Zelda
col mento poggiato sulle nocche di mani per nulla curate.
Zelda
coi capelli d’argento.
Zelda
che quando piove sorride agli sconosciuti.
Zelda
che fa il verso ai gatti.
Era
un elenco senza fine, quello lì. Una cosa che non sapeva dire quando fosse
cominciata. Nei cassetti della memoria spiava e tastava un vuoto lungo e
limaccioso, perché lui toccava tutto con le mani sporche d’acqua e alghe; mani
con un reticolo di scie umide lasciate dai pesci che catturava solo per una
carezza, per tenere con loro un discorso a senso unico; quelli boccheggiavano
un istante e poi sgusciavano dalle mani già protese verso l’acqua, via da una
stretta lieve che mai opponeva resistenza. Prima di liberarli seguiva con occhi
affamati il dorso, le pinne e tutti i loro guizzi; le branchie erano una cosa
da meravigliarsi per sempre. Sperava gli insegnassero per contatto come fare a
nuotare: lui non l’aveva mai saputo. Quei pesci dalla pelle di fiume, pelle
algida, liscia, pesci come piccole lune d’argento, sembrava sapessero meglio di
lui pure certi discorsi amorosi. Zelda restava a rimirarli con aria invaghita,
languida, e non parlava mai per il timore di inquietarli quando lui la invitava
su una barchetta sgangherata che sembrava disegnata dalle mani tempestose di un
bimbo. E dentro quei silenzi rinfoltiva il suo elenco prendendo appunti di
nascosto mentre lei dormiva accovacciata in un angolo umido; e le assi di legno
della barca abbracciavano il suo corpo: quale invidia sempre taciuta, invidia
poderosa.
Zelda
che segue itinerari vivaci, dietro le palpebre chiuse.
Zelda
con le labbra rosse.
Zelda
oggi non ha mangiato proprio niente.
Lui
non lo poteva sapere, ma Zelda sentiva il grattare insistente della penna su un
foglio troppo sottile poggiato solo sulle mani, sulle gambe, con l’oscillare su acque di lago a ostacolare i discorsi; sapeva la scrittura a zigzag, a onde, curve e
spirali: aveva udito di nascosto l’uomo dei pesci imprecare contro la sua sorte e tutte le
virgole del creato. Voleva scrivere in apnea come gli animaletti acquatici che
tanto amava, ma non riusciva a farlo.
Da
quanto tempo non toccava cibo, Zelda. Sentiva la vita assottigliarsi e non
soltanto nella carne: sentiva proprio i giorni allentare la presa su di lei, i
respiri farsi flebili nelle notti cupe e avverse. Sognava manicaretti sontuosi e li divorava solo nei mondi curati da Morfeo con voracità sensuale e grata:
leccava le dita, le labbra, contava le briciole rimaste sul piatto affinché
nemmeno una le sfuggisse. Poi le posava nell’incavo del collo, sulla punta del
naso, sui polsi, e invitava l’uomo pesce, gli offriva la soluzione al dilemma
che era quel loro esistere di traverso.
Zelda
camminava da tanto, ed era così stanca. Contava i battiti del cuore: erano tre
al minuto. Il giorno prima era uno solo e un pezzetto. La settimana precedente
la lasciava addirittura in debito: sotto zero, con ghiaccio. Perciò aveva
trasferito in un bicchiere alcuni cubetti di quel gelo imperante, seduta al
tavolino di un bistrot. Vi era un forte odore di cibo nell’aria, quasi riusciva
a vederne le singole sorgenti: quei profumi li pensava come fossero fiori,
sassi, terra, in base alle sensazioni che le suscitavano le pietanze, gli
oggetti, le reazioni altrui alla vista del piatto colmo di ogni delizia. Lei negava
il bisogno, negava la fame, pronunciava un no
ostinato a bassa voce, di continuo. Le negazioni erano una litania che
prendevano uno spazio troppo largo nella sua mente. Le offrivano di tutto e lei
diceva no, soltanto no, non voglio.
Ma l’uomo
pesce la conosceva bene, perciò l’aveva invitata in quel posto. Un bel giorno
le aveva detto che poteva scegliere pure poco o niente, bastava restarsi accanto. Niente
più niente, farà pure qualcosa, sospirava; e subito dopo canzonava sé stesso, i
suoi passi storti, i capelli appiccicati alla fronte. Lei lo ascoltava e
intanto pensava: se mi spuntassero le branchie lo ameremmo entrambi, questo
corpo.
Ora
lo aspettava, seduta a un tavolino con sopra un vasetto coi fiori finti, e una
tovaglia con delle toppe a forma di ciliegia, fragola, mela rossa. Dunque è
così che si fa, pensava: si copre il difetto che c’è con l’armonia che si può.
Le
specialità del giorno erano tutte contenute in un Menù No pensato apposta per lei e trasferito in un cartoncino
sottile con un disegno di alghe, bolle e pesciolini. All’interno, non una sola
voce: la scelta era da fare tra tutto quel niente e qualsiasi richiesta le
fosse venuta in mente.
Fissò
il vuoto con aria sollevata, rovistò in borsa, afferrò una penna e quasi
distante da sé, fuori da sé, scorse le prime macchie d’inchiostro sul menù. Era
proprio la sua mano a scrivere le voglie, i languori, in attesa che lui
entrasse e sedesse con lei per raccontarle ancora di quella volta al lago.
- Foto di Matteo Pioltelli - |
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