Donne nei Loro Letti
Vi
sono titoli di libri che catturano ancora prima di una visione d’insieme, prima
delle forme e degli odori. Donne nei loro
letti di Gina Berriault (Mattioli1885) è fra questi.
Io
nel letto so starci, mi sono detta. Non sul letto ma quasi dentro, sprofondata
per sogno e per immagine, lì in mezzo come lontana appendice del mio essere,
quando mi metto a pensare e arrivo chissà dove solo abbracciando il cuscino.
Il
libro è un poco arrotondato agli angoli, ruvido sotto i polpastrelli: la donna
ritratta sulla copertina ha gli occhi marcati da un fascio di luce ambrata. Ma
si torna sempre al titolo con insistenza dolce, perché è allettante e da solo
conserva la promessa di una visione non solo sensuale e sessuale, non solo
impersonale, abbandonata al caso e all’assenza. Il titolo batte in mente, crea
sottili strati di stupore quando conferma che nei letti non giacciono languide,
pensose e inermi le sole donne: spuntano gli uomini su quelle soffici zattere,
in alto mare come la controparte e simile all’opposto che almeno nel corpo è
così facile individuare; sguardi, linee e genitali sono solo un patto stretto
con l’evidenza che salva dal doversi annunciare ad ogni piè sospinto. La donna
ha un canto sottile, l’uomo una piccola selva sulla faccia: uno strato di barba
come minuscole e ruvide cime d’albero sotto le dita. Siamo un’alleanza sghemba,
visti da lontano: territorio comune, differente e complementare. È quando una
parte e l’altra si trovano a sfumare infilandosi nei panni e nella carne
altrui, che tutto si fa interessante. Ed è cosa perfino più buona quando ci si
trova a supporre e poi a chiedere stille di certezze per meglio comprendere
cosa accade, quando due che non si sanno accelerano il passo, spezzettano
distanze, si incontrano mescolando esigenze differenti senza vederle combaciare
nell’immediato. Le donne e gli uomini di Gina Berriault sono spesso e
fortemente somiglianti, a volte quasi interscambiabili. E non per mancanza di
carattere o sostanza: non intendono annullare le sane differenze tra i due
sessi, non riuscirebbero a farlo neppure volendo. Sono soltanto vittime e
carnefici in misura uguale tra le parti: si ritraggono dalla sorte che tenta di
pescare loro per uno scherzo strambo dentro il gioco stesso. L’azzardo è
rimanere vivi per la vita stessa, e non in funzione del solo ruolo ricoperto.
Lo
sguardo che Gina Berriault riserva ai suoi personaggi è denso, magnanimo. Lei
sta lì, scrive di loro, è la loro madre poiché li crea dal nulla, li crea nel
grembo della carta e del libro, sa che l’inchiostro è il sangue che scorre
nelle loro vene di cellulosa. Li osserva, li lascia fare: li perdona quando è
tempo di svelare errori senza troppe accuse. E quelli restano defilati quando è
tempo di godere meno del necessario, per tentare di conservare ancora un poco
di energia e usarla nei giorni additati come inutili. Le storie a volte sono
fulminanti, e fin dalle prime righe svelano luoghi, protagonisti e piccoli
retroscena a dare corpo alla narrazione: i racconti ai quali si dedica sono
universi in piccolo.
E quanto
sono belli i letti letterari, i letti manchevoli, letti di conchiglia e di
poesia.
«Poi
a letto penso a te,
la tua lingua metà oceano, metà cioccolata,
penso alle case dove entri scivolando,
ai tuoi capelli di lana d’acciaio,
alle tue mani ostinate e
come rosicchiamo la barriera perché siamo in due.
Come vieni e afferri la mia coppa di sangue,
mi ricompatti e bevi la mia acqua salata.
Siamo nudi. Ci siamo spogliati
e insieme nuotando risaliamo il fiume, l’identico fiume chiamato Possesso
e sprofondiamo insieme. Nessuno è solo».
Ad
Anne Sexton era dato un vagare e sospirare gelido e accaldato al contempo, il
mancato riposo e tutti i sensi chiamati con il nome altrui: l’anatomia del
credere e del volere, anatomia delle emozioni e non solo del corpo. Nessuno è
solo, per la sola ragione di una solitudine suddivisa in parti quasi uguali tra
tutti. La Berriault consegna al desiderio una forma di tormento pacificato, un
ricordo lungo, stiracchiato sulla linea delle vicende passate e rimpiante;
risale le mani protese, le braccia prive di corpi da imprigionare tra le maglie
ossute, candide, morbide, disperate e gioviali della tenerezza. Non l’impronta
carnale, la ferita pulsante e lasciva di Anne Sexton, ma l’accordo leale e
speranzoso con un’attesa che vada a placare la perfida arsura delle privazioni.
Nel
racconto Zenobia, semina questa voce
con ogni retroscena e avanzo immaginabile:
«Silenzio,
il vento soffia ancora. Niente fischi, niente brontolii, nessuna tavola divelta
che sbatte. Il cuore mi si agita contro le costole dove non sempre riuscivo a
sentirlo. Povero uccellino, vuole uscire dalla gabbia in cui me l’hai
rinchiuso. Quando il vento soffia di nuovo, prego che frantumi questa casa in
mille pezzi e getti nella neve i letti ammuffiti in cui nessuno dorme più da
anni, dove fanno il nido i topi, e le pentole annerite e incrostate e i piatti
incrinati e questa sedia a dondolo scheggiata su cui sono seduta con la mia
vestaglia grigia ormai lisa, vecchia di secoli come le piume di un uccello
morto, e questo tavolo unto al quale ci facevi sedere tutti insieme, noi tre,
il tuo amato Ethan e la tua cara Mattie e il tuo spauracchio Zenobia».
È come
se fosse tutto un primo tempo, e unico. Come se i personaggi rotolassero,
inciampassero in scena, piantandosi lì come rami sterili e sgraziati; e non ci
fossero prove, aggiustamenti. Un’unica performance e poi via, anche senza
spettacolo e applausi, solo chimere e rimasugli di un sogno forse vissuto per
davvero.
In
tutti i racconti si incontrano uomini e donne di città o di periferia; uomini,
donne e gatti, bambini innocenti e ragazzi intrappolati nelle rinunce altrui
che per assurdo, certe volte riempiono: sono vuoti colpevoli, e infliggono
attese che si traducono in viaggio; come quando un padre lascia solo il figlio,
e il figlio segue il padre di soppiatto: il suo è un padre artista, e dà la
vita a statue improbabili, statue senza respiro delle quali ha cura più che di
chi lo ama di un amore senza regole e giustizia, soltanto in ombra e da lontano,
pure sapendo che è tardi per tutto.
Ai Tulipani di Sylvia Plath si accosta il
racconto intitolato Intorno alla Cara
Moribonda.
«I
tulipani sono troppo eccitabili, qui è inverno.
Guarda
com’è tutto bianco, tutto quieto e innevato.
Sto
imparando la pace, da me quietamente posando
come
posa la luce su questi muri bianchi, questo letto, queste mani.
lo
non sono nessuno; non c’entro con le esplosioni.
Ho
dato il mia nome e i miei vestiti alle infermiere
e
all’anestesista la mia storia e ai chirurghi il mio corpo».
La
protagonista del racconto potrebbe avere uguale la voce e la febbre sottintesa,
la fame che non si placa: il letto è trappola e limite, e intorno gravitano
piccole figure amorose come satelliti in uno spazio sconosciuto. Amori che si
affermano, più o meno familiari; amori che tornano da lontano e trovano
invariata la sola indifferenza. Sono tutti soli ancora una volta, stipati
dentro una stanza che rileva ogni parte residua di mondo: il resto accade
fuori, e vivere con amore è un lusso. Qualcuno dice: «Le cose che non so mi
pesano addosso come una tonnellata d’acqua». È l’ennesima voce inquieta,
sensibilità alla deriva, fiducia e sfiducia riposta nelle mani instabili di un’incognita
abusata quando bisognava sopravvivere ai propri fantasmi.
Sul mosaico
dei racconti di Gina Berriault, spicca la figura di Anna Lisa e del suo naso,
che tanto ricorda le vicende di Vitangelo Moscarda di pirandelliana memoria, ma
tutto al femminile: la scoperta del difetto insopportabile, un naso che pare
una gobba, una proboscide, un palese impropero, uno scherzo del destino da
rinnegare e sistemare a dovere. E poi la risalita e la discesa ripida, il
dubbio, l’identità accostata, scissa e riallacciata a una sola parte corporea
che gioca il destino di una e più persone, scombina gli amori, ritorna indietro
su passi ormai lontani e mai si stanca.
E
anche qui, lo sguardo dell’autrice è compassionevole: Gina Berriault perdona le
bizzarrie delle sue creature, arriva addirittura a incoraggiarle tra le righe. Accoglie
con sguardo magnanimo le cadute, la stizza, le proteste chiuse nei pugni
stretti come fanno i bambini. Scalda con le parole la parte di letto lasciata
vuota da tanto. Dice che pure noi siamo un’isola, come quei letti spersi. Siamo
tutta la stanchezza che ci porta a distendere su quelli le membra nervose, ad
affidargli il nostro sonno. Apparteniamo ai risvegli infreddoliti, riposati,
lenti; agli spazi condivisi con pochi, ai letti scomodi come le abitudini
altrui, quando non incontrano la voglia vera e viva di incontrarsi con le
carezze e molto oltre. E ogni racconto suggerisce che occorre amarsi sopra i
letti ogni volta che si può, coi verbi declinati al presente e le forme
imperfette e leali di ogni umana esistenza.
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