venerdì 3 dicembre 2021

È Stata la Mano di Dio

 
È stata la Mano di Dio a dire quando fu il tempo di ridersi la vita addosso, scagliarsela contro come il più agguerrito dei giochi, come la sfida amata più del dirsi "bravi, avete fatto bene, avete fatto tutto giusto". Vi sono attimi in cui fare male, fare sporco e impreciso per godersi il passaggio dal nulla al tutto, vale più di ogni regola seguita passo-passo. Vale la presa di coscienza che rasenta la perfezione perché finalmente viene e schiarisce. Viene e porge un senso alle cose rimaste sopite da lungo tempo, se non da sempre.
È Stata la Mano di Dio, visto ieri al cinema, porta l’impronta di un Sorrentino che ha l'abilità di essere carnale, pronto ad esplorare il mondo che intende raccontare, e non per imitazione. Solo un po' compiaciuto, forse, per gli effetti speciali che quasi sempre derivano dall'immagine e dall'effetto che questa porta con sé.
Nel film, la visione è quella di una Napoli vissuta e tenace, Napoli bella che non chiede mai: si concede come il più tenero degli amanti, il più audace e flessuoso, coi suoi odori e le stradine anguste, i cieli che mutano come l'umore e le esperienze di chi li osserva e intanto vive una manciata di istanti addossato uno all'altro e non li vede ammucchiarsi fitti-fitti fino a farsi esistenza compiuta, finita.
La Napoli del dio Maradona, la fede nel calcio che unisce anche chi non ce l'ha, perché è sfacciato il talento e il legame che celebra: legame con la terra che è madre e sovrana, legame che è come le viscere; e il mare tutto intorno altro non è che sangue che nutre gli organi, li rende capaci di sostenere il corpo di nascosto: restare fissi e immobili, e da tali muovere tutto il fuori dall'interno. I personaggi del film hanno una bellezza a tratti dolorosa: la zia Patrizia possiede la bellezza, non le è soltanto capitata. E se respira, se si muove e guarda un punto lontano, inafferrabile, lei crea abissi intorno a sé. Abissi di stupore e quasi adorazione; e di scalpore, perché ciò che è bello e non si può toccare crea quasi sempre un sentimento sbigottito e ostinato, come una foto sfocata che racconta l'attimo in cui da fermo il soggetto si è mosso, come per dire "no, io qui così non ci posso stare". Patrizia è un incanto triste. Ha gli occhi languidi e di un buio pesto, come la notte. Pure ridendo non celano il male di una donna che vorrebbe essere altro e non può. E pare sempre così di passaggio, lei che tutto sommato è coriacea; pare sempre sul punto di togliersi la vita, specie quando resta sospesa sul ciglio di un pendio scosceso, con rocce a capitolare nell'infinito blu di un mare da levare il fiato. E invece lei galleggia, avendo nel cuore un peso di piombo e destando amori grandi che sono anche un tabù: neppure il nipote Fabietto può sottrarvisi. Sta lì è non la tocca neppure, la guarda come fosse una dea sconfitta e sinuosa che lascia indovinare il mistero di accostarsi a una donna per un gioco diverso da quello dell'infanzia; anche quando è ancora troppo presto per saperlo sul serio.
Fabietto quando si invaghisce di qualcosa, resta incantato e si direbbe assente: la bocca schiusa come i pesci quando ingoiano gli ultimi istanti di vita fuori dall'acqua, e lo sguardo stordito, inebetito, come se tutto fosse troppo a un certo punto; è un privilegiato che gode della benedizione di sentirsi toccati e rimestati con forza da tutto ciò che esiste.
Fabietto è piccolo, vive sotto le ali di una madre imperfetta e luminosa. E un padre partorito da Servillo, l’amato Servillo che sa sempre il fatto suo. Qui incarna tutte le sfumature dei papà quando sono belli quasi da far male, perché pregni di troppi sbagli e frammenti a rendere per paradosso intatto tutto quanto: ogni sbaglio, ogni tentativo di dire o mostrare affetto, anche se nulla poi va come si vorrebbe e lo si vede, quel papà, barcamenarsi in lungo e in largo in un mondo di cose in conflitto eppure stranamente armoniche, e sempre amate.
Fabietto resta solo pure avendo tanti intorno, all'improvviso. E capisce che a volte, piangere non è così facile come si vorrebbe. Capisce che si può farlo pure col volto proprio asciutto, piangere con un nodo in gola colloso, di piombo, che poi si scioglie a suo piacimento e coglie di sorpresa, destabilizza in ogni modo.
Fabietto impara cosa accade quando un flusso si muove da un corpo all’altro creando legami di qualche tipo, reazioni immediatamente fisiche da meccanismi per lo più mentali: un desiderio che ha la pretesa finta e dolce di insegnare il futuro, e non è facile che lo si racconti così, affidato a un’accoppiata scomoda, spinosa. Un ragazzo e una donna dalla bellezza intensa, seppure troppo vecchia per godere di un corpo senza cogliere nell’atto sessuale la sola tenerezza: per il tempo andato e per quello agli sgoccioli, per i lunghi capelli che qualcuno prima di allora deve avere a lungo districato, accarezzato, tenuto stretti tra le mani per giocosa e complice imposizione. Una donna che sa bene che a volte scordare è un verbo che salva, uno che bisogna dire a voce alta e con fermezza, per salvarsi da gorghi taciuti e aguzzi. E lui non vede su di lei le pieghe che prende il corpo, come un pezzo di stoffa sgualcito eppure amato forte. Non vede le rughe e se le vede non importa: affonda nel suo vuoto che viene per contrasto; è abisso perché così dice il corpo di lei se si schiude, ma sanno tutti che al vuoto si contrappone una pienezza che risiede altrove, e che di pudore ne sa molto, perché è con quello che lei si difende e si concede per davvero.
 
L’intero film è intriso di una certa nostalgia, fortissima pure quando tutti ridono. Nelle case piene di allegria, con le orecchie drizzate verso il caos dei tifosi a partita vinta a spezzare il silenzio nelle strade coi cori urlati, festosi, e gli striscioni bianco-azzurri a sventolare ovunque. Nelle giornate trascorse a sprofondare nel mare, con al fianco scie fumose di vulcano; e nei ritratti di una città e di un tempo che non saranno mai uguali: muteranno sempre, come i ricordi dei giorni felici, nei luoghi felici; sapendo che chi fa luminoso un tempo e una distanza altro non è che il bene che si scambia chi può.
Gli scorci e le riflessioni da contemplare sono così tanti, e molti di questi combaciano con la magia che è credere in un prodigio che viene per caso o volontà, nel vero o appena oltre i confini del concreto: lì dove la superstizione coincide con l’alchimia; dove il velo tra credere e potere è troppo sottile, e allora che male può fare aprire gli occhi e sognare un po’. Che male può fare chiuderli poi a bordo di un treno, nei pressi delle incognite e nei punti conquistati con fatica, rubati a un gioco sleale e tutto sommato mai definitivi. Perché si può cambiare forma almeno in parte al proprio vivere, mutarne alcune svolte e infelicità, solo credendoci.


Filippo Scotti e Luisa Ranieri in È Stata La Mano di Dio



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