Bisogna
mettersi in viaggio anche da fermi per leggere le storie più belle. Mettersi in
scatola, in barattolo, al chiuso di una stanza e luccicare, lasciare tutto
fuori e tornare a un momento felice solo per dilatarlo: sul ciglio di una
strada e in bilico tra i fossi, a fare piano per non calpestare le viole, a
scacciare le mosche nei pressi di montagnole di bucce di frutta lasciate
marcire; storcere il naso e correre più in là per inseguire una fantasia, un
profumo, la consistenza indicibile della meraviglia quando fa il solletico alla
pianta dei piedi e non fa stare fermi.
Quasi tutto
velocissimo è un libro edito da Keller che fa
di queste magie. E Christopher Kloeble è abile nell’intrecciare una trama che
non risulta forzata neppure in un punto: si dipana lungo molte pagine che hanno
un peso di piuma e consentono di restare a dir poco estasiati per tutto come
direbbe Fred, che è forse il più tenero tra i personaggi che io abbia mai
incontrato. L’ingenuità di chi coglie la bellezza nei luoghi più impensati,
celebrandola con gli slanci di un bambino, pizzica gli angoli della bocca e si
deve sorridere di rimando perché è quella la risposta: alle attese vane, ai
giorni che passano e a quelli che restano. Esistere è un gioco che viene dalle
mani. Restare due dita su questa terra è tanto; cinque dita è tantissimo. E
addirittura otto dita è una cosa fenomenale: quanti fiumi si possono toccare,
quante volte il cielo con un dito? quanti i brividi per l’amore da togliere il
sonno, l’amore tutto rovi, l’amore sui prati o sopra un letto? è grande
almeno mille dita il bene che Fred vuole ad Albert che è solo un ragazzo,
eppure sembra lui il padre, il fratello, l’amico e complice. Albert si immagina
presto con capelli folti e occhi di lago, mentre conta i minuti che restano a
Fred che porta addosso una malattia che trapela tra le righe, emerge appena nei
discorsi, perché è delicato così; perché avere cura dei mali altrui non conosce
solo formule chimiche, non solo mani giunte ad alleviare il dolore, ma anche una
lieve sospensione e il gusto per l’ironia. Albert
non conosce la madre. Di lei ha una collezione di tratti del volto e reazioni
immaginate, diluiti in fantasie di incontri improbabili; e un unico capello rosso che le
apparteneva e che lui porta con sé come il più valido e prezioso amuleto. Albert scopre il
valore mutevole delle cose mentre si affaccia al mondo, conoscendo l’altro in
senso profondo oppure velocissimo: chi si sfiora si rivela, ed è un bene che
viene di riflesso da più parti; è un dono che non si può ignorare, che cambia
chi lo conserva e chi lo rilascia: nel tempo si saprà che non vi è àncora che
tenga fissa l’onda che vuole andare. Che l’amore vero è quello che verrà
domani, non c’è fretta se c’è incanto. E che l’affetto che prova un figlio
verso chi lo crea e lo sostiene, sa di marmellata di lampone e di appigli di
forma e sostanza cangiante e non necessariamente odorosi, che sono mappe segrete
per una felicità imperfetta e magnifica da custodire nel cuore dei giorni.
[…] Albert si sedette vicino a
Fred, che stava tutto raggomitolato sul volante. La sua barba ispida
scintillava alla luce del sole. Sulle ginocchia teneva il dizionario, aperto
alla lettera "M". "M" di morte. Con il dito indica
l'immagine di una lapide in marmo di Carrara. «Che colore è questo?»
«Bianco colomba?»
«Esisterà anche in bianco cigno?»
«Senz'altro».«Posso averne una così?»
«Una lapide bianco cigno?»
Fred annui. «Voglio una lapide
stupenda, Albert».
«D'accordo» disse Albert. «Avrai
una lapide bianco cigno».
Per un attimo rimasero in silenzio
e mentre il rumore delle auto sulla strada principale si affievoliva e il sole
li accecava un'ultima volta prima di immergersi nella torbiera, Fred contemplò
trasognato l'immagine della lapide. «Tutti dicono che morire è
brutto. Io però mi sono fatto un'idea diversa. Non sarà brutto, ne sono certo.
Secondo me sarà fantastico. Tipo una sorpresa gigantesca. Anzi, non vedo l'ora
che succeda. Sarebbe meglio se potessimo morire insieme, Albert. Ma la vedo
dura. Io sono più veloce».
«Cercherò di sbrigarmi» promise
Albert e subito Fred lo guardò con aria raggiante, come un bambino troppo cresciuto
con le borse sotto gli occhi, le tempie ingrigite e la bocca circondata da
minuscole rughe. Poi il sorriso di Fred svanì: «La
mia mammina dice che tutti i beni più preziosi prima o poi muoiono». Aveva
cambiato tono, come se si fosse ricordato solo in quell'istante cosa
significasse davvero morire.
«E cosa sarebbe un bene più
prezioso?» chiese Albert. Fred rise, come se quella domanda
fosse di una stupidità disarmante: «Un bene più prezioso può essere qualunque
cosa!»
Il
bene più prezioso talvolta coincide con il primo, secondo e terzo amore. Con le
origini in senso stretto oppure tanto lungo da risalire ai giorni più antichi,
alle forme del bene che a volte sono persino illecite eppure impetuose e così
giuste, se coniugate coi verbi imperfetti dell’appartenenza.
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