Storie dal Pianeta Esse
Il
pianeta S9 non ha mai un nome fisso:
nove sono le volte in cui lei ha incontrato lui, non vuole mica scordarlo, e
allora torna comoda quella sigla: combinazione ovvia e fatale dell’iniziale di
un nome caro di persona non comune, affiancata a un numero che conta per
avanzare e non alla rovescia, i momenti fatali vissuti tra i due per
disperazione e incanto. Fatali perché pensare a ciò che divide con lui le
toglie il sonno e prima o poi lo sa, morirà di sospiri: troppo vento quelle
voglie, piccoli mulinelli a roteare e creare vortici affamati. Solo ieri gli
incontri con lui erano sette, poi una
volta sveglia più una in sogno lui l’aveva portata con sé sulla scia di terreni
sabbiosi, desertici, tra fiori in campana e stelle nell’incavo del gomito:
stelle piovute quasi al suolo, rimaste a galleggiare a un paio di spanne dal
punto più basso che c’è, aggrappate a una gravità venuta a strati: per terra
non c’era, poiché serviva pestare i piedi per la rabbia e per le danze; solo
all’altezza dei polpacci l’aria si riempiva di piccole bolle dense che solleticavano
la pelle assetata. Bere si poteva, ma solo quando un satellite-brocca passava
di lì col suo carico di liquidi senza nome dai colori fluorescenti perché uno
ha sete pure la notte e deve poter vedere cosa beve, in quale punto: sul
pianeta S la notte è proprio buia ma
di un buio fitto, buio di inchiostro a scrivere parole uscite a fiotti tra i
denti digrignati, a bocca spalancata e braccia aperte fino a non poterne più. La
parola amore ha forme di petali,
grandine e pistilli: il pesto d’amore
è un boccone prelibato per chi ha fame di carezze, di febbre e letteratura; e
per chi dorme su un canovaccio per non sciupare le cataste di libri-materasso
venute da galassie lontane per sopravvivere ai roghi dell’oblio.
Tra i
due abitanti e mezzo del pianeta S9
compare una donna. Ha piedi esili affondati nelle pozzanghere chiuse a ellisse
intorno ai suoi passi: bacino di fortuna ricavato dalle stelle piovute e presto
addentate come frutti dal sapore ancora aspro a colare sulle braccia, a
disegnare sulla bocca un’arsura nuova. Tra un morso e l’altro le guance si
fanno creste d’onda, rilievi ondulati a sbucare tra ciocche di capelli dritti
come spilli: la sorpresa lascia il posto a un’abitudine schiva che resta
acquattata tra particelle di sapori discutibili appuntate alle papille
gustative: un gusto inatteso e infatti loro protestano pizzicandole la gola per
un pezzo.
La
simmetria delle stelle smezzate recuperava l’interezza perduta in un baleno: tornate
intere, correvano via. Le si sentiva ridere da lontano mentre la gravità
dispettosa si faceva leggiadra e a zigzag lungo i fianchi, così che a volte
capitava che si provasse come una specie di prurito, un pizzicore che se prendeva
era così buono: smorzava le temperature glaciali dell’estate, perché nel
pianeta che adesso era S21, le
stagioni erano da prendere all’inverso e avevano durata provvisoria: oggi l’inverno
dura sette battiti di mani e ottantuno giravolte; domani chissà.
Era S21, il pianeta, perché dall’ultimo
loro incontro erano trascorsi sei baci furtivi, due carezze insistenti, tre
gocce sulle dita, un abbraccio lungo da stancarsi.
S21 non aveva cartelli segnaletici,
perdersi era pur sempre una forma ritrovata dell’arte smarrita, sbiadita, e
bisognava custodirla con puntiglio. S22
rivoluzionò la tratta delle stelle, dei due abitanti e mezzo, del sole d’arancia
e della luna-dente-di-leone: chi non poteva trattenere a lungo il respiro
soffiava verso lei le speranze perdute, che venivano restituite in forma di
enigmi: un calamaio, la punta di una freccia, una sola scarpa di cuoio, un
bottone, un ritratto di signora con cappello, le pedine di un gioco senza
supporto e senza regole e dei gessetti colorati che andavano bene pure per dare
rossore alle gote e chiarore allo sguardo. Chi risolveva vari e astuti dilemmi,
riusciva a debellare per un istante o due l’oscurità in petto e vedeva chiara
ogni insonnia, ogni freddo abbandono: solo così poteva porvi un rimedio
preciso, catalogare l’esperienza e poi scordarla per ripetere ancora gioie e
dolori, con un vigore che non temeva di essere scalfito.
Le
direzioni tracciate come novità lampante tra i sentieri ostici di S22 erano date da scampoli di lettere
disseminate a sorpresa da lui che guardava lei con languore buono come certe
fragole, come certe favole.
Su
uno si leggeva: amami più che nell’altra
vita. Su un altro le veniva chiesto di scegliere tra due odori e subito
quelli comparivano: bivio insolito da percorrere in un verso o un altro, con
sorpresa finale.
Il
mezzo abitante intanto stava a guardare: sarebbe venuto dalla pancia di lei,
tonda abbastanza da contenere un’esistenza inventata di sana pianta. Ma al
momento era appena una mezza pianta da un germoglio intero, strana formula che
risultava da due interi senza patria né destino che avevano ricordi almeno
millenari da districare come nodi tra i capelli, e scorie sbriciolate e
arrotolate come perle insolite: venivano dall’altro mondo e non avevano più
alcun potere distruttivo, cingevano un dito come una fede senza eroi, senza
credo, senza tempo. La preghiera ricondotta a quel cerchio pallido era sempre
una e ripetuta infinite volte: torna da
me, torna qui. Torna da me. Torna, per favore. Parevano tante cose ma
volevano dirne una sola. Allora il mezzo abitante capiva l’urgenza e spariva
coi gesti rapidi di chi si intimidisce e sa bene il pudore, non serve che
glielo spieghino. Sparisce perché sa come si fa: da dove viene lui è tutto
lattiginoso e colorato, a seconda della piega che prendono le cose per chi è
nato in un tempo che non trova ancora una collocazione precisa: per fare
nascere una vita non si può mica improvvisare tutto. Non si può essere certi
che non vi sia almeno un minimo sostentamento e amore in dosi proprio grandi.
Perciò una voce cavata da un punto indefinito chiedeva tutti i giorni in fasce
orarie prestabilite: sei pentito di
essere nato? E mezzo essere dalle fattezze maschili faceva segno di no,
diceva voglio nascere ancora fino a che
nascerò l’ultima volta e non si potrà più tornare indietro.
Sei pentita di essere nata? E un’altra mezza figura dalle
fattezze femminili sorrideva, sibilava un mai
corposo e invincibile, e aggiungeva ne
voglio ancora, di questa vita qui. La fila di mezzi esseri era lunga, non
si vedeva una fine. C’era pure un’area ristoro: ci si poteva accomodare su una
foglia e dormire il sonno degli esseri compiuti; oppure ripulire vaste aree
desertiche venendo ripagati con piccole anticipazioni sulle esistenze
possibili, così da decidere se davvero non valesse la pena di restare mezzi,
confinati in quel limbo di leccornie e colori pastello.
Su S39 intanto, era calato una specie di
sipario: i due abitanti erano intenti a rincorrersi senza essere visti da
nessuno che avesse avuto mai in corpo un solo cenno di respiro, di parola, di
volontà di azione. Era tutto casuale, tutto animato ma incapace di comprendere
fino in fondo cosa stesse accadendo.
Un
guanto intercettato in dimensioni pescate a sorte in un gioco tra accaniti
scommettitori di bazzecole, cinque poesie inedite urlate dentro un buco tra
galassie rattoppate dall’ultimo dei naufraghi, quattro grotte costruite coi
gusci di chiocciole rubati a un mercato nero senza venditori, cinque steli di
margherite e due rapide occhiate al boudoir di una dea decaduta da un paio di ere
geologiche, segnavano adesso l’incontro perfetto dei due abitanti del pianeta S in attesa di una mezza creatura che
sarebbe venuta chissà quando.
Sorpresa
volle che il tempo che già si misurava strano fece uno stridio e poi rallentò
clamorosamente. I due si trovarono a rilento, si amarono a rilento: sei battiti
di ciglia prima di poter dire una sillaba, quindici battiti per i polpastrelli
premuti sulla pelle altrui, come una promessa. Trentacinque battiti di ciglia e
uno sguardo sostenuto a due senza remore, perché lei schiudesse le cosce e
avanzasse un sorriso sbilenco: invito taciuto e più che loquace.
I
doni raccolti a casaccio come la strana collezione che erano, si potevano
scartare poi; e proprio quel poi
segnava la ricchezza suprema, il dono ineguagliabile: avere un dopo che rimandi
il presente per il gusto dell’attesa, è capire il tempo che serve per fare
progetti, per venirsi addosso, per prendere le distanze e calcolare bene gli
affondi e gli assalti: alla vita come al corpo, in ogni tempo e mondo; e per
tutte le mezze esistenze e le esistenze intere, possibili e impossibili.
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