lunedì 20 luglio 2020

Storie dal Pianeta Esse




Il pianeta S9 non ha mai un nome fisso: nove sono le volte in cui lei ha incontrato lui, non vuole mica scordarlo, e allora torna comoda quella sigla: combinazione ovvia e fatale dell’iniziale di un nome caro di persona non comune, affiancata a un numero che conta per avanzare e non alla rovescia, i momenti fatali vissuti tra i due per disperazione e incanto. Fatali perché pensare a ciò che divide con lui le toglie il sonno e prima o poi lo sa, morirà di sospiri: troppo vento quelle voglie, piccoli mulinelli a roteare e creare vortici affamati. Solo ieri gli incontri con lui erano sette, poi una volta sveglia più una in sogno lui l’aveva portata con sé sulla scia di terreni sabbiosi, desertici, tra fiori in campana e stelle nell’incavo del gomito: stelle piovute quasi al suolo, rimaste a galleggiare a un paio di spanne dal punto più basso che c’è, aggrappate a una gravità venuta a strati: per terra non c’era, poiché serviva pestare i piedi per la rabbia e per le danze; solo all’altezza dei polpacci l’aria si riempiva di piccole bolle dense che solleticavano la pelle assetata. Bere si poteva, ma solo quando un satellite-brocca passava di lì col suo carico di liquidi senza nome dai colori fluorescenti perché uno ha sete pure la notte e deve poter vedere cosa beve, in quale punto: sul pianeta S la notte è proprio buia ma di un buio fitto, buio di inchiostro a scrivere parole uscite a fiotti tra i denti digrignati, a bocca spalancata e braccia aperte fino a non poterne più. La parola amore ha forme di petali, grandine e pistilli: il pesto d’amore è un boccone prelibato per chi ha fame di carezze, di febbre e letteratura; e per chi dorme su un canovaccio per non sciupare le cataste di libri-materasso venute da galassie lontane per sopravvivere ai roghi dell’oblio.
Tra i due abitanti e mezzo del pianeta S9 compare una donna. Ha piedi esili affondati nelle pozzanghere chiuse a ellisse intorno ai suoi passi: bacino di fortuna ricavato dalle stelle piovute e presto addentate come frutti dal sapore ancora aspro a colare sulle braccia, a disegnare sulla bocca un’arsura nuova. Tra un morso e l’altro le guance si fanno creste d’onda, rilievi ondulati a sbucare tra ciocche di capelli dritti come spilli: la sorpresa lascia il posto a un’abitudine schiva che resta acquattata tra particelle di sapori discutibili appuntate alle papille gustative: un gusto inatteso e infatti loro protestano pizzicandole la gola per un pezzo.
La simmetria delle stelle smezzate recuperava l’interezza perduta in un baleno: tornate intere, correvano via. Le si sentiva ridere da lontano mentre la gravità dispettosa si faceva leggiadra e a zigzag lungo i fianchi, così che a volte capitava che si provasse come una specie di prurito, un pizzicore che se prendeva era così buono: smorzava le temperature glaciali dell’estate, perché nel pianeta che adesso era S21, le stagioni erano da prendere all’inverso e avevano durata provvisoria: oggi l’inverno dura sette battiti di mani e ottantuno giravolte; domani chissà.
Era S21, il pianeta, perché dall’ultimo loro incontro erano trascorsi sei baci furtivi, due carezze insistenti, tre gocce sulle dita, un abbraccio lungo da stancarsi.
 
S21 non aveva cartelli segnaletici, perdersi era pur sempre una forma ritrovata dell’arte smarrita, sbiadita, e bisognava custodirla con puntiglio. S22 rivoluzionò la tratta delle stelle, dei due abitanti e mezzo, del sole d’arancia e della luna-dente-di-leone: chi non poteva trattenere a lungo il respiro soffiava verso lei le speranze perdute, che venivano restituite in forma di enigmi: un calamaio, la punta di una freccia, una sola scarpa di cuoio, un bottone, un ritratto di signora con cappello, le pedine di un gioco senza supporto e senza regole e dei gessetti colorati che andavano bene pure per dare rossore alle gote e chiarore allo sguardo. Chi risolveva vari e astuti dilemmi, riusciva a debellare per un istante o due l’oscurità in petto e vedeva chiara ogni insonnia, ogni freddo abbandono: solo così poteva porvi un rimedio preciso, catalogare l’esperienza e poi scordarla per ripetere ancora gioie e dolori, con un vigore che non temeva di essere scalfito.
Le direzioni tracciate come novità lampante tra i sentieri ostici di S22 erano date da scampoli di lettere disseminate a sorpresa da lui che guardava lei con languore buono come certe fragole, come certe favole.
Su uno si leggeva: amami più che nell’altra vita. Su un altro le veniva chiesto di scegliere tra due odori e subito quelli comparivano: bivio insolito da percorrere in un verso o un altro, con sorpresa finale.
Il mezzo abitante intanto stava a guardare: sarebbe venuto dalla pancia di lei, tonda abbastanza da contenere un’esistenza inventata di sana pianta. Ma al momento era appena una mezza pianta da un germoglio intero, strana formula che risultava da due interi senza patria né destino che avevano ricordi almeno millenari da districare come nodi tra i capelli, e scorie sbriciolate e arrotolate come perle insolite: venivano dall’altro mondo e non avevano più alcun potere distruttivo, cingevano un dito come una fede senza eroi, senza credo, senza tempo. La preghiera ricondotta a quel cerchio pallido era sempre una e ripetuta infinite volte: torna da me, torna qui. Torna da me. Torna, per favore. Parevano tante cose ma volevano dirne una sola. Allora il mezzo abitante capiva l’urgenza e spariva coi gesti rapidi di chi si intimidisce e sa bene il pudore, non serve che glielo spieghino. Sparisce perché sa come si fa: da dove viene lui è tutto lattiginoso e colorato, a seconda della piega che prendono le cose per chi è nato in un tempo che non trova ancora una collocazione precisa: per fare nascere una vita non si può mica improvvisare tutto. Non si può essere certi che non vi sia almeno un minimo sostentamento e amore in dosi proprio grandi. Perciò una voce cavata da un punto indefinito chiedeva tutti i giorni in fasce orarie prestabilite: sei pentito di essere nato? E mezzo essere dalle fattezze maschili faceva segno di no, diceva voglio nascere ancora fino a che nascerò l’ultima volta e non si potrà più tornare indietro.
Sei pentita di essere nata? E un’altra mezza figura dalle fattezze femminili sorrideva, sibilava un mai corposo e invincibile, e aggiungeva ne voglio ancora, di questa vita qui. La fila di mezzi esseri era lunga, non si vedeva una fine. C’era pure un’area ristoro: ci si poteva accomodare su una foglia e dormire il sonno degli esseri compiuti; oppure ripulire vaste aree desertiche venendo ripagati con piccole anticipazioni sulle esistenze possibili, così da decidere se davvero non valesse la pena di restare mezzi, confinati in quel limbo di leccornie e colori pastello.
 
Su S39 intanto, era calato una specie di sipario: i due abitanti erano intenti a rincorrersi senza essere visti da nessuno che avesse avuto mai in corpo un solo cenno di respiro, di parola, di volontà di azione. Era tutto casuale, tutto animato ma incapace di comprendere fino in fondo cosa stesse accadendo.
Un guanto intercettato in dimensioni pescate a sorte in un gioco tra accaniti scommettitori di bazzecole, cinque poesie inedite urlate dentro un buco tra galassie rattoppate dall’ultimo dei naufraghi, quattro grotte costruite coi gusci di chiocciole rubati a un mercato nero senza venditori, cinque steli di margherite e due rapide occhiate al boudoir di una dea decaduta da un paio di ere geologiche, segnavano adesso l’incontro perfetto dei due abitanti del pianeta S in attesa di una mezza creatura che sarebbe venuta chissà quando.
Sorpresa volle che il tempo che già si misurava strano fece uno stridio e poi rallentò clamorosamente. I due si trovarono a rilento, si amarono a rilento: sei battiti di ciglia prima di poter dire una sillaba, quindici battiti per i polpastrelli premuti sulla pelle altrui, come una promessa. Trentacinque battiti di ciglia e uno sguardo sostenuto a due senza remore, perché lei schiudesse le cosce e avanzasse un sorriso sbilenco: invito taciuto e più che loquace.
I doni raccolti a casaccio come la strana collezione che erano, si potevano scartare poi; e proprio quel poi segnava la ricchezza suprema, il dono ineguagliabile: avere un dopo che rimandi il presente per il gusto dell’attesa, è capire il tempo che serve per fare progetti, per venirsi addosso, per prendere le distanze e calcolare bene gli affondi e gli assalti: alla vita come al corpo, in ogni tempo e mondo; e per tutte le mezze esistenze e le esistenze intere, possibili e impossibili.




martedì 14 luglio 2020

Il Tempo che Resta




Vi sono libri tersi, libri d’acqua, libri di conchiglia da ascoltare ad occhi chiusi, poiché l’eco delle storie narrate continua in mente anche a lettura ultimata e produce suoni: echi in aggiunta agli echi, similitudini piovute tra le note di una canzone senza argini. Trovo una mèta perfetta in Flatlands: crocevia e metà perfetta di direzioni multiple, spartane, così impazienti di toccare un punto e un altro opposto in sequenza immediata e impossibile, se la distanza da coprire va di pari passo coi ritmi del corpo. Le parole superano gli ostacoli, quando alleviano e completano: sono medicamenti necessari senza controindicazioni.
Mark Lanegan e Chelsea Wolfe cantano piano mentre io scrivo: le note si dilatano, prendono la forma dei sogni ad occhi aperti e trovano intatte le pieghe e i risvolti già percorsi tra le pagine scritte da Michelle Grillo ne Il Tempo che Resta (Alessandro Polidoro Editore). È un canto a due voci anche il racconto, eppure gli spazi e gli eventi narrati conoscono intrecci differenti, punti di vista molteplici ma non efficaci come quelli della protagonista che narra in prima persona i colori della colpa, del bisogno, del volere negato ad oltranza lo stesso destino consegnato a chi non vuole saperne di concepirlo; e tuttavia deve sottostarvi, trovando nutrimento nella mancata generosità di una sorte avversa.
La protagonista è Anna: ragazza e poi donna; Anna nel presente e nel passato, Anna arresa all’amore vissuto forse dagli altri perché il bene la sfiora soltanto con un tocco distratto, e la dimentica presto. Per lei nulla dura, nonostante il rosso fragola delle voglie da addentare; i baci disegnati nella fantasia, nella realtà rispondono appena a un rosa pallido, il rosa che ha la pelle quando non è impastata col sole, diafana. La rassegnazione ha un verde acido, e Anna la conosce bene quando per la prima volta le viene negata la possibilità di seguire ambizioni anche letterarie: quella dei sogni e delle visioni di sé proiettate in un mondo felice, sono rinunce alle quali farà presto il verso e l’abitudine; perché in famiglia bisognava essere pratici: la tenerezza svaniva in un turbinare di obblighi e piccoli gesti di intensità pari a un grigio pallido e fangoso. La notte era tanto scura da rendere semplice appuntare sull’orlo del cielo, ogni sorta di pensiero sfacciato. I vorrei non costano nulla, se saputi digerire al momento opportuno.
Così Anna cresce, Anna rinuncia, Anna percorre il giallo ocra delle strade al tramonto, di ritorno da scuola. Anna conosce il bene spaiato e troppo tenue delle amicizie a senso unico, le compagnie private della grazia delle condivisioni vere e profonde: compagnie dei giorni persi, delle lenzuola arricciate tra i piedi sui letti sfatti; letti come isole lontane. L’amore si scava nel corpo, si prende con forza, si lascia e si placa come quando si risponde ai morsi della fame ma non si capisce mica se quella è autentica e se si allaccia al gusto, all’umore, al vuoto che c’è dentro e fuori. Dentro perché fuori: le cause e gli effetti non sono sempre ovvi come si direbbe. E ne si può indagare la natura in molti modi, anche sbagliati, come quando Anna per sfuggire a realtà indesiderate si lascia amare di un amore sterile, a metterle in pancia un germoglio arido in partenza.
 
I want flatlands
Soft and steady breeze
Bringing scents of lined-up orchard trees
Dripping heavy with pears and dancing leaves
I want flatlands
Will you go there with me?
 
Si respira a fondo tra le pagine, la ricerca inappagata della semplicità narrata anche in Flatlands. Anelare il vento, la danza delle foglie, i contorni gentili di un luogo amato da tornare a percorrere; e la brezza leggera pure tra le ciglia, l’abbraccio venuto come un dolce assalto, alle spalle: cura da non temere e che non vede nascere in gola la protesta di ruggine di chi non sa lasciarsi andare.
 
«(…) Ci incamminammo tra gli alberi color autunno, calpestando un lungo tappeto di foglie dorate illuminato da chiazze di luce. Il vento faceva sbattere le falde dei nostri cappotti, asciugando le minuscole gocce di sudore sulle fronti. I respiri affannati si trasformavano in nuvole di vapore. Luca mi prese la mano aiutandomi nell’ultimo tratto roccioso. Poggiai il piede su di un masso e, tenendoci l’uno all’altra, arrivammo in cima, dove l’intera valle si aprì ai nostri occhi stupiti. Inerti dinanzi a tanta bellezza, incapaci di parlare, di dire anche un banalità, Luca ruppe ogni indugio cacciando un urlo fortissimo. Lo guardai svuotare i polmoni, mentre l’aria gli sferzava i capelli. Allora presi anche io una grossa boccata, strinsi i pugni lungo il corpo e urlai, più forte che potevo, a occhi aperti, per non perdere nemmeno un secondo di quell’immagine, con un’energia tale da far vibrare il mio corpo. Urlammo forte, come sulle montagne russe, e man mano sentii la tristezza uscire dal mio corpo, un flusso nero che tenevo sedimentato tra stomaco e polmoni».
 
Anna vive in disequilibrio costante, tra ciò che ha perso e tutto quanto avrà da perdere. E Michelle Grillo tratteggia la figura di una donna in pace e in guerra con sé stessa; una donna che segna il suo tempo nonostante tutto: donna da incolpare che freme sotto le spoglie di un’esistenza spenta a metà e lì cerca il senso, il filo ingarbugliato, la libertà pensata dentro stanze opprimenti; con un baluginio piccolo e grande al contempo a cui fare ritorno quando manca il respiro, unica immagine da evocare senza paura: casa senza mattoni, da abbracciare. Casa che porta il nome delle illusioni e che per definizione, per affetto, porta negli occhi e nei gesti ogni promessa di un futuro finalmente pieno e possibile.



venerdì 10 luglio 2020

Permafrost




Candida sera, fresca e lucida; e un silenzio pacificatore utile a contemplare i riflessi di un giorno smesso da breve e lasciato decantare come un vino buono in un calice impeccabile: vino rosso sangue, rosso tramonto diluito in vetro e impaziente come una speranza sotto scacco; come chi osserva, non visto, ciò che rimane delle vite altrui quando non recitano un farsa e finalmente si spogliano di obblighi, ruoli e deleghe assai poco convincenti. Le ultime ore del giorno si conciliano con una notte fragrante, e in quel buio segreto, buio di velluto, gli eccessi non li decide più soltanto la coscienza ma quelli si servono di un parametro da reinventare che contempla la prima persona singolare: io che non sono mai soltanto una; io che incontro gli altri e i punti di contatto possono pure essere discutibili. Io che è singolare ma generoso nel guardare e nel considerare, nell’esporre e spremere da sé stesso con ogni sano sforzo, il meglio che può darsi e dare.
Le vite di chi vive si guardano con stupore. Sono esempio, cura, confronto più o meno volontario. Sono fili allungati tra due punti distanti: fili invisibili da allentare a piacimento, poiché invadere non vale la pena nel gioco di chi osserva i gesti che sono una lingua e un linguaggio, spesso al netto della tenerezza da conservare e lasciare ricadere nello spazio degli incontri dolci, delle complicità, con inframezzi di morsi e parole piovute accanto al cuscino della persona amata; e sopra il cuscino, quando è tempo di dormire: Nottetempo, come l’omonima casa editrice che ricalca un rifugio buono per il Permafrost di Eva Baltasar e consegna al lettore una storia che prende slancio da una parte troppo umana, un eccesso bello e buono che segue con passi confidenti i tragitti scomodi delle disillusioni e del cinismo: parla con parole brutali, che pure danzano con leggiadria notevole tra le pagine; basta usare un minimo l’esercizio dell’immedesimazione per capire che ogni proposito è stato maltrattato, buono o cattivo che fosse in principio. E va bene, vanno proprio così le cose quando ci si ritrova alle prese con una sensibilità alta e l’abilità di percorrerla coi modi più autentici, senza temere le reazioni altrui a ogni passo, ad ogni respiro.
 
«Mi sono collocata in un limite, ci vivo dentro, aspetto il momento di abbandonarlo, questo limite, la mia dimora provvisoria. Provvisoria come tutte le dimore, infatti, o come un corpo. Non assumo farmaci, la chimica è una briglia che trattiene, ci fa avanzare a passo inoffensivo. Comporta una redenzione anticipata, allontana dal peccato o forse, solo, insegna a chiamare peccato quell’esercizio della nostra libertà raggiunto in uno stato di pace – prima della morte, ovvio. Mamma prende le medicine, papà prende le medicine, mia sorella all’inizio no, poi sì, è diventata grande e l’ha capito. (…) Medicine: che bel rimedio. Tuttavia, non è il mio, meglio avanzare, selvaggia, sino al limite e poi decidere. Alla fine scopri che il limite si lascia vivere, verticale come non mai, rasente il nulla, e che non solo è possibile viverci, ma anche crescerci in tanti modi diversi. E se tutto sta nel sopravvivere, probabilmente la resistenza è l’unico modo per vivere intensamente. È ora, in questo limite, che mi sento viva, viva come non mai».
 
Una donna adulta narra la sua storia; lei stessa appartiene a quei racconti presi per frammenti, incollati come si farebbe con un vaso rotto: un vaso importante, come gli oggetti che non sono mai soltanto oggetti e foderiamo con una parvenza d’anima, con ogni ricordo e una speranza sempre verde che si avveri ancora almeno un frammento di tempo già vissuto: passato, svanito e desiderato ancora.
Si assiste così al dipanarsi di una trama contenuta nell’assenza: poiché tutto è vuoto e tutto si rincorre, e si declina in ogni verso e con ostinazione un disperato bisogno di calore, che però non si dice. Dire è superfluo, dire è maschera e finto consenso. Le ammissioni passano per la sorpresa, per gli affetti imprevisti, rari, ma così forti da fare impallidire i tentativi solo abbozzati e programmati alla lontana, di porre fine alla vita per dare una piega definitiva che sia frutto di una scelta consapevole, all’esistenza di chi si lascia a malapena trascinare dagli eventi. Morire sarebbe una risposta netta, in quel caso. Sarebbe come dire che uno decide per sé almeno una cosa macroscopica, dopo mille rinunce e altrettante imposizioni.
Le cose liete sono piccole, infinitesimali, disseminate tra le righe con fare quasi casuale. La corazza assorbe bene i colpi imprevisti: il fato è un vecchio giocoliere dato in pasto all’indolenza e alle costanti invasioni di una figura materna che non conosce la pratica gradita di chi sa tacere per comunicare meglio l’essenziale. Lei non sa godere delle piccole cose: ciò che conta è apparire fiera, agile, perfetta, magari un pizzico sottomessa, come fa la seconda figlia, la sua prediletta: diventata presto madre e moglie, non è che un piccolo automa incapace di dare ascolto al proprio istinto e a una natura intima e benevola.
Attraverso quelle lenti distorte, tutto ciò che non soddisfa i criteri altrui confina coi territori aridi delle mediocrità e resta indesiderato, dimenticato, sullo sfondo dei giorni vissuti con la meccanica del dovere.
Le pagine scorrono senza attriti; e non disdegnano i risvolti amari stipati dentro un nucleo familiare astruso, paradossale, gelido. Il cuore batte pure sotto la metafora azzeccata di uno spesso strato di permafrost; batte e sputa sangue caldo che irrora i pensieri e scalda le mani a conca su seni di donna: forme morbide, addentate e contemplate, pregne di un calore liquido e fuggevole. Non si può abusare neppure della parola amore: bisogna lasciarla ai fortunati, ai coraggiosi, fare pace col fatto che forse la si sognerà sempre, restando in debito costante di meraviglia e di sconfinato affetto. Ma col buono che c’è, col buono che resta, ciascuno avrà la propria forza ornata di piccoli e grandiosi ritagli di conforto e di stupore, a spezzare alti strati di fredda e inospitale diffidenza.