà oceano, metà cioccolata,
penso alle case dove entri scivolando,
ai tuoi capelli di lana d’acciaio,
alle tue mani ostinate e
come rosicchiamo la barriera perché siamo in due.
Come vieni e afferri la mia coppa di sangue,
mi ricompatti e bevi la mia acqua salata.
Siamo nudi. Ci siamo spogliati
e insieme nuotando risaliamo il fiume, l’identico fiume chiamato Possesso
e sprofondiamo insieme. Nessuno è solo».
 
Ad Anne Sexton era dato un vagare e sospirare gelido e accaldato al contempo, il mancato riposo e tutti i sensi chiamati con il nome altrui: l’anatomia del credere e del volere, anatomia delle emozioni e non solo del corpo. Nessuno è solo, per la sola ragione di una solitudine suddivisa in parti quasi uguali tra tutti. La Berriault consegna al desiderio una forma di tormento pacificato, un ricordo lungo, stiracchiato sulla linea delle vicende passate e rimpiante; risale le mani protese, le braccia prive di corpi da imprigionare tra le maglie ossute, candide, morbide, disperate e gioviali della tenerezza. Non l’impronta carnale, la ferita pulsante e lasciva di Anne Sexton, ma l’accordo leale e speranzoso con un’attesa che vada a placare la perfida arsura delle privazioni.
Nel racconto Zenobia, semina questa voce con ogni retroscena e avanzo immaginabile:
«Silenzio, il vento soffia ancora. Niente fischi, niente brontolii, nessuna tavola divelta che sbatte. Il cuore mi si agita contro le costole dove non sempre riuscivo a sentirlo. Povero uccellino, vuole uscire dalla gabbia in cui me l’hai rinchiuso. Quando il vento soffia di nuovo, prego che frantumi questa casa in mille pezzi e getti nella neve i letti ammuffiti in cui nessuno dorme più da anni, dove fanno il nido i topi, e le pentole annerite e incrostate e i piatti incrinati e questa sedia a dondolo scheggiata su cui sono seduta con la mia vestaglia grigia ormai lisa, vecchia di secoli come le piume di un uccello morto, e questo tavolo unto al quale ci facevi sedere tutti insieme, noi tre, il tuo amato Ethan e la tua cara Mattie e il tuo spauracchio Zenobia».
È come se fosse tutto un primo tempo, e unico. Come se i personaggi rotolassero, inciampassero in scena, piantandosi lì come rami sterili e sgraziati; e non ci fossero prove, aggiustamenti. Un’unica performance e poi via, anche senza spettacolo e applausi, solo chimere e rimasugli di un sogno forse vissuto per davvero.
In tutti i racconti si incontrano uomini e donne di città o di periferia; uomini, donne e gatti, bambini innocenti e ragazzi intrappolati nelle rinunce altrui che per assurdo, certe volte riempiono: sono vuoti colpevoli, e infliggono attese che si traducono in viaggio; come quando un padre lascia solo il figlio, e il figlio segue il padre di soppiatto: il suo è un padre artista, e dà la vita a statue improbabili, statue senza respiro delle quali ha cura più che di chi lo ama di un amore senza regole e giustizia, soltanto in ombra e da lontano, pure sapendo che è tardi per tutto.
 
Ai Tulipani di Sylvia Plath si accosta il racconto intitolato Intorno alla Cara Moribonda.
 
«I tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda com’è tutto bianco, tutto quieto e innevato.
Sto imparando la pace, da me quietamente posando
come posa la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
lo non sono nessuno; non c’entro con le esplosioni.
Ho dato il mia nome e i miei vestiti alle infermiere
e all’anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo».
 
La protagonista del racconto potrebbe avere uguale la voce e la febbre sottintesa, la fame che non si placa: il letto è trappola e limite, e intorno gravitano piccole figure amorose come satelliti in uno spazio sconosciuto. Amori che si affermano, più o meno familiari; amori che tornano da lontano e trovano invariata la sola indifferenza. Sono tutti soli ancora una volta, stipati dentro una stanza che rileva ogni parte residua di mondo: il resto accade fuori, e vivere con amore è un lusso. Qualcuno dice: «Le cose che non so mi pesano addosso come una tonnellata d’acqua». È l’ennesima voce inquieta, sensibilità alla deriva, fiducia e sfiducia riposta nelle mani instabili di un’incognita abusata quando bisognava sopravvivere ai propri fantasmi.
Sul mosaico dei racconti di Gina Berriault, spicca la figura di Anna Lisa e del suo naso, che tanto ricorda le vicende di Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria, ma tutto al femminile: la scoperta del difetto insopportabile, un naso che pare una gobba, una proboscide, un palese impropero, uno scherzo del destino da rinnegare e sistemare a dovere. E poi la risalita e la discesa ripida, il dubbio, l’identità accostata, scissa e riallacciata a una sola parte corporea che gioca il destino di una e più persone, scombina gli amori, ritorna indietro su passi ormai lontani e mai si stanca.
E anche qui, lo sguardo dell’autrice è compassionevole: Gina Berriault perdona le bizzarrie delle sue creature, arriva addirittura a incoraggiarle tra le righe. Accoglie con sguardo magnanimo le cadute, la stizza, le proteste chiuse nei pugni stretti come fanno i bambini. Scalda con le parole la parte di letto lasciata vuota da tanto. Dice che pure noi siamo un’isola, come quei letti spersi. Siamo tutta la stanchezza che ci porta a distendere su quelli le membra nervose, ad affidargli il nostro sonno. Apparteniamo ai risvegli infreddoliti, riposati, lenti; agli spazi condivisi con pochi, ai letti scomodi come le abitudini altrui, quando non incontrano la voglia vera e viva di incontrarsi con le carezze e molto oltre. E ogni racconto suggerisce che occorre amarsi sopra i letti ogni volta che si può, coi verbi declinati al presente e le forme imperfette e leali di ogni umana esistenza.


lunedì 20 luglio 2020

Storie dal Pianeta Esse




Il pianeta S9 non ha mai un nome fisso: nove sono le volte in cui lei ha incontrato lui, non vuole mica scordarlo, e allora torna comoda quella sigla: combinazione ovvia e fatale dell’iniziale di un nome caro di persona non comune, affiancata a un numero che conta per avanzare e non alla rovescia, i momenti fatali vissuti tra i due per disperazione e incanto. Fatali perché pensare a ciò che divide con lui le toglie il sonno e prima o poi lo sa, morirà di sospiri: troppo vento quelle voglie, piccoli mulinelli a roteare e creare vortici affamati. Solo ieri gli incontri con lui erano sette, poi una volta sveglia più una in sogno lui l’aveva portata con sé sulla scia di terreni sabbiosi, desertici, tra fiori in campana e stelle nell’incavo del gomito: stelle piovute quasi al suolo, rimaste a galleggiare a un paio di spanne dal punto più basso che c’è, aggrappate a una gravità venuta a strati: per terra non c’era, poiché serviva pestare i piedi per la rabbia e per le danze; solo all’altezza dei polpacci l’aria si riempiva di piccole bolle dense che solleticavano la pelle assetata. Bere si poteva, ma solo quando un satellite-brocca passava di lì col suo carico di liquidi senza nome dai colori fluorescenti perché uno ha sete pure la notte e deve poter vedere cosa beve, in quale punto: sul pianeta S la notte è proprio buia ma di un buio fitto, buio di inchiostro a scrivere parole uscite a fiotti tra i denti digrignati, a bocca spalancata e braccia aperte fino a non poterne più. La parola amore ha forme di petali, grandine e pistilli: il pesto d’amore è un boccone prelibato per chi ha fame di carezze, di febbre e letteratura; e per chi dorme su un canovaccio per non sciupare le cataste di libri-materasso venute da galassie lontane per sopravvivere ai roghi dell’oblio.
Tra i due abitanti e mezzo del pianeta S9 compare una donna. Ha piedi esili affondati nelle pozzanghere chiuse a ellisse intorno ai suoi passi: bacino di fortuna ricavato dalle stelle piovute e presto addentate come frutti dal sapore ancora aspro a colare sulle braccia, a disegnare sulla bocca un’arsura nuova. Tra un morso e l’altro le guance si fanno creste d’onda, rilievi ondulati a sbucare tra ciocche di capelli dritti come spilli: la sorpresa lascia il posto a un’abitudine schiva che resta acquattata tra particelle di sapori discutibili appuntate alle papille gustative: un gusto inatteso e infatti loro protestano pizzicandole la gola per un pezzo.
La simmetria delle stelle smezzate recuperava l’interezza perduta in un baleno: tornate intere, correvano via. Le si sentiva ridere da lontano mentre la gravità dispettosa si faceva leggiadra e a zigzag lungo i fianchi, così che a volte capitava che si provasse come una specie di prurito, un pizzicore che se prendeva era così buono: smorzava le temperature glaciali dell’estate, perché nel pianeta che adesso era S21, le stagioni erano da prendere all’inverso e avevano durata provvisoria: oggi l’inverno dura sette battiti di mani e ottantuno giravolte; domani chissà.
Era S21, il pianeta, perché dall’ultimo loro incontro erano trascorsi sei baci furtivi, due carezze insistenti, tre gocce sulle dita, un abbraccio lungo da stancarsi.
 
S21 non aveva cartelli segnaletici, perdersi era pur sempre una forma ritrovata dell’arte smarrita, sbiadita, e bisognava custodirla con puntiglio. S22 rivoluzionò la tratta delle stelle, dei due abitanti e mezzo, del sole d’arancia e della luna-dente-di-leone: chi non poteva trattenere a lungo il respiro soffiava verso lei le speranze perdute, che venivano restituite in forma di enigmi: un calamaio, la punta di una freccia, una sola scarpa di cuoio, un bottone, un ritratto di signora con cappello, le pedine di un gioco senza supporto e senza regole e dei gessetti colorati che andavano bene pure per dare rossore alle gote e chiarore allo sguardo. Chi risolveva vari e astuti dilemmi, riusciva a debellare per un istante o due l’oscurità in petto e vedeva chiara ogni insonnia, ogni freddo abbandono: solo così poteva porvi un rimedio preciso, catalogare l’esperienza e poi scordarla per ripetere ancora gioie e dolori, con un vigore che non temeva di essere scalfito.
Le direzioni tracciate come novità lampante tra i sentieri ostici di S22 erano date da scampoli di lettere disseminate a sorpresa da lui che guardava lei con languore buono come certe fragole, come certe favole.
Su uno si leggeva: amami più che nell’altra vita. Su un altro le veniva chiesto di scegliere tra due odori e subito quelli comparivano: bivio insolito da percorrere in un verso o un altro, con sorpresa finale.
Il mezzo abitante intanto stava a guardare: sarebbe venuto dalla pancia di lei, tonda abbastanza da contenere un’esistenza inventata di sana pianta. Ma al momento era appena una mezza pianta da un germoglio intero, strana formula che risultava da due interi senza patria né destino che avevano ricordi almeno millenari da districare come nodi tra i capelli, e scorie sbriciolate e arrotolate come perle insolite: venivano dall’altro mondo e non avevano più alcun potere distruttivo, cingevano un dito come una fede senza eroi, senza credo, senza tempo. La preghiera ricondotta a quel cerchio pallido era sempre una e ripetuta infinite volte: torna da me, torna qui. Torna da me. Torna, per favore. Parevano tante cose ma volevano dirne una sola. Allora il mezzo abitante capiva l’urgenza e spariva coi gesti rapidi di chi si intimidisce e sa bene il pudore, non serve che glielo spieghino. Sparisce perché sa come si fa: da dove viene lui è tutto lattiginoso e colorato, a seconda della piega che prendono le cose per chi è nato in un tempo che non trova ancora una collocazione precisa: per fare nascere una vita non si può mica improvvisare tutto. Non si può essere certi che non vi sia almeno un minimo sostentamento e amore in dosi proprio grandi. Perciò una voce cavata da un punto indefinito chiedeva tutti i giorni in fasce orarie prestabilite: sei pentito di essere nato? E mezzo essere dalle fattezze maschili faceva segno di no, diceva voglio nascere ancora fino a che nascerò l’ultima volta e non si potrà più tornare indietro.
Sei pentita di essere nata? E un’altra mezza figura dalle fattezze femminili sorrideva, sibilava un mai corposo e invincibile, e aggiungeva ne voglio ancora, di questa vita qui. La fila di mezzi esseri era lunga, non si vedeva una fine. C’era pure un’area ristoro: ci si poteva accomodare su una foglia e dormire il sonno degli esseri compiuti; oppure ripulire vaste aree desertiche venendo ripagati con piccole anticipazioni sulle esistenze possibili, così da decidere se davvero non valesse la pena di restare mezzi, confinati in quel limbo di leccornie e colori pastello.
 
Su S39 intanto, era calato una specie di sipario: i due abitanti erano intenti a rincorrersi senza essere visti da nessuno che avesse avuto mai in corpo un solo cenno di respiro, di parola, di volontà di azione. Era tutto casuale, tutto animato ma incapace di comprendere fino in fondo cosa stesse accadendo.
Un guanto intercettato in dimensioni pescate a sorte in un gioco tra accaniti scommettitori di bazzecole, cinque poesie inedite urlate dentro un buco tra galassie rattoppate dall’ultimo dei naufraghi, quattro grotte costruite coi gusci di chiocciole rubati a un mercato nero senza venditori, cinque steli di margherite e due rapide occhiate al boudoir di una dea decaduta da un paio di ere geologiche, segnavano adesso l’incontro perfetto dei due abitanti del pianeta S in attesa di una mezza creatura che sarebbe venuta chissà quando.
Sorpresa volle che il tempo che già si misurava strano fece uno stridio e poi rallentò clamorosamente. I due si trovarono a rilento, si amarono a rilento: sei battiti di ciglia prima di poter dire una sillaba, quindici battiti per i polpastrelli premuti sulla pelle altrui, come una promessa. Trentacinque battiti di ciglia e uno sguardo sostenuto a due senza remore, perché lei schiudesse le cosce e avanzasse un sorriso sbilenco: invito taciuto e più che loquace.
I doni raccolti a casaccio come la strana collezione che erano, si potevano scartare poi; e proprio quel poi segnava la ricchezza suprema, il dono ineguagliabile: avere un dopo che rimandi il presente per il gusto dell’attesa, è capire il tempo che serve per fare progetti, per venirsi addosso, per prendere le distanze e calcolare bene gli affondi e gli assalti: alla vita come al corpo, in ogni tempo e mondo; e per tutte le mezze esistenze e le esistenze intere, possibili e impossibili.




martedì 14 luglio 2020

Il Tempo che Resta




Vi sono libri tersi, libri d’acqua, libri di conchiglia da ascoltare ad occhi chiusi, poiché l’eco delle storie narrate continua in mente anche a lettura ultimata e produce suoni: echi in aggiunta agli echi, similitudini piovute tra le note di una canzone senza argini. Trovo una mèta perfetta in Flatlands: crocevia e metà perfetta di direzioni multiple, spartane, così impazienti di toccare un punto e un altro opposto in sequenza immediata e impossibile, se la distanza da coprire va di pari passo coi ritmi del corpo. Le parole superano gli ostacoli, quando alleviano e completano: sono medicamenti necessari senza controindicazioni.
Mark Lanegan e Chelsea Wolfe cantano piano mentre io scrivo: le note si dilatano, prendono la forma dei sogni ad occhi aperti e trovano intatte le pieghe e i risvolti già percorsi tra le pagine scritte da Michelle Grillo ne Il Tempo che Resta (Alessandro Polidoro Editore). È un canto a due voci anche il racconto, eppure gli spazi e gli eventi narrati conoscono intrecci differenti, punti di vista molteplici ma non efficaci come quelli della protagonista che narra in prima persona i colori della colpa, del bisogno, del volere negato ad oltranza lo stesso destino consegnato a chi non vuole saperne di concepirlo; e tuttavia deve sottostarvi, trovando nutrimento nella mancata generosità di una sorte avversa.
La protagonista è Anna: ragazza e poi donna; Anna nel presente e nel passato, Anna arresa all’amore vissuto forse dagli altri perché il bene la sfiora soltanto con un tocco distratto, e la dimentica presto. Per lei nulla dura, nonostante il rosso fragola delle voglie da addentare; i baci disegnati nella fantasia, nella realtà rispondono appena a un rosa pallido, il rosa che ha la pelle quando non è impastata col sole, diafana. La rassegnazione ha un verde acido, e Anna la conosce bene quando per la prima volta le viene negata la possibilità di seguire ambizioni anche letterarie: quella dei sogni e delle visioni di sé proiettate in un mondo felice, sono rinunce alle quali farà presto il verso e l’abitudine; perché in famiglia bisognava essere pratici: la tenerezza svaniva in un turbinare di obblighi e piccoli gesti di intensità pari a un grigio pallido e fangoso. La notte era tanto scura da rendere semplice appuntare sull’orlo del cielo, ogni sorta di pensiero sfacciato. I vorrei non costano nulla, se saputi digerire al momento opportuno.
Così Anna cresce, Anna rinuncia, Anna percorre il giallo ocra delle strade al tramonto, di ritorno da scuola. Anna conosce il bene spaiato e troppo tenue delle amicizie a senso unico, le compagnie private della grazia delle condivisioni vere e profonde: compagnie dei giorni persi, delle lenzuola arricciate tra i piedi sui letti sfatti; letti come isole lontane. L’amore si scava nel corpo, si prende con forza, si lascia e si placa come quando si risponde ai morsi della fame ma non si capisce mica se quella è autentica e se si allaccia al gusto, all’umore, al vuoto che c’è dentro e fuori. Dentro perché fuori: le cause e gli effetti non sono sempre ovvi come si direbbe. E ne si può indagare la natura in molti modi, anche sbagliati, come quando Anna per sfuggire a realtà indesiderate si lascia amare di un amore sterile, a metterle in pancia un germoglio arido in partenza.
 
I want flatlands
Soft and steady breeze
Bringing scents of lined-up orchard trees
Dripping heavy with pears and dancing leaves
I want flatlands
Will you go there with me?
 
Si respira a fondo tra le pagine, la ricerca inappagata della semplicità narrata anche in Flatlands. Anelare il vento, la danza delle foglie, i contorni gentili di un luogo amato da tornare a percorrere; e la brezza leggera pure tra le ciglia, l’abbraccio venuto come un dolce assalto, alle spalle: cura da non temere e che non vede nascere in gola la protesta di ruggine di chi non sa lasciarsi andare.
 
«(…) Ci incamminammo tra gli alberi color autunno, calpestando un lungo tappeto di foglie dorate illuminato da chiazze di luce. Il vento faceva sbattere le falde dei nostri cappotti, asciugando le minuscole gocce di sudore sulle fronti. I respiri affannati si trasformavano in nuvole di vapore. Luca mi prese la mano aiutandomi nell’ultimo tratto roccioso. Poggiai il piede su di un masso e, tenendoci l’uno all’altra, arrivammo in cima, dove l’intera valle si aprì ai nostri occhi stupiti. Inerti dinanzi a tanta bellezza, incapaci di parlare, di dire anche un banalità, Luca ruppe ogni indugio cacciando un urlo fortissimo. Lo guardai svuotare i polmoni, mentre l’aria gli sferzava i capelli. Allora presi anche io una grossa boccata, strinsi i pugni lungo il corpo e urlai, più forte che potevo, a occhi aperti, per non perdere nemmeno un secondo di quell’immagine, con un’energia tale da far vibrare il mio corpo. Urlammo forte, come sulle montagne russe, e man mano sentii la tristezza uscire dal mio corpo, un flusso nero che tenevo sedimentato tra stomaco e polmoni».
 
Anna vive in disequilibrio costante, tra ciò che ha perso e tutto quanto avrà da perdere. E Michelle Grillo tratteggia la figura di una donna in pace e in guerra con sé stessa; una donna che segna il suo tempo nonostante tutto: donna da incolpare che freme sotto le spoglie di un’esistenza spenta a metà e lì cerca il senso, il filo ingarbugliato, la libertà pensata dentro stanze opprimenti; con un baluginio piccolo e grande al contempo a cui fare ritorno quando manca il respiro, unica immagine da evocare senza paura: casa senza mattoni, da abbracciare. Casa che porta il nome delle illusioni e che per definizione, per affetto, porta negli occhi e nei gesti ogni promessa di un futuro finalmente pieno e possibile.



venerdì 10 luglio 2020

Permafrost




Candida sera, fresca e lucida; e un silenzio pacificatore utile a contemplare i riflessi di un giorno smesso da breve e lasciato decantare come un vino buono in un calice impeccabile: vino rosso sangue, rosso tramonto diluito in vetro e impaziente come una speranza sotto scacco; come chi osserva, non visto, ciò che rimane delle vite altrui quando non recitano un farsa e finalmente si spogliano di obblighi, ruoli e deleghe assai poco convincenti. Le ultime ore del giorno si conciliano con una notte fragrante, e in quel buio segreto, buio di velluto, gli eccessi non li decide più soltanto la coscienza ma quelli si servono di un parametro da reinventare che contempla la prima persona singolare: io che non sono mai soltanto una; io che incontro gli altri e i punti di contatto possono pure essere discutibili. Io che è singolare ma generoso nel guardare e nel considerare, nell’esporre e spremere da sé stesso con ogni sano sforzo, il meglio che può darsi e dare.
Le vite di chi vive si guardano con stupore. Sono esempio, cura, confronto più o meno volontario. Sono fili allungati tra due punti distanti: fili invisibili da allentare a piacimento, poiché invadere non vale la pena nel gioco di chi osserva i gesti che sono una lingua e un linguaggio, spesso al netto della tenerezza da conservare e lasciare ricadere nello spazio degli incontri dolci, delle complicità, con inframezzi di morsi e parole piovute accanto al cuscino della persona amata; e sopra il cuscino, quando è tempo di dormire: Nottetempo, come l’omonima casa editrice che ricalca un rifugio buono per il Permafrost di Eva Baltasar e consegna al lettore una storia che prende slancio da una parte troppo umana, un eccesso bello e buono che segue con passi confidenti i tragitti scomodi delle disillusioni e del cinismo: parla con parole brutali, che pure danzano con leggiadria notevole tra le pagine; basta usare un minimo l’esercizio dell’immedesimazione per capire che ogni proposito è stato maltrattato, buono o cattivo che fosse in principio. E va bene, vanno proprio così le cose quando ci si ritrova alle prese con una sensibilità alta e l’abilità di percorrerla coi modi più autentici, senza temere le reazioni altrui a ogni passo, ad ogni respiro.
 
«Mi sono collocata in un limite, ci vivo dentro, aspetto il momento di abbandonarlo, questo limite, la mia dimora provvisoria. Provvisoria come tutte le dimore, infatti, o come un corpo. Non assumo farmaci, la chimica è una briglia che trattiene, ci fa avanzare a passo inoffensivo. Comporta una redenzione anticipata, allontana dal peccato o forse, solo, insegna a chiamare peccato quell’esercizio della nostra libertà raggiunto in uno stato di pace – prima della morte, ovvio. Mamma prende le medicine, papà prende le medicine, mia sorella all’inizio no, poi sì, è diventata grande e l’ha capito. (…) Medicine: che bel rimedio. Tuttavia, non è il mio, meglio avanzare, selvaggia, sino al limite e poi decidere. Alla fine scopri che il limite si lascia vivere, verticale come non mai, rasente il nulla, e che non solo è possibile viverci, ma anche crescerci in tanti modi diversi. E se tutto sta nel sopravvivere, probabilmente la resistenza è l’unico modo per vivere intensamente. È ora, in questo limite, che mi sento viva, viva come non mai».
 
Una donna adulta narra la sua storia; lei stessa appartiene a quei racconti presi per frammenti, incollati come si farebbe con un vaso rotto: un vaso importante, come gli oggetti che non sono mai soltanto oggetti e foderiamo con una parvenza d’anima, con ogni ricordo e una speranza sempre verde che si avveri ancora almeno un frammento di tempo già vissuto: passato, svanito e desiderato ancora.
Si assiste così al dipanarsi di una trama contenuta nell’assenza: poiché tutto è vuoto e tutto si rincorre, e si declina in ogni verso e con ostinazione un disperato bisogno di calore, che però non si dice. Dire è superfluo, dire è maschera e finto consenso. Le ammissioni passano per la sorpresa, per gli affetti imprevisti, rari, ma così forti da fare impallidire i tentativi solo abbozzati e programmati alla lontana, di porre fine alla vita per dare una piega definitiva che sia frutto di una scelta consapevole, all’esistenza di chi si lascia a malapena trascinare dagli eventi. Morire sarebbe una risposta netta, in quel caso. Sarebbe come dire che uno decide per sé almeno una cosa macroscopica, dopo mille rinunce e altrettante imposizioni.
Le cose liete sono piccole, infinitesimali, disseminate tra le righe con fare quasi casuale. La corazza assorbe bene i colpi imprevisti: il fato è un vecchio giocoliere dato in pasto all’indolenza e alle costanti invasioni di una figura materna che non conosce la pratica gradita di chi sa tacere per comunicare meglio l’essenziale. Lei non sa godere delle piccole cose: ciò che conta è apparire fiera, agile, perfetta, magari un pizzico sottomessa, come fa la seconda figlia, la sua prediletta: diventata presto madre e moglie, non è che un piccolo automa incapace di dare ascolto al proprio istinto e a una natura intima e benevola.
Attraverso quelle lenti distorte, tutto ciò che non soddisfa i criteri altrui confina coi territori aridi delle mediocrità e resta indesiderato, dimenticato, sullo sfondo dei giorni vissuti con la meccanica del dovere.
Le pagine scorrono senza attriti; e non disdegnano i risvolti amari stipati dentro un nucleo familiare astruso, paradossale, gelido. Il cuore batte pure sotto la metafora azzeccata di uno spesso strato di permafrost; batte e sputa sangue caldo che irrora i pensieri e scalda le mani a conca su seni di donna: forme morbide, addentate e contemplate, pregne di un calore liquido e fuggevole. Non si può abusare neppure della parola amore: bisogna lasciarla ai fortunati, ai coraggiosi, fare pace col fatto che forse la si sognerà sempre, restando in debito costante di meraviglia e di sconfinato affetto. Ma col buono che c’è, col buono che resta, ciascuno avrà la propria forza ornata di piccoli e grandiosi ritagli di conforto e di stupore, a spezzare alti strati di fredda e inospitale diffidenza.












sabato 27 giugno 2020

Il Regno degli Amici




Lasciare il rumore al rumore e ad ogni rumore un suono: realtà due volte opposte e complementari. Placare la forza che viene da fuori a distrarre e sapere le cose che bisogna fare nell’immediato, spillate a una finta noncuranza e allungate con mosse oziose come le file indiane dei bambini. E poi mani appiccicate alle mani, nasi all’insù e occhi puntati lontano, a far sbiadire gli orizzonti. Infilate nel nascondigli propri dell’oblio, le lunghe e disordinate liste di cose da fare stilate controvoglia e scordate in un cassetto: le cose pratiche, finite e solo utili, talvolta sono brutture proprio misere davanti al bello che c'è. Solo i condizionali sono desiderabili. E le supposizioni. L’imperfetto è per gli adulti, il futuro semplice è per gli anni che ancora restano protetti e liberi sul serio. Il futuro anteriore pare uno sgambetto, una cosa acchiappata tra i banchi di scuola solo perché serviva ripeterlo ad alta voce, borbottarlo, appiattirlo in un suggerimento mimato al compagno di sventure con la bocca e con le mani in un alfabeto muto e di soppiatto, per riuscire a saltare l’ostacolo delle temute insufficienze e andare avanti. Si recitava ad alta voce un verbo, una coniugazione italiana, latina, una lingua straniera: il piacere della scoperta ha un sapore tutto nuovo nell’adolescenza che è un’età che appare fresca d’infanzia e non più infantile.
Ma volere assaggiare ogni cosa con grande impeto, non è mica detto si fermi ai soli anni che portano il numero uno davanti, che è come una specie di diga, una linea verticale con uncino, che corre prima del due che fa il dodici e del tre panciuto dei tredici anni; a quattordici anni il quattro si siede e accavalla una gamba per vedere un po’ quello che si è combinato nel fragore dei tanti giorni alle prese con le prime volte intese in senso largo, avventato e imprevedibile. Poi viene il sei che è molle. Diciassette è quasi agli sgoccioli, diciannove occhieggia: la diga del numero uno sta per crollare. Il due dei vent’anni ha il collo lungo delle giraffe, vede le cose dall’alto per tuffarcisi meglio.
 
Tuffarsi, ora che è estate. Tuffarsi nelle acque in solitaria, saltare ad occhi chiusi dentro un tempo pigro, dilatato; tempo di cose da poco. Tempo che è facile nel silenzio di certe ore accarezzare un libro, prenderlo con mani salde e un contorno di presentimenti buoni: era estate ne Il Regno degli Amici di Raul Montanari (Einaudi): estate radiosa, estate da sudare l’anima dentro un pensiero ripetuto cento volte in pochi istanti, lì dove c’è lei che è amore, prima ancora che l’amore si formuli. La ninfa della Martesana, la pescatrice: non ha ancora quattordici anni quando sceglie di adottare un sentimento di fiducia verso cose e persone sconosciute, a piccole dosi, convinta che nulla le si ritorcerà mai contro. La bontà delle visioni integre, fertili, andrebbero serbate intatte nel cuore dei giorni e degli anni, e invece si sgretolano pian piano e dopo un po’ pure in silenzio: si perde tanto senza neppure saperlo; nel vedere una crepa verrebbe voglia di porvi rimedio, e si rattoppa l’errore finendo poi col coprire un guasto con altri guasti.
La ninfa dai capelli lunghi e gli occhi verdi dal nome smilzo come gli anni, si avventura nei territori di una Milano vista di lato, nell’ombra, lontana dalla calca. Il suo nome è Valli, e lei stessa lo impara con felicità rinnovata da voci amiche. Del resto sappiamo il nostro nome da quando abbiamo memoria, ma lo apprendiamo con vigore allegro e sorprendente quando qualcuno lo affianca con musicalità insperate e con affetto, a un’identità più o meno acerba.
Valli sente di appartenere al suo stesso nome e a chi lo usa, e dunque a un Demo venuto per abbreviazione, sbucato dal nulla: ragazzino timido dagli sguardi audaci, col rossore delle voglie e delle insicurezze impastato con le parole buone per dissimulare, avanzare, promettere, raccontare; e poi scrivere, invitare, tacere, con la bocca deliziosa quando è per i baci; e vivo, sbigottito, quando la voce muore in gola e rinasce in un sospiro per il peccato che viene solo quando non si ha tenacia e fame per desiderare con forza: è cruciale e clamorosa la bellezza di chi si scopre a chiedersi fra i denti dove fossero stati mai fino ad allora, la grazia e lo scompiglio; e la smania di due corpi ancora incerti che si cercano e respingono per un istinto scherzoso, agitato. Demo e Valli si amano senza sapere l’amore, restano nei dintorni delle mani, delle cosce, del sesso da sperimentare; traggono bocconi rapidi dal poco tempo che trascorrono in solitudine, lontani da un gruppetto di amici che si direbbero pronti a tutto per difendere un angolo di paradiso, lo stesso Regno che dà il titolo a un libro dall’impronta salda e incantevole: una casa nei pressi di strisce d’acqua limacciose, coi pesci buoni per la pescatrice che dorme sopra un albero, e per il ragazzo con un tic soffiato tra naso e mugolii a bocca chiusa a spezzare i discorsi, certe volte, ma non il suo sguardo acuto su situazioni e persone: uno sguardo spoglio di preamboli.
Poi c'è un profeta senza pulpito, un profeta per gioco con pezzetti di religione presi per contagio da una famiglia stretta; lui si rintana in casa e poi fugge, torna al Regno con gli amici e con la musica, amica anch’essa, pronto a prestare traduzioni sghembe ai pezzi rock cantati e suonati in gruppo per finta: è vera l’energia, però, tra i Talking Heads e Jimmy Page: Whole Lotta Love è il pezzo forte, il pezzo di apertura, l’inaugurazione di una casa tutta per loro. Sono vere le smorfie, la gestione del respiro che al cantante vero non mancava mai; semmai quello si trovava a grattare la gola con gli ultimi residui di voce, e allora tutto era più carnale e autentico, per forza.
Il profeta somigliava in altezza a Fabiano. Fabiano il belloccio, Fabiano che si perde in fantasie scure e in pensieri di morte ad annebbiare lo sguardo, ad anticipare un futuro infausto tratteggiato appena alla fine di serate dedicate alle baldorie di un’estate afosa e forse ultima: vi sono eventi che una volta oltrepassati segnano una fine senza appello. E nel migliore dei casi a quella seguiranno degli inizi non voluti, inizi a sorpresa, destabilizzanti. È proprio questo il gioco della vita: una promessa mantenuta e il dolore appreso in mille forme; dolore che annienta anche se diviso con altri, a prescindere da colpe e responsabilità.
 
Raul Montanari inventa, segue e rimarca un profilo non sempre dolce per ciascuno dei personaggi e delle vicende confidate a un libro che a sua volta consegna al lettore una malinconia sottile e un sorriso agrodolce, quando tutto finalmente si svela per ciò che è, e per quanto è stato. L’irreparabile resta tale, ma una scia sottile luccica sullo sfondo di visioni non proprio nitide, certe volte. Offre un riparo alle membra stanche, e una possibilità di risanamento per chi prima o poi si spezza e si ricuce partendo da uno strappo profondo. Alla fine gli anni ammonticchiati sulle spalle si riveleranno fugaci e leggeri, almeno per un momento. E sarà ancora estate nei sogni ad occhi aperti, nelle voglie accese, nella fine priva di superlativi; e adattata, smussata, recepita con occhi e maturità nuove. E nonostante tutto, bella da crederci a stento.






giovedì 18 giugno 2020

Avenida Libertador




Non li ha inghiottiti la terra. Era l’aria?
Come le arene del mare innumerevoli; non in arena
però conversi ma in nulla. A schiere
dimenticati. Spesso e di mano in mano,
come i minuti. Piú fitti di noi
ma senza ricordo. Non registrati,
non decifrabili nella polvere ma scomparsi
i loro nomi, i cucchiai, le suole.

Noi non li compiangiamo. Non può nessuno
rammentarsi di loro: sono nati,
fuggiti, morti? Dissolti
no. È senza lacune
il mondo ma lo tiene insieme solo
quel che non l’abita piú,
coloro che sono scomparsi. Essi sono dovunque.

Senza gli assenti, nulla ci sarebbe.
Senza gli esiliati, nulla sarebbe saldo.
Senza gli incommensurabili, nulla di commensurabile.
Senza i dimenticati, nulla di certo.

Gli scomparsi sono giusti.
Cosí anche noi in un’eco.

 Hans Magnus Enzensberger


Leggere significa trovare tra le parole un respiro nuovo in ogni istante. Scomparsi i loro nomi, i cucchiai, le suole: resto imbrigliata in questa frase dalla musicalità stanca, avvolgente per difetto, mai arresa; e ogni volta ha un’eco diversa, un’ombra sottile lì dove prima era tutto forma e calore.

Si può disegnare un’assenza con toni leggeri, appena percepibili; eppure quella è un male netto e senza cura che dilaga, preme e non dà sollievo.
Assenti sono i desaparecidos che racconta Cristina Amato in Avenida Libertador (Divergenze edizioni): esistenze sbiadite loro malgrado, ma non nel ricordo di chi si adatta ai giorni svuotati degli amori che sapeva e che sa ancora nel tempo presente, pure col bene dell’appartenersi privato di ciò che è vero, tangibile. Le parole usate per dare corpo a ciò che scolora sono tenaci, forti, restituiscono una voce a chi ormai non ne ha e una giustizia almeno ideale, a dare un conforto pallido e carezzevole a chi legge e immagina, e a chi ha vissuto una tale e ingiusta privazione. A fine lettura resta l’immedesimazione e non la certezza del sentimento; e non è poca cosa, se si pensa che i nomi sono fittizi, e i personaggi rivelano il loro valore di persone pure restando imbrigliati nei confini agrodolci dell’immaginario. Si ama Tamar: giovane donna astuta, coraggiosa e volitiva, che non teme la forza del pensiero anzi lo innalza, lo porta avanti e ben oltre lei stessa. Lo porge senza ritrosie a chi teme la libertà di espressione, riflessione e scelta; perché insieme per alcuni non è che un sinonimo di identico, comune, piatto e dunque facile all’esercizio sterile del controllo da opporre a una spontaneità che invece culla Tamar, la identifica.
L’identità converge anche nel nome e nel cognome: quello di Lucas Tizak è molto caro a Tamar. I due coltivano un amore che prende slancio dalla diversità di carattere: uno schivo, l’altra esuberante. E imita i colori di Buenos Aires come in un fermo immagine: è il 1978 e l’atmosfera è densa di contrasti; da un lato la forma squadrata e gelida della dittatura militare e dall’altro la febbre sottile e vibrante dei gruppetti di tifosi in attesa dei mondiali di calcio.
Lucas come tanti, viene rapito. Occorre scoraggiare le iniziative ragionate, fiere: la ribellione è da ostacolare col mutismo, e quello va indotto in ogni modo. Chi mostra di saper scegliere ciò che è giusto per sé, si discosta da un insieme e va riportato nel gregge.
Alla purezza di Lucas che lotta contro sé stesso finché può, pur di tenere in salvo chi ama, va contrapposta la micidiale freddezza di chi davanti ad azioni ignobili e disumane non batte ciglio; di chi non sente il male addosso, neppure per associazione: come accade a chi deve avere negata l’infanzia e qualcosa, una sorta di meccanismo rotto, inceppato tra lo sterno e la forma dissolta dell’anima.
Tra le pagine si delineano le figure di una madre-scoglio, madre fiume; della sorella di Lucas che quasi sbiadisce insieme al fratello, pure essendo combattente e combattuta. Il padre del ragazzo che si segue da vicino per l’intera vicenda, è una sola briciola davanti a una montagna di dolore. È il bambino vero, e non importano gli anni sulla schiena, la barba sul volto.
Si incontrano e non si dimenticano lunghe lettere che trovano risposta solo in mondi paralleli; un figlio veste i panni di colui che lo ha messo al mondo, una bimba con due nomi e una sola identità, una donna col ventre dolorosamente vuoto, e un libro interrotto per sempre a pagina dodici. Poi il cammino stanco ma felice di chi ritorna sapendo che nulla apparirà come alle origini. E si sente nascere due volte, mentre porta con sé il peso dei ricordi cari e voluti, e non rinnega gli episodi marci, poiché spera di ricavare da quelli una memoria rafforzata e indelebile.




martedì 16 giugno 2020

Intervista ad Alessandro Bastasi




Maciniamo passi e racconti, sotto i piedi e sotto pelle; siamo libri aperti e chiusi, la nostra storia trapela dall’inchiostro indelebile del ricordo, della testimonianza: siamo questo cielo blu che resiste alle offese dell’incuranza; gli alberi alti e nodosi col tempo da contare sugli anelli e rilievi da percorrere in punta di dita: rughe sulla corteccia come in un volto amato. L’arte ci fa discutere e incantare, conserva le visioni anche emotive dell’evolversi. E vi sono storie annidate dentro migliaia di altre storie, piene di tanta meraviglia oppure sofferte, che a contarle verrebbero le vertigini e una strana soggezione: certe volte si vorrebbe comprendere il mondo intero in un secondo, senza essere capaci di ammettere e capire sé stessi, pure contando molti indizi.
Di indizi e conoscenza, di storie interrotte e in perpetuo affanno si trova un ampio e avvincente riscontro in La Scelta di Lazzaro di Alessandro Bastasi, edito in formato eBook da Meme-Publishers e in versione cartacea da Divergenze.
La curiosità non ha risparmiato me e lui che ringrazio molto, per ogni domanda venuta dalle sue abilità narrative, per gli argomenti trattati che ho divorato. E per le risposte che ancora mi portano a quanto ho da scoprire e approfondire.
 
Hai una scrittura dinamica, quasi fotografica. La tensione, il ricordo, la sorpresa, hanno pause differenti e luci che piovono sulle parole con impeto o lenta agonia. Più volte fai riferimento al cinema: dal Citizen Kane di Orson Welles a Giulio Bonsignore, un personaggio del tuo libro che fin nei primi cenni indichi come "l'inquilino del terzo piano", che tanto ricorda l'omonimo film di Roman Polański.
Potessi affidare La Scelta di Lazzaro a un famoso regista, escludendo i già citati, quale sarebbe?
 
In effetti spesso nei miei romanzi faccio riferimento al cinema, esplicitamente o meno. Ad esempio il personaggio di Bonsignore, oltre a "L'inquilino del terzo piano", ricorda il protagonista de "Le vite degli altri", di Henckel von Donnersmarck. Ma più di tutti per questo romanzo sono debitore a Liliana Cavani. Come ho scritto nelle note dell'autore in postfazione, con "La scelta di Lazzaro" il mio obiettivo era di proporre una riflessione sul periodo della lotta armata e soprattutto sul “dopo”, visti dal punto di vista di un ex militante di allora e di personaggi che con lui, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, avevano avuto a che fare. Ma non riuscivo a definire il taglio più consono, finché non ebbi l’occasione di rivedere “Portiere di notte”, un film del 1974 della Cavani, appunto, che metteva in scena l'incontro, dopo tanti anni, di un ex ufficiale nazista con una donna ebrea sopravvissuta al lager in cui era internata. Fu una folgorazione: adesso sapevo come impostare la mia storia, e soprattutto ne conoscevo il finale, l'unico in grado di liberare i due protagonisti, Lazzaro e Barbara, dalle morse di un passato che apparteneva soltanto a loro.  Per questa ragione forse affiderei a lei, nonostante i suoi 87 anni, "La scelta di Lazzaro"; oppure a Gianni Amelio, che il tema della lotta armata, da un altro punto di vista, l'ha trattato nel suo "Colpire al cuore" del 1983.
 
Il tuo romanzo è costellato di episodi che danno un ritmo agile alla narrazione. E sono tutti mossi da un'energia che non si dissolve e non cade mai nell'eccesso. Lazzaro e Franca condividono un momento di lunga tensione: la forza rivoluzionaria che scelgono e usano, non ha sesso. La donna si discosta dall'uomo per un soffio. E avanza con gesti forti, esasperati e mascolini, col corpo nervoso e fiero; solo il passato e la memoria di Lazzaro conservano i momenti passati insieme a lei che pure sapeva riservagli premure vellutate, pacate.
Franca resta pensosa, decisa, sottile; e la sua condotta prende le parti di un concetto espresso dall'ex brigatista Adriana Faranda: "Camminare al margine di una società che non amavo, sottrarmi alle sue norme e ai suoi luoghi per andare a cercare un piccolo spazio tutto mio nel quale dividere con pochi altri i miei ideali, mi sembrò ben presto una prospettiva perdente, misera ed egoista".
Come con Franca e Lazzaro, occorreva servirsi dell'azione, delle armi, e non più delle forme pacificate del compromesso e della mediazione, per ottenere alternative valide ai mali politici e sociali del Paese.
In che modo i tuoi personaggi intendono la rivoluzione? E quest'ultima arriva mai a coincidere con la perdita di dignità, quando subentra la paura? 
La tua, di memoria, in che modo rivive quegli anni?
 
“Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana.”  Così ha scritto Erri De Luca. La rivoluzione per Franca e Lazzaro è questo: scendere nell'Ade per liberare Euridice. Darsi una missione e portarla fino in fondo.  Erano i leoni, gli artefici della potenza della Storia. La Storia li avrebbe giudicato, non la Morale. Erano gli angeli che strappano i sigilli del Libro e scatenano l’apocalisse, erano i puri di cuore, che avrebbero liberato il proletariato dai ceppi del capitale. E certo, la paura esiste, è umana, ma si supera, senza perdere la dignità. Perché in Franca e Lazzaro subentra la consapevolezza che stanno compiendo un’operazione strategicamente necessaria, e questo, nella loro visione, è l'apice della dignità. Il loro errore, e quello dei tanti che ci hanno creduto, è stato di non tenere conto fino in fondo delle condizioni strutturali in essere e di quelle che stavano maturando già in quegli anni: da un lato l’affermarsi delle nuove tecnologie che in poco tempo avrebbero scardinato i rapporti di produzione così come li avevamo conosciuti fino ad allora; dall’altro lato l’errata convinzione che le condizioni rivoluzionarie si sarebbero verificate radicalizzando fino alle estreme conseguenze lo scontro. Non comprendendo invece che il terreno del conflitto diventa fertile solo se nella presa di coscienza della natura classista della società l'élite rivoluzionaria riesce a coinvolgere le moltitudini. A questo aggiungiamo il velleitarismo contro un antagonista di classe potente e ramificato, grazie anche all’alleanza con apparati dello Stato e alle pressioni di paesi stranieri quali gli USA. Un antagonista che non ha esitato a mettere in atto una strategia stragista (questa sì di stampo “terrorista”) per combattere sul nascere i prodromi di una riscossa sociale iniziata con l’autunno caldo del ’69. 
Per ciò che mi riguarda, ripenso spesso a quegli anni, con la consapevolezza di un'occasione mancata per quella scalata al cielo che era nei sogni della generazione del '68. Anni totalmente rimossi, una rimozione voluta e imposta dalla politica, dai media, dai potentati economici, a destra ma soprattutto a sinistra, finalizzata a derubricare a mero fenomeno criminale tutto ciò che riguardava le vicende di quegli anni, come se fossero state un bubbone malato su un corpo sano. Non si è mai voluto, per scelta, addentrarsi in un’analisi puntuale e senza pregiudizi del contesto e delle ragioni politiche che hanno determinato la nascita dei movimenti armati. E secondo me ne stiamo ancora pagando le conseguenze.
 
Euridice dorme e farà di certo sogni d'arsenico. Mi torna in mente una versione del mito che porta l'impronta allucinata di Stefano Benni: «Io so che tu puoi guarirla, stregone. La mia ragazza caduta dal cielo, polvere di cometa sul mio tetto, lei che muove col pensiero le altalene dei giardini, lei che con uno sguardo dei grandi occhi bistrati gela il ghigno degli spacciatori, lei odorosa di fiori e nitrato di amile, Euridice, lei che ora è spenta, bianca, immobile nella nostra casa, dove tremano di freddo anche i ragni. (...) Io so che puoi guarirla stregone, anche se agli occhi del mondo lei è morta, troppa chimica, troppi libri, troppe notti da sola, quando io ero lontano. Così mi ha detto: si è sempre soli una notte di troppo».
 
Proprio questa frase: Si è sempre soli una notte di troppo, mi conduce alle donne inquiete, donne da amare confidate al tuo romanzo: sono forse loro la parte più energica e viva? Somigliano a qualcuno che ami o hai amato? Chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?
 
Hai colto nel segno, sono le donne la parte più viva ed energica del romanzo. Tutte e quattro, ciascuna con le sue peculiarità, la propria storia. Di Franca abbiamo già detto. Un amore tra studenti, all'inizio allegro e spensierato, poi diventato un legame di sangue, del sangue versato e del sangue proprio, dove non c'è spazio per l'amore a tutto tondo, la tensione è verso l'obiettivo, tutto il resto passa in secondo piano. Poi c'è Samar, che potrebbe essere un amore per Lazzaro se lei non conservasse dentro di sé la violenza di un passato recente, il vento mortale della guerra civile che le ha rubato prima il padre e poi la madre, se questo vissuto (anche lei, un vissuto di morte!) non la facesse tremare al minimo accenno di un possibile ritorno a quel passato, e, infine, se probabilmente lei non si fosse legata a Lazzaro per un riflesso inconscio riguardante la figura della madre, Afrah, forse l'unica donna che Lazzaro ha veramente amato. Ecco, Afrah. Personaggio minimo, dolente, riservato, che però giganteggia nel cuore di Lazzaro, tanto da accompagnarlo con la memoria nella sua lunga detenzione, durante la quale tutte le sere lui le dedicava i versi del Cantico dei Cantici (altra esplicita citazione cinematografica, da "C'era una volta in America" di Sergio Leone). E poi c'è Barbara, la vera antieroina del libro, anche lei legata al protagonista per fatti di sangue (sangue, ancora!), fragile e trasparente, determinata come una roccia, esile e dura, destinata a instaurare con Lazzaro un rapporto di odio che sfocia alla fine in una interdipendenza dei loro destini. Quindi, venendo alla domanda "chi come loro rincorre una completezza che forse confina a stento con l'illusione e l'utopia, saprà mai darsi amore?" direi che la risposta in generale è no, fatte salve situazioni eccezionali. Sicuramente non con un uomo come Lazzaro. 
E sull'altra tua domanda: no, nessuna di queste donne assomiglia a qualcuna che amo o che ho amato. Ho invece realmente conosciuto una Samar (si chiamava proprio così) durante una mia permanenza a Beirut nel 1994, ed è effettivamente stata la sua storia personale e familiare - simile alla storia della Samar del libro, purtroppo - a suggerirmi il personaggio che porta il suo nome. 
In fondo non sono che un ladro di storie.
 
Il viaggio è un punto fondamentale ne La Scelta di Lazzaro: ogni personaggio si trova prima o poi a ridefinire i confini interiori arricchendoli di visioni prese in prestito dalle terre conosciute, amate e rimpiante. 
I luoghi vissuti e non soltanto visitati, hanno un'anima. E l'anima dei luoghi dà senso alla persona e al suo più intimo sentire.
Qual è per te il senso del viaggio, fuori e dentro il tuo romanzo?
 
I luoghi hanno un'anima, questo per me è fuori dubbio. E in generale il senso del viaggio è esattamente questo: cercare di scoprirla e farsene tesoro, arricchendo se stessi e il proprio vissuto delle sensazioni, delle emozioni, delle suggestioni, dell'aura che emana da quell'anima. Ho viaggiato in molti paesi del mondo, dalle Americhe all'Asia, dall'Europa all'Africa, e ogni volta riflettevo su quanto sia inconcepibile il razzismo nel momento in cui vieni a contatto con genti altre da te, purché tu sia in grado di assaporare il profondo della Storia che le avvolge e non le veda con l'occhio del turista affamato di esotismo. C'è una bellissima frase in "Il tè nel deserto" che ricordo spesso: "Noi non siamo turisti, siamo viaggiatori. Oh! Che differenza c'è? Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, mentre il viaggiatore può non tornare affatto".  
Poi, a una certa età (la mia), subentra l'esigenza di un altro viaggio, quello interiore. Che consiste nel tentare di conoscerti per quella che è la tua essenza, in virtù di tutto quello che hai fatto, che hai vissuto, di quello che hai visto, dei luoghi dove ti sei fermato, delle persone che hai conosciuto. In fondo è quello che inconsciamente succede a Lazzaro, attraverso il rapporto con i personaggi che lo circondano, da Pietro Micca a Samar e soprattutto Barbara: acquisire quella coscienza di sé e del proprio destino che gli consentirà alla fine di fare la scelta giusta.
 
Quando si parla di viaggio, difficilmente non penso a Bruce Chatwin. Credo vi sia una filosofia del viaggiatore e una del luogo viaggiato, che richiamano arte e sentimento, letteratura, spirito di immersione e di sensazione. Per placare la voglia di sapere e di sapersi in ogni luogo, serve anche coraggio?
Lo saprà di certo il micio filosofo de La Scelta di Lazzaro: "il gatto è il più grande dei filosofi viventi", scrivi.
Tra le persone che Chatwin incontra nei suoi itinerari, tra le pagine di In Patagonia vi è un uomo di mare coi suoi diari pieni di scritte, di elenchi: «il carbone bagnato, le cimici nei letti delle locande, e i marinai che arrivavano a bordo ubriachi. (...) C'erano le facili ragazze della California; la sbrigativa giustizia dei tribunali; la banda di Beale Street che scolava barili di vino di Spagna in una barca, mentre Charley mangiava un tortino di zucca con la guardia notturna sul molo. (...) Ricordava Ah-Sing, il lavandaio cinese che spruzzava l'amido con la bocca; e i marinai cinesi col vestito della festa di splendide sete, che bruciavano bastoncini profumati al loro idolo, inchinandosi al sole mentre i paranchi passavano sibilando sulle loro teste».



La filosofia del viaggio, con e senza gatto, quale posto occupa nel tuo romanzo? I personaggi si muovono per fuggire o per scoprire? E soprattutto: il gatto di Lazzaro ha un approccio stoico o epicureo?


Il gatto è la filosofia. Nell'ultima pagina del romanzo Lazzaro apre la porta dell'appartamento per permettere al gatto di uscire: "L'accosto appena, quanto basta perché la filosofia possa salvarsi, correre libera anche dai vincoli dell'affetto". Se il gatto è la filosofia, è sia epicureo che stoico, in una sintesi cui solo lui può arrivare. Il gatto è atarassia, assenza di turbamento, ma è anche apatia, distacco dalle emozioni. Il suo fine, in quanto filosofo, è raggiungere la libertà, che per il gatto coincide con quella del mondo, a un livello quindi superiore rispetto a quella del singolo essere esistente. Il gatto è l'etica, l'essere nel quale Lazzaro rispecchia i propri convincimenti, i propri obiettivi, i propri comportamenti. Il gatto è il viaggio interiore, mentre per il Lazzaro della lotta armata, per Franca, Samar e Pietro Micca il viaggio è una fuga che per alcuni si risolve nella scoperta. Lazzaro fugge, braccato dalle Istituzioni, prima sui Pirenei, poi in Libano. Ma una volta a Beirut scopre un mondo, incarnato in Afrah, e scopre se stesso e la missione che si vorrà dare, quindi la propria libertà e quella del mondo, a partire dagli eventi di Sabra e Chatila. Ma anche Franca è una fuggitiva, anima tormentata, secca, bruciata. E Samar, che arriva in Italia per sfuggire alla morte, e Pietro, che vola in Brasile dove scopre chi è veramente, un mercenario che ha abbracciato la lotta armata per spirito di avventura, pronto a vendere se stesso e gli altri a chi gli propone l'ennesima scarica di adrenalina. L'unico personaggio per il quale il viaggio è un eterno ritorno, una drammatica coazione a ripetere, è Barbara: la sua intera esistenza è un loop che ritorna sempre al punto iniziale, per ripartire più intensamente di prima, per ritornare più rabbiosamente di prima. 
 
Barbara mangia e vomita, e poi ripete ancora tentando di placare un vuoto senza requie: pare uno spirito vestito a festa, un mucchietto d'ossa che vuole ogni cosa invano, senza sosta; donna dagli occhi taglienti come vetri rotti, in bilico sul ciglio di un'esistenza spenta da troppo tempo.
Lazzaro ravviva intrecci e vitalità passate solo quando abbraccia una scelta che fa capolino fin dal titolo: sappiamo che avverrà qualcosa, e abbiamo dunque il sentore e non la certezza della strada intrapresa. 
I vivi sono in fuga da qualcosa o da sé stessi, sono vigili, inquieti. I morti si lasciano ricordare, non sbiadiscono mai davvero nel tessuto del racconto.
L'amaro e giusto fine è forse il coraggio di chi intravede i propri mali tramutati in vizi, in sottili e invisibili catene, e non abbassa mai lo sguardo? E il lieto fine quando non c'è, in cosa si tramuta?
 
Il finale è dato dal coraggio di accettare di non esserci. Lazzaro e Barbara sono l’uno lo specchio dell’altra, hanno vissuto l’epoca del mito, lui quale artefice, lei quale vittima sacrificale. Nel momento in cui i ruoli si invertono, nell’istante in cui Lazzaro capisce che adesso è Barbara l’artefice del loro destino, lui l’accetta, il cerchio si chiude e così facendo decreta la fine dell’epoca del mito. Devono scomparire, non uscire più dal sepolcro, rimanere in eterno legati alle proprie icone, mentre là fuori il mondo procede a scatti, disordinato, irriconoscibile, un universo nel quale non c’è posto per i due. Un’altra epoca ha inizio. Potrebbe essere un lieto fine, che supera i destini di Lazzaro e Barbara. Ma non è. È l’alto medioevo, preda di barbarie vecchie e nuove, che deve ancora trovare la sua strada.