venerdì 10 luglio 2020

Permafrost




Candida sera, fresca e lucida; e un silenzio pacificatore utile a contemplare i riflessi di un giorno smesso da breve e lasciato decantare come un vino buono in un calice impeccabile: vino rosso sangue, rosso tramonto diluito in vetro e impaziente come una speranza sotto scacco; come chi osserva, non visto, ciò che rimane delle vite altrui quando non recitano un farsa e finalmente si spogliano di obblighi, ruoli e deleghe assai poco convincenti. Le ultime ore del giorno si conciliano con una notte fragrante, e in quel buio segreto, buio di velluto, gli eccessi non li decide più soltanto la coscienza ma quelli si servono di un parametro da reinventare che contempla la prima persona singolare: io che non sono mai soltanto una; io che incontro gli altri e i punti di contatto possono pure essere discutibili. Io che è singolare ma generoso nel guardare e nel considerare, nell’esporre e spremere da sé stesso con ogni sano sforzo, il meglio che può darsi e dare.
Le vite di chi vive si guardano con stupore. Sono esempio, cura, confronto più o meno volontario. Sono fili allungati tra due punti distanti: fili invisibili da allentare a piacimento, poiché invadere non vale la pena nel gioco di chi osserva i gesti che sono una lingua e un linguaggio, spesso al netto della tenerezza da conservare e lasciare ricadere nello spazio degli incontri dolci, delle complicità, con inframezzi di morsi e parole piovute accanto al cuscino della persona amata; e sopra il cuscino, quando è tempo di dormire: Nottetempo, come l’omonima casa editrice che ricalca un rifugio buono per il Permafrost di Eva Baltasar e consegna al lettore una storia che prende slancio da una parte troppo umana, un eccesso bello e buono che segue con passi confidenti i tragitti scomodi delle disillusioni e del cinismo: parla con parole brutali, che pure danzano con leggiadria notevole tra le pagine; basta usare un minimo l’esercizio dell’immedesimazione per capire che ogni proposito è stato maltrattato, buono o cattivo che fosse in principio. E va bene, vanno proprio così le cose quando ci si ritrova alle prese con una sensibilità alta e l’abilità di percorrerla coi modi più autentici, senza temere le reazioni altrui a ogni passo, ad ogni respiro.
 
«Mi sono collocata in un limite, ci vivo dentro, aspetto il momento di abbandonarlo, questo limite, la mia dimora provvisoria. Provvisoria come tutte le dimore, infatti, o come un corpo. Non assumo farmaci, la chimica è una briglia che trattiene, ci fa avanzare a passo inoffensivo. Comporta una redenzione anticipata, allontana dal peccato o forse, solo, insegna a chiamare peccato quell’esercizio della nostra libertà raggiunto in uno stato di pace – prima della morte, ovvio. Mamma prende le medicine, papà prende le medicine, mia sorella all’inizio no, poi sì, è diventata grande e l’ha capito. (…) Medicine: che bel rimedio. Tuttavia, non è il mio, meglio avanzare, selvaggia, sino al limite e poi decidere. Alla fine scopri che il limite si lascia vivere, verticale come non mai, rasente il nulla, e che non solo è possibile viverci, ma anche crescerci in tanti modi diversi. E se tutto sta nel sopravvivere, probabilmente la resistenza è l’unico modo per vivere intensamente. È ora, in questo limite, che mi sento viva, viva come non mai».
 
Una donna adulta narra la sua storia; lei stessa appartiene a quei racconti presi per frammenti, incollati come si farebbe con un vaso rotto: un vaso importante, come gli oggetti che non sono mai soltanto oggetti e foderiamo con una parvenza d’anima, con ogni ricordo e una speranza sempre verde che si avveri ancora almeno un frammento di tempo già vissuto: passato, svanito e desiderato ancora.
Si assiste così al dipanarsi di una trama contenuta nell’assenza: poiché tutto è vuoto e tutto si rincorre, e si declina in ogni verso e con ostinazione un disperato bisogno di calore, che però non si dice. Dire è superfluo, dire è maschera e finto consenso. Le ammissioni passano per la sorpresa, per gli affetti imprevisti, rari, ma così forti da fare impallidire i tentativi solo abbozzati e programmati alla lontana, di porre fine alla vita per dare una piega definitiva che sia frutto di una scelta consapevole, all’esistenza di chi si lascia a malapena trascinare dagli eventi. Morire sarebbe una risposta netta, in quel caso. Sarebbe come dire che uno decide per sé almeno una cosa macroscopica, dopo mille rinunce e altrettante imposizioni.
Le cose liete sono piccole, infinitesimali, disseminate tra le righe con fare quasi casuale. La corazza assorbe bene i colpi imprevisti: il fato è un vecchio giocoliere dato in pasto all’indolenza e alle costanti invasioni di una figura materna che non conosce la pratica gradita di chi sa tacere per comunicare meglio l’essenziale. Lei non sa godere delle piccole cose: ciò che conta è apparire fiera, agile, perfetta, magari un pizzico sottomessa, come fa la seconda figlia, la sua prediletta: diventata presto madre e moglie, non è che un piccolo automa incapace di dare ascolto al proprio istinto e a una natura intima e benevola.
Attraverso quelle lenti distorte, tutto ciò che non soddisfa i criteri altrui confina coi territori aridi delle mediocrità e resta indesiderato, dimenticato, sullo sfondo dei giorni vissuti con la meccanica del dovere.
Le pagine scorrono senza attriti; e non disdegnano i risvolti amari stipati dentro un nucleo familiare astruso, paradossale, gelido. Il cuore batte pure sotto la metafora azzeccata di uno spesso strato di permafrost; batte e sputa sangue caldo che irrora i pensieri e scalda le mani a conca su seni di donna: forme morbide, addentate e contemplate, pregne di un calore liquido e fuggevole. Non si può abusare neppure della parola amore: bisogna lasciarla ai fortunati, ai coraggiosi, fare pace col fatto che forse la si sognerà sempre, restando in debito costante di meraviglia e di sconfinato affetto. Ma col buono che c’è, col buono che resta, ciascuno avrà la propria forza ornata di piccoli e grandiosi ritagli di conforto e di stupore, a spezzare alti strati di fredda e inospitale diffidenza.












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