martedì 25 agosto 2020

Morti di Sicilia e Altre Stranezze




 La terra maliarda va annusata di notte ad occhi chiusi. La terra strega, terra diamante, terra di notti insonni, va omaggiata con la malinconia dell’esule e col frutto ridente della gratitudine propria di chi resta e non fa nulla per cambiare, prende per buono anche gli avanzi, le sbavature: indolente e bramoso a tratti, come un amante che pure essendo amato di un amore smezzato non sa privarsi di una tale grazia e rovina.
 La terra alchemica, terra madre, terra di origini mai rinnegate, conserva nel proprio grembo storie che andrebbero preservate dal tempo che fugge e che dimentica; andrebbero donate di bocca in bocca, specie quando non hanno morale: buone come il peccato, come le carezze furtive, come chi resta incastrato nelle ripetizioni e di volta in volta vi trova nuova linfa da usare a piacimento, per crescere e non crescere, restare promessa imbozzolata, spiccare il volo per distrazione.
Vi sono storie calamitanti, che pure prive del brio delle cose felici donano il sottile e ricamato gusto delle migliori avventure, a chi ne solca le pagine con fantasia vivace e acuta in ogni pagina. E anche quando le pagine sono proprio una manciata il cammino può essere interminabile, poiché ci si lascia guidare dai fatti impressi sulla carta, e non di rado si vorrebbe ascoltare dalla voce viva di qualcuno quanto raccontato. Accade con Morti di Sicilia e Altre Stranezze (Rossomalpelo edizioni) di fare ritorno in ogni tratto di isola mai conosciuta, e in quella amata ben oltre il tempo vissuto per intero nella vita tutta, perché le storie che racchiude portano le testimonianze di chi è nato, morto e non morto, capitato in epoche di sola fantasia oppure lontane, ma così lontane che si vorrebbe per una volta cadere addormentati come in un incantesimo, sognando viaggi senza rotte ben distinte, senza impedimento; e giungere fino alla voce roca e disperata di chi pensa a ciò che non ha più spoglie terrene, e maledice a suo modo l’erosione del tempo e del corpo che frana alla fine dei pochi anni che contiamo, precipita nel dirupo delle cose mai potute osare, rimpiange i tempi argentini dei momenti goduti, amati e condivisi.
Nel leggere si immagina con chiarezza una sorta di lamento cantato, un pianto asciutto, gutturale:

«Più nulla! più nulla! né la tua treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. Né i tuoi occhi bramosi, pei quali sfidavo il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra che non ho più. Ti rammenti? I baci insaziati dietro quell’uscio! E neppure i morsi acuti della mia gelosia, il delirio sanguinoso che mi mise in mano l’arma omicida in quell’andito buio. Né le lagrime che si piangevano attorno al mio letto, e cercavo di stamparmi negli occhi dilatati dall’agonia. Né le ansie in cui vegliai tante notti davanti a quel guanciale in cui posava la cara testa bianca. Né le carezze colle quali mi pagavi il latte del mio seno e i dolori della mia maternità. E neppure le lotte in cui mi son logorato. Né le speranze che mi hanno accompagnato sin qui. Né i fiori del campo per cui ho tanto sudato. Né i libri sui quali ho vissuto tanta e tanta vita. Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alighe secche nelle falangi disperate. Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli umani. E neppure l’azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. L’onda che s’ingolfa gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla Tavola del Prete si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di ogni cosa».

A Giovanni Verga è data questa parte di bellezza, che fa pace con le inquietudini dell’uomo e dell’isola, trova un insistere caparbio sotterrato come le ossa in piccole tane asciutte, terrose: il tempo corrompe la carne, ma difficilmente intacca gli affetti o il ricordo. Quest’ultimo cambia forma, rivede i contorni un tempo così netti; e rivive le testimonianze narrate in prima persona da chi poi scompare, le percorre e le impara a memoria pur di custodirle sempre; poi le dona ad altri purché non vadano mai smarrite. Chi vorrà potrà tornare dai luoghi ultraterreni sconosciuti a chi respira. Potrà tornare e portare con sé qualunque cosa voglia: un dispetto, un fiore tra i fiori sopravvissuti alla carezza gelida delle lapidi, una forma di caverna propria del momento del trapasso, e un bagliore pacato, ancora fiori e danze, e ricongiungimenti morbidi per forme nuove che non si possono dire: nessuna voce sul vocabolario sa ancora disegnarle bene.
 
Morti di Sicilia e Altre Stranezze, che solo a dirlo pizzica strati di stupori assorti, ha un sentore di muschio, di erba mossa da poco, di mosto e vino rosso colato dalle labbra e fin sul collo: tributo odoroso al sangue che scorre nel lungo e sottile cilindro della giugulare. Ha suoni di mare, di lacrime a sguazzare negli occhi: lacrime intentate, fondi di lago tra le palpebre schiuse. E rintocchi di campana appuntite come spilli, a creare squarci tra dimensioni differenti: facile inciampare tra veglia e incubo, perdersi e mai più ritrovarsi.
E tutto nel tempo breve e accorato di racconti piccoli, agili, che ad un certo punto ricalcano le atmosfere di Giuseppe Pitrè alle quali Giuseppina Radice si accosta per scrivere I Crozzi ri Motti, in un miscuglio di dialetti venuti da più parti dell’isola bedda; i dialetti si sa che sono un tesoro vero, un tesoro quasi perso. E allora nel mio piccolo io l’ho ringraziato, tutto quel bene. E ho letto ad alta voce:

«(…) i fimmini cuntavanu tanti cunti: ri fantasimi senza testa, ri morti c’havanu murutu ‘mmazzati e chi non havivanu rizettu e jvanu jendu casi casi facendu – cetti voti – sgrusciu ri catini chi i tinivanu ‘ncatinati. Cunti macari ri riavuli chi trasivanu e niscivanu intra di li cristianuzzi e cci facivanu fari cosi ri pazzi (…)».



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