Questa
non è una pagina di diario.
Questa
non sono io che mi lascio fermare da spilli di sole sulla stoffa che non ho,
sulla stoffa del vero, sulla stoffa dell’idillio consumato nelle favole; perché
a me basta quello di un fiore che spunta con la polpa e con il sale dalla
sabbia: fiore che pare di gomma, fiore che vuole spuntare perché da una riva
lontana gli arrivano racconti fe-no-me-na-li, bisbigliati dalla conchiglie, da
marinai invisibili, da corde mangiate dalla fame che ha il tempo, quando è
notte e nessuno lo sente avvinghiarsi alle cose, avvinghiare l’aria, la carne e
deridere le luci aggrappate ai pali, ai fili: luci veloci un soffio, vecchie
già sul punto di nascere. E invece uno col bagliore delle stelle va proprio sul
sicuro: quelle magari sono pure morte; ma vai a conservarla tu che sei uno
qualunque, una simile grazia. E come la conservo una tale bellezza io che
sono te, che sei uno qualunque; io che al poco sottraggo ancora un punto e
resto sull’orlo di tutto a ringraziare pure per niente. Ho una super-vista,
quando si tratta di capire e carpire le cose nascoste, tuffarmici dentro con
almeno un triplo salto carpiato: se sei attento lo vedi dai ghirigori sulle
pupille e sotto l’intrico delle ciglia che offro, che non so stare vuota e
rassegnata mai, mai, mai.
Questa
non è una pagina di diario, perché se lo fosse non avrebbe questo aspetto.
A me
invece piace credere che tutte le cose abbiano già in sé un principio di
irrinunciabilità. A pensarci bene è una cosa che spiazza. E mentre NON scrivo una
pagina di diario mi convinco di un’idea che da sempre mi accompagna: se ci
fosse solo giusto e sbagliato, sì oppure no, questo e non quello, allora
sarebbe tanto facile viversi. Allora sì che sarebbero bravi tutti a non barare,
a non perdere, a non fare e dire e provare cose senza senso, salvo scoprire poi
che il senso c’è, e non sempre lo si decide a priori; invece sono molte le
volte in cui un significato si adatta a una sola circostanza: una che vale per
uno e non per le due, tre, cinque volte e persone a seguire. Sarebbe davvero
troppo facile imparare le regole e non discuterle mai. Sarebbe facile,
riduttivo, avvilente e noioso – oltre che presuntuoso, mi sa – dire: “no, io
non lo farò mai, non lo capirò mai”. E via con una sfilza di cose buone per chi
pensa bene. Ma a me interessa pensare vivo, pensare mio, pensare bene per me.
Perciò quando mi fermo, quando taglio, rivedo, rinuncio, ricucio, dico che se una
cosa viene e non mi arriva addosso giusta, dritta, liscia e scorrevole, allora non è
giusta per me. Se non mi agita, se non mi fa impetuosa e imprudente, se non mi
fa guardare lontano, non può tenermi in alto come vorrei e io resto perplessa,
combattuta, disordinata in tutto: a quel punto bisogna che la riconsideri.
E
penso: ciò che rende irrinunciabile una cosa, un luogo, una persona, è proprio
il fatto che si è pronti a rinunciarvi se una serie di particolari sensazioni,
istinti, cose da irriducibili Amélie non si presentano, lampanti. Le cose di
Amélie che solo a scriverlo mi pare ridicolo, ma insomma voi sapete che se io
infilo le mani nei chicchi di caffè e godo in maniera inaudita, ecco: mi viene
in mente lei.
Ora
però torno al punto fondamentale, perché se no va a finire che mi perdo.
Perciò
mi sono detta: è ora di provare una camicia bianca, e il prossimo passo saranno
due bei papillon, i capelli raccolti, un rossetto vivace. Una visione nuova di
me, tra le visioni nuove.
Ho
ficcanasato tra le pagine dei Diari
di Sylvia Plath. Voglio farlo in maniera approfondita, ma un’altra volta e non
adesso. Perché adesso già mi muovo in altre cose profonde, ed è un attimo
ritrovarsi spalmati in un punto troppo lontano dalla superficie. Meglio che io
resti qui, dove lei comunque arriva forte e chiara e mi concede linee guida
deliziose, promemoria che a tratti mi paiono invincibili:
«Leggi
un racconto. Pensa. Puoi farlo. Soprattutto, non devi continuamente fuggire nel
sonno - dimenticare i dettagli - ignorare i problemi - costruire barriere fra
te e il mondo e tutte quelle ragazze allegre e brillanti - coraggio, pensa -
tirati fuori. Abbi fede in qualche forza benefica che sta
oltre il tuo io limitato. (…) Non devi cercare una via di fuga in questo mondo.
Devi pensare».
Certo,
bisogna dire che vi sono vie di fuga allettanti. Di quelle che prestano rifugi
più che sostituzioni, negazioni più che forze nocive, di quelle che
intravedono l’essenziale, ciò che si brama e segretamente si implora per sé stessi
e a sé stessi soltanto, e poi lo si evita per totale, oscena, implacabile
paura. La stessa paura che poi perde se gareggia con le voglie, con l’autentico,
con la spinta vitale che preme, preme, e fa deragliare ogni proposito di mantenersi
intatti. A chi importa restare interi, in fondo, se questo significa dormire un
sonno eterno anche da vivi, da svegli? A chi importa se alla fine stare al
sicuro pareggia i conti col non emozionarsi mai più del dovuto? Le emozioni non
hanno troppi limiti, margini di sicurezza. Errori sì, molti. E pure sviste,
debolezze tra le quali muoversi a zigzag tentando di non farsi ridurre proprio
a pezzi microscopici, e terreni malleabili sui quali muovere passi sconosciuti.
Poi languori, languori, languori…
Era
genuina e potente Susan Sontag, restando in tema di languori, quando diceva
delle cose seducenti a proposito dei corpi.
Seducenti
perché si resta incollati al concetto espresso, che pare un incrocio di rette
parallele: un simbolo sinuoso come d’infinito, che continua, continua, si
ripete, non finisce; e tuttavia lo si vede e pare sempre fresco, scattante, mai
stanco. Se col mio corpo tocco un altro corpo, allora posso dare per certo che
di corpi ve ne sono almeno due: il mio e l’altro. Vi è quello che tende una
mano e quello che riceve un intrico di carezze fittissimo, che comincia lieve,
col picchiettare di dita incerte su pelle conosciuta solo per evidenze, a un
primissimo approccio. Una novità stordente, anche solo a formularla coi
pensieri, anche solo volendo dare all’immaginazione un contorno straordinario, rifacendosi
a piccole, sospirate cose ordinarie: la danza di uno sguardo assorto, appeso a
un vasto orizzonte. Oppure la curva del collo e le onde agili dei capelli,
scosse dal vento di maggio.
Ora
sto proprio divagando, ma succede. Anche se come dicevo, questa non è una
pagina di diario. Ma in quanto a corpi, mani su corpi, voglie di parole e
persone, e pagine con dentro tutte queste cose, mi viene in mente Guido Morselli
che ne ha segnate di riflessioni alte, buone, magiche e aperte come le ferite
quando sono belle. Perché chi lo dice che non sono belle? Provate a raccontarle
a chi di dovere e vedrete. Provate a fidarvi, bene al di là degli esiti di una
cosa compiuta, fondata o infondata, fantasiosa o terrena, e vedrete quanto poi
sappia di buono anche mettere insieme rivelazioni sull’altro e su sé stessi, da
cocci piccolissimi sparsi in ogni dove.Io
non ho mica un gran rapporto col mio corpo, però stiamo facendo grandi cose io
e lui. Stabiliamo patti più che decorosi ormai da un pezzo: se soffriamo lo
facciamo insieme. Se godiamo, pure. Va bene tutto, purché non si resti soltanto
nell’ombra, del tutto al chiuso. E se lo si fa, siamo d’accordo: succede.
Litighiamo quel tanto che basta, facciamo una pace contorta, smezzata; poi balliamo,
brindiamo ai passi fatti e a quelli che faremo. E vediamo nascere mappe
astratte nell’aria che ci precede: strambe versioni di un Gulliver in debito di
carezze. Carezze a misura di lillipuziani, precise e agguerrite e sonnolenti, e
avventurose.
Col
corpo che è nostro, col corpo affidato e confidato, prestiamo a noi stessi una
visione che viene da chi scegliamo di scegliere: bisogna andarci coi piedi di
piombo, divertirsi con cura e difendersi con spensierato clamore.
Questa
cosa del corpo poi, Morselli la diceva in molti modi. In uno ho trovato una
sorta di filo saldo e promettente che adesso lo sento che arriva. Arriva e si
piazza qui in chiusura di questa cosa qui che non è una pagina di diario, così spazza
via tutto il resto.
Se
questa fosse stata una pagina di diario sarebbero piovute lettere, sarebbero
piovute a caso, avrebbero allagato tutto, nutrito la terra vergine delle
riflessioni e dei sentimenti inesplorati. Quante cose ancora potrei scrivere, ma no: lascio il
mio spazio a Guido Morselli che almeno lo sa bene come si fa un diario. Io non
so proprio nulla, se escludiamo un desiderio fortissimo che lo sappiamo tutti:
se lo dici ad alta voce non si avvera. E io non lo dico, casomai lo faccio. E
se proprio non lo posso fare, vi dirò: sono brava con le alternative. Ne
costruirò di spettacolari, di scenografiche, cose da visionari. Cose da pazzi.