lunedì 24 gennaio 2022

Cronache di una Svista

 
Ho confuso due nomi simili per svista, per un Yamamoto che alla fine mi ha convinto che due fossero uno soltanto; e perché ero assente, ero in viaggio con la fantasia, ovunque ma non qui.
Ho scoperto un modo per riportarmi a un presente che talvolta impersono mio malgrado, affidandomi a una conferma che giorno, dopo attimo, dopo esperienza, trovo puntuale e in grado di salvarmi: fare le cose per impegno, per tenacia, è ciò che dà sapore alla mia stessa buccia, all’interiorità che trapela, mi ribalta e spesso mi soverchia; è lei che prevale, non io. Mi sembro una donna al rovescio, per una specie di bizzarro e sconveniente caso, che vivo con una imperturbabile eleganza, dove “imperturbabile” è l’unico punto certo, volendo considerare ancora l’apparire. E l’eleganza la metto lì perché mi piace, nei modi più che nelle vesti. Magari a forza di evocarla quella viene e non si ferma a una copia sbiadita della stessa, che prende slancio da una specie di andare quieto, dimesso, quando invece a volte implodo, a volte mi capita di incenerire cose con uno sguardo e uno magari si trova a voltarsi dall’altra parte, e gode delle mie reazioni placide ignorando lo scampato pericolo.
Ho il vizio di perdermi in riflessioni arzigogolate, almeno fino a che non mi capitano episodi di soli, sublimi slanci di un istinto che uno dice: che fai, non la metti ‘na botta di squisita follia di tanto in tanto?
Sì che la metto. E la voglio pure, e sia lodata quando arriva e mette in discussione tutto. Che visione romantica ho della realtà, dell’amore, del viaggio, del bene e pure del male. Mi viene in mente l’umano, umanissimo Satana che John Milton anima di un soffio a dir poco eterno, a dir poco alto e ammaliante, quando dice:
«La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.

Che cosa importa dove, se rimango me stesso? (…)».
 
Si familiarizza pure con Belzebù in cattivissima persona, perché assume il male in ogni tratto, diventa e continua quel male, ma lo rende pensato, animato, ragionato: scriverei chilometri, secoli, oceani e oceani di cose su questo, ma invece ora torno al punto iniziale. Torno al cognome Yamamoto giusto per riprendere quel filo che troppo spesso dimentico di seguire, e che srotolo assecondando i salti che la mia mente fa di continuo, non meno belli di quelli dei vecchietti nel video di Hoppípolla dei Sigur Rós.
Cercavo Masami Yamamoto, quando per sbaglio ho scritto Masao sulla tastiera. E allora ho seguito somiglianze non per forza letterali tra un uomo e una donna, e l’arte che nelle loro mani e menti si snoda in due maniere non identiche ma direi quasi complementari; se non nel prodotto finito, almeno nelle sensazioni che mi arrivano quando mi fermo a guardare ciò che fanno. Uno mette in foto di dimensioni ridottissime la poesia del corpo e dei luoghi, la poesia e la malinconia delle attese, il silenzio, il chiarore della neve e il peso leggero che muove ogni essere vivente, quando non deve giustificare il solo fatto di esistere.
L’altra impasta le mani nell’argilla ancora morbida, anticipando la durezza di carattere di un materiale che a pensarci pare attraversi anche lui la morbidezza e la scorza di chi si fa coriaceo e malleabile all’occorrenza, o per sentimento.
 
Di Masao Yamamoto mi restano in mente i colori-non colori, le ombre lucenti, il buio che da solo viene e infila mille cose piccolissime negli spazi affatto angusti della fantasia: è in ciò che non si vede a un primo sguardo, in tutto quello che si annida dietro l’angolo, nella pagina successiva, nella sequenza di scene che viene dopo la dissolvenza e nel buio, specie se non fa paura, che si percepisce il nuovo, l’incognita, il potere rinfrancante della scoperta.
Certo, scoprire sé stessi e gli altri non è mai cosa semplice. E allora ecco che le donne ritratte nelle foto si curvano, si svelano e si celano a metà, seguendo un ritmo che non si può prevedere e che non serve spiegare: ciascuno vede la bellezza che può e che vuole; e la danza che sembra nascere persino da un corpo immobile, catturato in uno scatto e ormai fermo in un tempo che è passato e non è più possibile proporre immutato. Le forme sono sinuose, la pelle ha un pallore di luna e sorge dal buio: imita la sensualità morbida di un fiore, i rami curvi e spogli di un albero, il sesso che a malapena viene suggerito, e tanto somiglia al frutto maturo che cade, si schiude, lascia colare il succo in gocce dense e vischiose come miele. Tutto parla della natura (umana), in quelle foto. Del resto è proprio alla natura che dovremmo fare riferimento in ogni istante. E dire: soffro come il salice che piange, ho qui baci di fragola ma hai forse tu ciliegie più buone da addentare? Mi fa male la testa, mi fa male ciò che manca, come a una pigna che cade dall’alto e si schianta al suolo: cosa credi che non soffra, solo perché ha uno scheletro duro?
Se ti penso sai di anguria, e mi fai il solletico ai pensieri come tu fossi tutte le spighe di tutti i campi, quando il vento le accarezza.


Masao Yamamoto ❀



 










E invece siamo umani, siamo carne, siamo vesti afflosciate sulle sedie, sui pavimenti; vesti a costringere e da abbandonare: pare un movimento da poco ma sai quanto sforzo, sai quante maschere, quanto peso, quanta agognata leggerezza. E quanti schemi, quante assurde mode da scansare, quanto si trovi il corpo a lavorarle quelle stoffe, a piegarsi lasciandosi piegare, a stringere e costringersi e nemmeno un abbraccio che ritorni da tutto questo dare e prendere, e vestire, e spogliare.
Masami Yamamoto e le sue sculture morbide, che quasi sembrano contenere ancora un frammento del respiro di chi finalmente è nudo, pelle contro aria - o pelle contro pelle, nel migliore dei casi – racconta di quanto di noi ci sia, in ciò che non indossiamo (più). Quanto singolare sia che le forme insistano e insistano fino a piegare i tessuti, e che questi ultimi raccontino di chi li ha indossati per lungo tempo: nei punti che risultano allargati, sfibrati, bucati, scoloriti. Nei punti che dovrebbero essere ritti, e invece conservano la forma dei fianchi, dei seni, il punto in cui le ginocchia spingono all’infuori quasi a voler dire che il corpo si trova lì per caso, ma eccolo che prende la rincorsa, lo scheletro spinge, prende un nuovo slancio per scappare via.
Le cose che non indossiamo poi, assumono davvero un significato assoluto, talvolta: io sono la gonna che resta nel mio immaginario di stolida e dolorosa perfezione: quella che si arrampica sulle cosce, quella che è un imperativo essere femminile; ma poi mi compiaccio se la femminilità mi viene pure in scarpe da ginnastica, pure arrotolata in un plaid come in un super-involtino. Comunque troppe volte sono stata con l’immaginazione in bilico su tacchi che mi riprometto sempre di indossare per qualcuno, su superfici piane tipo il pavimento di una casa stabile, niente scosse, ma neppure minime: potrei rotolare per la più impercettibile inclinazione di un ipotetico terreno, per eventuali pezzi di ghiaia, foglie, code di gatto da scansare, stelle da dover guardare per forza, cose indicate all’ultimo istante da una mano vicina, di quelle che poi se non le guardi subito chissà cosa ti perdi e non te lo puoi perdonare mai per i secoli dei secoli.


Masami Yamamoto ꧂



 

















Ma non è solo un fatto di autoironia: le cose che non indossiamo, io credo, dicono davvero molto di una visione ideale che forse abbiamo mancato per un soffio; e della persona che forse saremo, ma anche di quella che non saremo mai, perché si capisce che l’abito è solo un pretesto, è solo la forma che prende il dolore quando non ha più parole da versare. In fondo col tempo si capisce che alcuni punti sono solo una piccola, spensierata parentesi. Un costume e una maschera, una iperbole, un soggiorno molto breve sull’isola di Utopia. E va bene così, non è mica un dramma.

Troveremo altre vesti da scegliere, ben altre cose avranno il compito di non costringere ma di rivelare, di non nascondere ma di portare in superficie e avvolgere, accarezzare, divertire, alleggerire i corpi, le forme dei corpi, le stoffe che parlano dei corpi mentre quelli respirano altrove, in libertà.
A volte mi dico che sarebbe bello respirare così: a pieni polmoni, come fa il vento quando soffia tra gli alberi e sposta le nubi, rincorre le foglie, arriccia le onde del mare, e allora lo imito quel vento, ma non so se ci riesco, se sono credibile. E penso alla bellezza di un fiore di brughiera: magari un giorno saprò essere anche io, bella così.


mercoledì 19 gennaio 2022

Questa Non è Una Pagina di Diario

 
Questa non è una pagina di diario.
Questa non sono io che mi lascio fermare da spilli di sole sulla stoffa che non ho, sulla stoffa del vero, sulla stoffa dell’idillio consumato nelle favole; perché a me basta quello di un fiore che spunta con la polpa e con il sale dalla sabbia: fiore che pare di gomma, fiore che vuole spuntare perché da una riva lontana gli arrivano racconti fe-no-me-na-li, bisbigliati dalla conchiglie, da marinai invisibili, da corde mangiate dalla fame che ha il tempo, quando è notte e nessuno lo sente avvinghiarsi alle cose, avvinghiare l’aria, la carne e deridere le luci aggrappate ai pali, ai fili: luci veloci un soffio, vecchie già sul punto di nascere. E invece uno col bagliore delle stelle va proprio sul sicuro: quelle magari sono pure morte; ma vai a conservarla tu che sei uno qualunque, una simile grazia. E come la conservo una tale bellezza io che sono te, che sei uno qualunque; io che al poco sottraggo ancora un punto e resto sull’orlo di tutto a ringraziare pure per niente. Ho una super-vista, quando si tratta di capire e carpire le cose nascoste, tuffarmici dentro con almeno un triplo salto carpiato: se sei attento lo vedi dai ghirigori sulle pupille e sotto l’intrico delle ciglia che offro, che non so stare vuota e rassegnata mai, mai, mai.
Questa non è una pagina di diario, perché se lo fosse non avrebbe questo aspetto.


A me invece piace credere che tutte le cose abbiano già in sé un principio di irrinunciabilità. A pensarci bene è una cosa che spiazza. E mentre NON scrivo una pagina di diario mi convinco di un’idea che da sempre mi accompagna: se ci fosse solo giusto e sbagliato, sì oppure no, questo e non quello, allora sarebbe tanto facile viversi. Allora sì che sarebbero bravi tutti a non barare, a non perdere, a non fare e dire e provare cose senza senso, salvo scoprire poi che il senso c’è, e non sempre lo si decide a priori; invece sono molte le volte in cui un significato si adatta a una sola circostanza: una che vale per uno e non per le due, tre, cinque volte e persone a seguire. Sarebbe davvero troppo facile imparare le regole e non discuterle mai. Sarebbe facile, riduttivo, avvilente e noioso – oltre che presuntuoso, mi sa – dire: “no, io non lo farò mai, non lo capirò mai”. E via con una sfilza di cose buone per chi pensa bene. Ma a me interessa pensare vivo, pensare mio, pensare bene per me. Perciò quando mi fermo, quando taglio, rivedo, rinuncio, ricucio, dico che se una cosa viene e non mi arriva addosso giusta, dritta, liscia e scorrevole, allora non è giusta per me. Se non mi agita, se non mi fa impetuosa e imprudente, se non mi fa guardare lontano, non può tenermi in alto come vorrei e io resto perplessa, combattuta, disordinata in tutto: a quel punto bisogna che la riconsideri.
E penso: ciò che rende irrinunciabile una cosa, un luogo, una persona, è proprio il fatto che si è pronti a rinunciarvi se una serie di particolari sensazioni, istinti, cose da irriducibili Amélie non si presentano, lampanti. Le cose di Amélie che solo a scriverlo mi pare ridicolo, ma insomma voi sapete che se io infilo le mani nei chicchi di caffè e godo in maniera inaudita, ecco: mi viene in mente lei.
Ora però torno al punto fondamentale, perché se no va a finire che mi perdo.



















Perciò mi sono detta: è ora di provare una camicia bianca, e il prossimo passo saranno due bei papillon, i capelli raccolti, un rossetto vivace. Una visione nuova di me, tra le visioni nuove.
 
Ho ficcanasato tra le pagine dei Diari di Sylvia Plath. Voglio farlo in maniera approfondita, ma un’altra volta e non adesso. Perché adesso già mi muovo in altre cose profonde, ed è un attimo ritrovarsi spalmati in un punto troppo lontano dalla superficie. Meglio che io resti qui, dove lei comunque arriva forte e chiara e mi concede linee guida deliziose, promemoria che a tratti mi paiono invincibili:
«Leggi un racconto. Pensa. Puoi farlo. Soprattutto, non devi continuamente fuggire nel sonno - dimenticare i dettagli - ignorare i problemi - costruire barriere fra te e il mondo e tutte quelle ragazze allegre e brillanti - coraggio, pensa - tirati fuori. Abbi fede in qualche forza benefica che sta oltre il tuo io limitato. (…) Non devi cercare una via di fuga in questo mondo. Devi pensare».
Certo, bisogna dire che vi sono vie di fuga allettanti. Di quelle che prestano rifugi più che sostituzioni, negazioni più che forze nocive, di quelle che intravedono l’essenziale, ciò che si brama e segretamente si implora per sé stessi e a sé stessi soltanto, e poi lo si evita per totale, oscena, implacabile paura. La stessa paura che poi perde se gareggia con le voglie, con l’autentico, con la spinta vitale che preme, preme, e fa deragliare ogni proposito di mantenersi intatti. A chi importa restare interi, in fondo, se questo significa dormire un sonno eterno anche da vivi, da svegli? A chi importa se alla fine stare al sicuro pareggia i conti col non emozionarsi mai più del dovuto? Le emozioni non hanno troppi limiti, margini di sicurezza. Errori sì, molti. E pure sviste, debolezze tra le quali muoversi a zigzag tentando di non farsi ridurre proprio a pezzi microscopici, e terreni malleabili sui quali muovere passi sconosciuti. Poi languori, languori, languori…
Era genuina e potente Susan Sontag, restando in tema di languori, quando diceva delle cose seducenti a proposito dei corpi.


Seducenti perché si resta incollati al concetto espresso, che pare un incrocio di rette parallele: un simbolo sinuoso come d’infinito, che continua, continua, si ripete, non finisce; e tuttavia lo si vede e pare sempre fresco, scattante, mai stanco. Se col mio corpo tocco un altro corpo, allora posso dare per certo che di corpi ve ne sono almeno due: il mio e l’altro. Vi è quello che tende una mano e quello che riceve un intrico di carezze fittissimo, che comincia lieve, col picchiettare di dita incerte su pelle conosciuta solo per evidenze, a un primissimo approccio. Una novità stordente, anche solo a formularla coi pensieri, anche solo volendo dare all’immaginazione un contorno straordinario, rifacendosi a piccole, sospirate cose ordinarie: la danza di uno sguardo assorto, appeso a un vasto orizzonte. Oppure la curva del collo e le onde agili dei capelli, scosse dal vento di maggio.

Ora sto proprio divagando, ma succede. Anche se come dicevo, questa non è una pagina di diario. Ma in quanto a corpi, mani su corpi, voglie di parole e persone, e pagine con dentro tutte queste cose, mi viene in mente Guido Morselli che ne ha segnate di riflessioni alte, buone, magiche e aperte come le ferite quando sono belle. Perché chi lo dice che non sono belle? Provate a raccontarle a chi di dovere e vedrete. Provate a fidarvi, bene al di là degli esiti di una cosa compiuta, fondata o infondata, fantasiosa o terrena, e vedrete quanto poi sappia di buono anche mettere insieme rivelazioni sull’altro e su sé stessi, da cocci piccolissimi sparsi in ogni dove.
Io non ho mica un gran rapporto col mio corpo, però stiamo facendo grandi cose io e lui. Stabiliamo patti più che decorosi ormai da un pezzo: se soffriamo lo facciamo insieme. Se godiamo, pure. Va bene tutto, purché non si resti soltanto nell’ombra, del tutto al chiuso. E se lo si fa, siamo d’accordo: succede. Litighiamo quel tanto che basta, facciamo una pace contorta, smezzata; poi balliamo, brindiamo ai passi fatti e a quelli che faremo. E vediamo nascere mappe astratte nell’aria che ci precede: strambe versioni di un Gulliver in debito di carezze. Carezze a misura di lillipuziani, precise e agguerrite e sonnolenti, e avventurose.
Col corpo che è nostro, col corpo affidato e confidato, prestiamo a noi stessi una visione che viene da chi scegliamo di scegliere: bisogna andarci coi piedi di piombo, divertirsi con cura e difendersi con spensierato clamore.
Questa cosa del corpo poi, Morselli la diceva in molti modi. In uno ho trovato una sorta di filo saldo e promettente che adesso lo sento che arriva. Arriva e si piazza qui in chiusura di questa cosa qui che non è una pagina di diario, così spazza via tutto il resto.
Se questa fosse stata una pagina di diario sarebbero piovute lettere, sarebbero piovute a caso, avrebbero allagato tutto, nutrito la terra vergine delle riflessioni e dei sentimenti inesplorati. Quante cose ancora potrei scrivere, ma no: lascio il mio spazio a Guido Morselli che almeno lo sa bene come si fa un diario. Io non so proprio nulla, se escludiamo un desiderio fortissimo che lo sappiamo tutti: se lo dici ad alta voce non si avvera. E io non lo dico, casomai lo faccio. E se proprio non lo posso fare, vi dirò: sono brava con le alternative. Ne costruirò di spettacolari, di scenografiche, cose da visionari. Cose da pazzi.



 
 


domenica 16 gennaio 2022

Carus, Caritia: Voce del Verbo Accarezzare

 

       Ruote che grattano l’asfalto in un circuito di poche leghe: 20.000 a cui sottrarre zeri in quantità; l’immaginazione arrotonda per eccesso, ma la logica riduce le distanze tese a separare dall’agognata meta. Le posa su terra compatta, su asfalto rovente o freddo come i luoghi scordati dal Dio di tutti e di nessuno, fuori dai nuclei di vie esposte e abusate, coi passi accaniti e distratti; accanite pure le soste forzate di tutti e in mezzo a tutti, in fila come anelli scalcinati, legati e sconosciuti: promessa di senso mancata, soggetta all’imperativo del divertimento scansata una e cento volte in poche ore.
Lei lascia schioccare due piccoli dadi colorati nascosti nella tasca dei jeans, mentre attende che vengano a prenderla. L’automobile arriva presto, e non sembra poi così nuova e accogliente. Si accomoda con fare solenne su un sedile sgualcito, la portiera dell’auto sigilla il momento con un tonfo ovattato; La scritta Taxi campeggia insolente, incorniciata da un neon dalla luce ottusa, sbiadita. Il tassista ha una massa di capelli nero carbone, folti e riccioluti, resi perfino più scuri da una notte incipiente.
Le ruote slittano sull’asfalto, la pioggia cade dapprima riluttante, poi esita sui tergicristalli: le gocce catturano stille di luce fioca dai neon aggrappati alle schiene dei palazzi, luci gialle sul ciglio della strada, insegne di locali riempiti per metà, a stento: come bocche spalancate, fagocitano chi vi mette piede e chi vorrebbe andare altrove; eppure resta lì, con sottile incantesimo. Resta lì, perduto in voglie mai sfamate, in nostalgia dagli echi grossi come voci di orco ad ascoltare note diffuse nell’aria, a tratti cupe, grigie e quasi vive: sembra abbiano almeno cento mani in ogni frammento, pronte a toccare menti aperte ed esposte al gioco di tutti, impudiche.
 
Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così.
Non dire una parola che non sia d’amore.
 
Lei che è donna vorrebbe scrivere una lettera con lo stesso tono biascicato, cavernoso e cupo di Lindo Ferretti. Voce uguale, vibrante e contraria, protesta graffiante contro gli elogi ai tempi quieti, mezzi morti.
Le parole scritte non hanno impedimenti ma intenzioni. E lasciti, armonie e disarmonie, risvolti da affibbiare al tempo che sfugge inclemente, come se fosse tutta sua la colpa di chi non trova pace.
Lancia i dadi e quelli corrono su un sedile dalla fodera sgualcita. È solo un gioco, si dice: ad ogni mossa corrisponde una carezza, nel tempo delle carezze negate. Nessuno osa più darle, le mani servono solo per rimboccare le maniche e per dirigere le orchestre, che sono carezze forti pure quelle: lascive, intense e intese, doloranti, pizzicate e felici, utili a fare il buono e il cattivo tempo.
Trae la somma utile da quel lancio distratto: lui le deve cinque carezze.
Gratta via una mezzaluna d’inchiostro da un dito: blu scuro quasi nero, come fondi d’oceano e tempestose notti lasciate all’orizzonte d’un calvario personale. Il tempo è da sorreggere nell’incavo dorato di un calice coi residui del vino a sugellare patti sbilenchi con chi si ama e non si ama, con le ore che sfuggono tra le dita come carezze a lungo attese.
Lei lo conosce bene, il tassista. Ride mentre bussa alle sue spalle.
«Voglio che mi porti in un posto felice».
Dalla fossetta marcata su una guancia, indovina il tendersi di labbra rosse e rotonde: si accorge che lui sta sorridendo a un’idea che non aveva contemplato. Sorride alle pose di una donna che è lì pure contrariata e odorosa di sonno e caffè tardivo, incenso e un lieve e odioso sentore di sigarette di certo rimastole impigliato tra i capelli per colpa di un passante frettoloso, della poltrona di un cinema scordato, intrisa di sogni, umori e carezze furtive. Oppure assorbito controvoglia nei locali angusti di un bar di periferia. Due donne piacenti, una taciturna e l’altra pronta a un lungo soliloquio in cui dice sempre Io: prima, assoluta e indisponente persona singolare, in un costante, vuoto, imbarazzante esercizio dell’ego. E intanto fuma come una ciminiera e non riesce a smettere. Ridono di un riso amaro quando paragona i polmoni in palese sofferenza a uno Spongebob passato al lato oscuro. Polmoni come spugne cineree, che sbuffano, tritano aria, la soffiano via già viziata.
 
Lui invece ha un odore buono, come di assaggi di colazione fuori orario: pile di piccole ciambelle e frutti rossi a pioggia. Odora pure di cannella. Del resto la notte è ancora giovane, bisogna darle un anticipo della promessa lucida del mattino: si affida al sorgere del sole o ai colpi di spatola di nubi gravide di pioggia, la preghiera silente di chi vuole arrivare, pure trascinandosi, fino al giorno dopo. Farebbe di tutto per quel dopo, pure guidare senza sosta per vie deserte e grevi come la visione oscena di un corpo ridotto a lembi di pelle e viscere annodate.
Guarda con sufficienza i Precetti dei Non-Carezzanti che appestano la città come una malattia senza cura. L’ampio cartello affisso ai pali dei semafori, sulle saracinesche dei negozi e lì dove un tempo restavano affissi i nomi delle vie, recita:
 
1.    Non accarezzare mai nei giorni pari.
2.    Nei giorni dispari, previa autorizzazione del Capo Supremo, scegli un volto amico, amante, fraterno; oppure madre, padre, animale domestico. Tocca i contorni dei volti, le ciocche di capelli, i polsi, le dita (o zampe), come per accertarti che esistano e sappiano stare al loro posto. Nulla di più. Dalle 8.00 alle 8.30 nella Sala delle Mani, la pratica verrà resa possibile salvo essere interrotta in maniera tempestiva, in caso di insubordinazione (Carezze in zone non concesse).

 
Dal vano posteriore dell’auto, un tonfo sordo, meccanico, continuava a ripetere improbabili litanie; rintocchi irregolari per giunta: bussava una volta, poi niente. Tre volte, quattro, e di nuovo silenzio. Ai colpi seguivano mormorii attutiti da altri colpi e brusche frenate di lui, che rideva un riso amaro. E intanto allungava un braccio all’indietro, tentava di raggiungere lei. Le loro dita si agganciavano per un istante: indice contro indice, due piccoli ami senza lenza.
 
I taxi in città erano appena sei. Era fatto divieto assoluto di prenderne senza criterio. Le gambe erano il primo e concesso mezzo di trasporto: mappe in mano e via, verso un cammino di un’ora o un giorno, in lungo e in largo tra le destinazioni possibili.
Passando vi erano aree di sosta per chi doveva ricorrere allo schermo di un cellulare di ultimissima generazione, per ricordarsi di essere vivo.
Vi erano angoli adibiti alla lettura degli scampoli di libri rimasti al mondo: alcuni ne facevano un vezzo, altri una necessità. Il cibo era razionato secondo bisogno, o in base alla gravità dei folli che vi si approcciavano: a certi serviva il pane per non volare via in caso di tempeste. Ad altri lo zucchero filato perché non sapevano più concedersi di franare, veder crollare le difese; e allora volevano imparare a farlo con spumosa dolcezza.
Ad ogni taxi era dovuta la presenza fissa di un guardiano che riferiva per filo e per segno percorsi, comportamenti dei presenti, capacità del tassista di rispettare consegne e divieti. L’ospite doveva essere uno e uno soltanto. Il guardiano poteva pure essere donna: alle guardiane era permesso di indossare gonne lunghe fin sotto il ginocchio e un filo di rossetto color pesca.
Ma qui nulla si anima, niente gode del respiro dei vivi ad eccezione dei due presenti sul taxi. Lui ancora guida e sogghigna, solleva e abbassa il bavero di una giacca mentre i pensieri vagano senza un ordine preciso. Lei scruta di sbieco la forma ammassata al suo fianco, forma vagamente umana a fare le veci della guardiana: cumuli di stoffe accatastate, fogli accartocciati di vecchi giornali, un cappello a tesa larga come quello degli investigatori bravi, un po’ alla Tenente Colombo, alla Maigret di Simenon. Una finzione credibile solo da lontano.
Ancora due, tre tonfi ovattati dal bagagliaio.
 
«Chi è la guardiana lì dietro?»
«Cosa vuoi che ne sappia? È una nuova».
«Non arriveremo mai al confine».
«Sì che ci arriveremo. Tranquilla, sono troppo presi col Convegno per badare a noi».
«Ci faranno molto male, lo sai?»
«Magari ne sarà valsa la pena. Magari non ci prenderanno mai», e detto questo lui devia appena dal percorso stabilito. Frena in maniera brusca, si volta e le consegna un bacio che morde, assaggia, placa le tinte di ardesia di una notte incantevole a dispetto di ogni cosa.
La guarda solo adesso per la prima volta. Gli occhi paiono uno specchio limpido: così larghi e schietti, hanno un chiarore misterioso che bisticcia con le pupille scure e a suo modo avvinghia come i contrasti che confermano per diletto la tesi incerta dalla quale prendere un avvio perplesso.
Ha una canottiera bianca a costine, lui ne sente i rilievi sulla punta delle dita, li studia in fretta uno ad uno fino alla curva docile dei seni, al turgore dei capezzoli appuntiti.
Lei lo sospinge con un riso a metà tra una sorta di febbrile anticipazione e una paura dura come lo scheletro vivo dei crostacei.
L’uomo preme sull’acceleratore, pensa alle cose appuntite mentre percorre agile un intrico di vecchi budelli di vie deserte: le cime dei monti, l’anice stellato, gli artigli dei gatti, le guglie delle cattedrali gotiche, le unghie che sente sul collo, mentre un rivolo d’aria si infila dal finestrino e sembra quasi liquido, semina scie come bave di lumaca sulla pelle intonsa. La finta guardiana porta per dispetto appeso al collo il tesserino di riconoscimento. Si chiama Aurora e ha per testa un volantino stropicciato dei Precetti. Una donna finta col suo corrispettivo in carne ed ossa infilato a forza nel bagagliaio. E una donna vera di carne tremante sul sedile, seduta accanto a una finzione conclamata, che legge ad alta voce:
 
3.    La parola Carezza e quel che ne deriva, è stato accuratamente rimosso da ogni supporto cartaceo e digitale. Qualora un documento qualunque per grave svista riporti ancora tracce di una simile pratica, siete pregati di contattare le autorità competenti ai numeri forniti.
4.    A una folla è concesso di riunirsi solo ai Convegni e per ordine del Capo Supremo.
5.    Agli amanti verrà consegnato un congegno elettronico in grado di misurare le distanze. Un segnale acustico verrà emesso ad ogni tentativo di avvicinamento oltre la soglia consentita.

 
Sospirano all’unisono, mentre lei si appiattisce contro il sedile, cerca di farsi piccola come da bambina tra le braccia di suo padre. Le ombre si allungano ai margini della strada, diventano oblunghe nei pressi delle rade pozze di luce; sono appuntite come fauci spalancate, pronte a divorare chi vi passi attraverso. Nessun congegno per loro che ufficialmente, non si conoscono neppure.
Lei infila le mani in un taschino posto all’altezza del seno. Ritrova una chiave agganciata a un piccolo e tondo supporto metallico, con due facce: in una è disegnato un faro. Nell’altra, una serie di piccole onde puntute, blu come il mare che non vede da così tanto tempo. Le pare di poter seguire da lì il filo di un’agognata libertà: nei passi posati su un sentiero di sabbia, nelle rocce tonde come gusci di lumaca franate un poco ai lati, coi modi comunque aggraziati di pesanti fiocchi di neve.
L’ennesima richiesta di aiuto alle loro spalle, assai indebolita rispetto all’inizio del loro viaggio, interrompe i suoi pensieri e la loro marcia.
La strada è scura, desolata, solo le luci fosche di due fanali in lontananza interrompono il buio pesto di quel tratto di percorso. Lui afferra due torce e gliene porge una in fretta.
Scendono dall’auto col solo intento di far respirare un po’ la vittima e farle bere almeno un sorso d’acqua con del sonnifero disciolto in gocce. Lo fanno attraverso la benda ben stretta sulla bocca, quella fa per urlare ma ha troppa sete, troppa stanchezza addosso per poter anche solo sperare di farsi sentire, e che qualcuno l’aiuti. Lei osserva la guardiana con strana benevolenza. La poca luce si allea con le molte ombre intorno, crea riflessi ipnotici; per esempio, pare che proprio alla guardiana siano cresciute delle branchie sulla pelle nuda della schiena. Ha i polsi legati e lui li massaggia un poco sovrappensiero, chiede scusa, richiude, sale sul taxi. Le luci che prima erano lontane, man mano si avvicinano. Un altro taxi.
Lei è l’ultima a salire, la sua torcia per un istante illumina il volantino di alcuni dissidenti: Amor Pedestre è scritto a caratteri cubitali, come il nome di Marcel Fabre. E sotto ancora due parole: Per Resistere.
Da tempo si proiettavano in luoghi segreti che passavano di bocca in bocca tra i pochi fidati, dei film di vecchia e vecchissima data sopravvissuti al male incessante di una censura stretta, ipocrita, infamante.
Ad un cortometraggio risalente al 1914, muto per giunta, era affidato il compito di tenere alto il morale, la fantasia, l’idea salvifica del contatto umano, e l’ammirazione per chi con poco era capace di narrare una storia dai molti risvolti. Senza contare il fatto che gli arti inferiori di quegli attori recitavano in maniera ben più talentuosa e credibile di certi altri attori spacciati per tali per eccesso di ottimismo. Perché infatti erano i piedi, i polpacci, le ginocchia, a raccontare la storia di un amore fulmineo, un’attrazione morbosa e a suo modo ironica, tra due che non erano destinati a stare insieme: la donna sfugge all’uomo che la segue, l’accarezza coi piedi, avvicina le scarpe sue composte e lucidate di fresco, a scarpe di signora con tacco moderato e vesti svolazzanti tutto intorno.
A una lettera breve e accorata, implorante, è dato il compito di risollevare le sorti dei due: è la scarpa di lei a fare da cassetta della posta; ma il messaggio viene trovato e letto dal marito, e tutto sfocia in un duello che lo vede vincitore solo in via morale; infatti i due quasi-amanti infine si trovano, si avvicinano e lasciano cadere le vesti (e non le scarpe) in un lieto fine piuttosto audace per quei tempi.
 
Sorride tra sé, non si accorge dell’altro taxi che accosta vicino al loro, dal suo lato. Chiedono qualcosa che lei non afferra, mentre lui invece sbuffa, abbassa il finestrino, risponde alle voci lì fuori che sì, va tutto bene. Solo un guasto momentaneo: riavvia il motore, quello pare protestare e riprendersi a scatti, a singhiozzo.
Per un istante, mentre salutano, vedono la faccia disperata dell’altro tassista. Occhi tristi, cravatta troppo larga, maniche di camicia arrotolate su braccia scheletriche.
Il guardiano si distingue a malapena nel buio dell’abitacolo, ma si muove, è lì; niente corpo ricostruito con fogli di giornale e vecchi stracci.
Vanno via, il sollievo si tramuta in una risata frettolosa e in perfetto sincrono. Riprendono il loro cammino mentre lei pensa ancora ad Amor Pedestre, lo racconta a lui, riflettono su quanto sia ingiusto e paradossale dover coltivare il senso e i segni di un contatto umano a legare chi ancora ricorda di esserlo: in carne ed ossa, in preda alle incertezze, al vuoto diffamante di un’esistenza spoglia di ciò che conta.
E come a scuola, come da bambini, occorre ripassare le nozioni principali, passare addirittura alla visione di una pellicola senza parole, senza volti, senza mani, ma con tanta vicinanza. Per non dimenticare la necessità dello starsi accanto, la sensazione del contatto pelle contro pelle, pure presa alla lontana e di sghimbescio come in una narrazione a suo modo rivoluzionaria.
 
È già quasi l’alba. Dei rimasugli di notte restano impigliati in un luccicore di stelle ostinate, in una falce di luna color latte e argento. La canottiera bianca a costine della sua donna, pare quasi un imperativo; ora è macchiata da ciocche di capelli mossi: fili di inchiostro e di sonno rubato al viaggio, all’angoscia del non sapere il punto di arrivo e di non-ritorno. Lei si accorge di essere guardata, si avvicina al suo orecchio, bisbiglia: «Sai cosa faccio adesso?».
Lui inghiotte a vuoto, ingrana la marcia, ravviva i ricci, con una mano insegue la sua e la trova sui jeans, tra le cosce spalancate. La preme avendo ben pochi margini per migliorare approccio e riuscita. Eppure lei sospira, «potrebbe essere l’ultima volta», dice. E a lui non resta che far sì con la testa, scalare una marcia, passare in rassegna ogni rimpianto e vederlo affievolire con la sua sola voce.
Passa poco tempo dopo l’ultima carezza, e arrivano con incredulità di entrambi al posto programmato. Scendono dal taxi con aria diffidente, guardinga. Si prendono per mano, a dispetto della prudenza usata fino ad allora. Si trovano in un lungo rettilineo con la sabbia raccolta ai lati della strada e ipotesi di vecchie canne di palude, immerse in rivoli d’acqua affatto convincenti. Alla loro sinistra, un sentiero trascurato e tuttavia percorribile con l’auto fino ad un certo punto. Devono fare in fretta, arrivare al molo e alla lingua di terra che li condurrà al faro ritratto sulla chiave che adesso lei rigira tra le mani, impaziente.
Ancora pochi giri di ruota, minuti contati alla rovescia e scanditi dai pugni dell’ostaggio chiuso nel suo inospitale alloggio.
Scendono per l’ultima volta dal taxi, vengono accolti da un fischio breve: viene dall’uomo con gli occhi tristi e le maniche di camicia arrotolate su braccia esili; le muove, queste ultime, imitando una danza sgraziata e felice. Il guardiano ha i piedi nudi e danza pure lui, seguendo una musica che ha solo in testa. Continua a spogliarsi finché, nudo, si getta nelle acque mosse del mare.
Corrono a liberare la guardiana, non avevano tempo di spiegarle tutto: conta pochi anni di vita sulle spalle, a malapena quindici, forse diciassette. Non sa nulla del Vecchio Stato.
La liberano con cautela, lei si divincola, li guarda con ferocia. Poi, per la prima volta vede il mare. Una lacrima le solca una guancia, mentre con poca fatica sciolgono un piccolo nodo alla base dei polsi: la benda non lascia il minimo segno, in quella pelle candida.
Muove passi stentorei, adesso piange, singhiozza, scorda la vendetta. Riconosce il tassista che continua a ballare e ululare a un’ombra di luna sopravvissuta alla notte. Si guarda intorno, cerca un segno d’assenso, lo trova e corre ad abbracciarlo.
 
Il piano era dare fuoco alle auto, nascondersi lì, dormire nel faro raggomitolati per terra, vicini, per difendersi dal morso freddo della notte. Curare una piccola barca a remi nascosta sotto cumuli di sabbia e sterpaglie.
Nella notte seguente, notte di luna piena e mare calmo, qualcuno avrebbe potuto vederli: stretti, nudi e felici, su una barca che pareva fabbricata da Caronte e una luce di lampara: cauti e incauti al contempo, grati per un solo scampolo di umanità ritrovata.

Laura Makabresku ♥


giovedì 13 gennaio 2022

Il Doloroso Bramare di Giacomo Manzù

 

Ora mi metto qui a raccontare la storia che mi viene e non quella che so, su Giacomo Manzù e Inge Schabel.
Quella che mi viene, perché prima di approfondire qualunque spunto, lacuna, incontro, gioco, mi viene voglia di accoccolarmi, planare, capitolare sulle cose; finirci con dolce schianto, così il bernoccolo è tutto mio e la dolcezza spero risulti almeno da fuori, per una sorta di etereo disordine, di caos bambino ed entusiasta che forse concede poco o nulla, ma nulla toglie davvero. Spero sempre ci sia per me una forza, un’energia latente e ben tenace, che mi ravvivi all’improvviso e a tratti si addormenti; tanto poi ci risvegliamo insieme ed è così che ha senso vivere: in una sorta di vertigine buona, un sali-e-scendi che non si sa mai cosa capita, ma qualcosa capita. Capita perfino di farsi male e lo si prende, quel dolore. Lo si accompagna e lui accompagna a sua volta, perché la strada da fare è sempre una per entrambi. Una soltanto. Il patto valido per sempre, è quello di sporgersi a guardare gli orizzonti, le altezze e le lunghezze da punti che l’altro non può prevedere in ogni momento. Ogni tanto fermarsi per capire quando è stata “l’ultima volta che”… e via coi verbi e le supposizioni a riempire gli spazi vuoti tra i puntini. L’ultima volta che hai sorriso, abbracciato, letto, protestato. L’ultima volta che hai baciato qualcuno senza baciarlo per davvero, quando è stata?
L’ultima volta che ho pensato a quanto morbido può essere un materiale solido e ostico, è stato al museo Manzù. Mi capita spesso lo stupore, e in questo caso viene, cresce e si crogiola nella visione di un corpo teso come la corda di un arco: corpo di statua che imita l’essere umano, essendo immobile e apparentemente morto, senz’anima; eppure così vivo, che a seguire l’intrico di vene su un polso pare quasi di vederle pulsare; pare quasi che vi sia poco distante una mano che partecipa al gioco e accetta un invito neppure pronunciato. Dita pronte a relegare tutto sullo sfondo, oltre la parentesi divina e presente di due che stabiliscono un contatto e restano lì a reggerlo forte, senza temere nulla, né temersi loro.
Mi piace quel prodigio, non voglio sapere la teoria adesso; e pure sapendola poi, non cambierebbe proprio niente. Direi ugualmente ciò che mi arriva di un Giacomo Manzù col suo sguardo aperto e fugace al contempo, l’attenzione selettiva, il guardare per capire e riprodurre secondo una mistura di carne e sentimento. L’artista che serve una causa comune, scavalca la gloria in favore di una cosa che funzioni, che rimanga a raccontare a uno o a cento, la verità emotiva di un solo attimo, di una scintilla: eccola qui una sorta di sehnsucht, la malattia del doloroso bramare. La realtà delle cose che formano la persona e la sana follia che lo anima; i ricordi come un insieme di coordinate che a seguirle si capisce perché siamo sempre così finiti e incompiuti: un compromesso, un accordo smezzato; in continuo divenire ma quasi del tutto inermi davanti alle tempeste del volere e del bisogno, intenti ad afferrare il guasto, la tenacia, e la miscela delle due parti in dosi casuali ma impetuose, ponderate e impetuose di nuovo: non avrebbe incontrato la sua Inge, Manzù, se si fosse fermato a una bellezza che deve essergli apparsa molto alta, pronta a intimorire. Un po’ come le sue statue dei cardinali: grosse, imponenti montagne scure, coi volti scavati e le stoffe a piovere su un corpo visto largo e maestoso dal basso e via via più sottile: piramidi umane in salsa sacra dall’aspetto quieto e pensieroso, a fare capolino da mucchi di stoffe adagiate sui loro corpi in copiosi drappeggi. L’idea dei colori d’oro e di terra, trapela perfino da una visione uniforme: il bronzo smette di essere tale e veste tinte abbaglianti solo nella fantasia.
 
Una morbidezza uguale nei significati e nelle forme, sfugge facilmente da una natura morta poggiata su sedia. Una sedia che a vederla lì pare solo funzionale, e invece Manzù la raccontava così: «La sedia è l’eredità che mi ha lasciato mio padre. La sedia che è diventata un amore formale, un tema di scultura. Perché tutto quanto è venuto dopo viene dalla povertà, dalla povertà di una povera sedia. Io sono felice di essere nato nella povertà. Per povertà intendo essere uomini, quelli che siamo e non illuderci di poter essere diversi per le cose che possediamo».



Ho amato in maniera smodata la serie di sculture sugli amanti, unita a litografie e acqueforti viste in un piccolo museo dedicato all'artista. L’audacia e la struttura delle composizioni, che pure essendo immobili muovono chi le osserva. Si è costretti a girarvi intorno, perché sarebbe un peccato perdere un solo dettaglio; un peccato vero non sapere cosa accade, dove si posa una mano e come fa un braccio a cingere il corpo di chi ama sapendo che non è solo carne, non è solo pensiero, istante, voglia che lenta si innalza, si assopisce e si risveglia ancora, in un cerchio immaginario ben rodato. Tutto insieme, senza un preciso ordine. Si notano e innamorano la curva di un ginocchio, la bocca da cui sfugge un sospiro, le mani aggrappate, addossate: ogni cosa dei due amanti aderisce al tutto che si offrono reciprocamente.
E ovunque appare Inge: Inge regale, fiera, svettante; Inge amata, superba, sensuale e sinuosa, Inge che invita la mano amata a riprodurre le forme che percorre con sospirate cure, e si presta di volta in volta al gioco dell’artista e dell’amore di molti anni: terreno e ultraterreno, verrebbe da supporre. Oppure siamo noi irriducibili romantici, a doverlo supporre per forza di cose e di fatti. Senza crederci, non muoveremmo un passo, non crederemmo neppure a ciò che è possibile: perché l’impossibile lo abbiamo già in tasca e fischiettiamo incuranti per finta, mentre affermiamo che non ci importa nulla del nascondiglio di un amore da intendere e coltivare con la precisa intensità che plasmiamo sottovoce: chiediamo che vi sia, e la inventiamo ovunque con la forza bruta di un dio capriccioso, chinato ad ammirare il petalo di un fiore caduto ai suoi piedi; mentre intorno è tutta bufera e apocalisse: un pezzetto di sciagura piazzato lì con finta indifferenza, in attesa che Cupido venga e rimescoli tutto col solito, sublime ciarpame rosso cuore. Con le vittime in perpetuo idillio e ancora un’illusione, una soltanto, prima di dormire.