mercoledì 19 gennaio 2022

Questa Non è Una Pagina di Diario

 
Questa non è una pagina di diario.
Questa non sono io che mi lascio fermare da spilli di sole sulla stoffa che non ho, sulla stoffa del vero, sulla stoffa dell’idillio consumato nelle favole; perché a me basta quello di un fiore che spunta con la polpa e con il sale dalla sabbia: fiore che pare di gomma, fiore che vuole spuntare perché da una riva lontana gli arrivano racconti fe-no-me-na-li, bisbigliati dalla conchiglie, da marinai invisibili, da corde mangiate dalla fame che ha il tempo, quando è notte e nessuno lo sente avvinghiarsi alle cose, avvinghiare l’aria, la carne e deridere le luci aggrappate ai pali, ai fili: luci veloci un soffio, vecchie già sul punto di nascere. E invece uno col bagliore delle stelle va proprio sul sicuro: quelle magari sono pure morte; ma vai a conservarla tu che sei uno qualunque, una simile grazia. E come la conservo una tale bellezza io che sono te, che sei uno qualunque; io che al poco sottraggo ancora un punto e resto sull’orlo di tutto a ringraziare pure per niente. Ho una super-vista, quando si tratta di capire e carpire le cose nascoste, tuffarmici dentro con almeno un triplo salto carpiato: se sei attento lo vedi dai ghirigori sulle pupille e sotto l’intrico delle ciglia che offro, che non so stare vuota e rassegnata mai, mai, mai.
Questa non è una pagina di diario, perché se lo fosse non avrebbe questo aspetto.


A me invece piace credere che tutte le cose abbiano già in sé un principio di irrinunciabilità. A pensarci bene è una cosa che spiazza. E mentre NON scrivo una pagina di diario mi convinco di un’idea che da sempre mi accompagna: se ci fosse solo giusto e sbagliato, sì oppure no, questo e non quello, allora sarebbe tanto facile viversi. Allora sì che sarebbero bravi tutti a non barare, a non perdere, a non fare e dire e provare cose senza senso, salvo scoprire poi che il senso c’è, e non sempre lo si decide a priori; invece sono molte le volte in cui un significato si adatta a una sola circostanza: una che vale per uno e non per le due, tre, cinque volte e persone a seguire. Sarebbe davvero troppo facile imparare le regole e non discuterle mai. Sarebbe facile, riduttivo, avvilente e noioso – oltre che presuntuoso, mi sa – dire: “no, io non lo farò mai, non lo capirò mai”. E via con una sfilza di cose buone per chi pensa bene. Ma a me interessa pensare vivo, pensare mio, pensare bene per me. Perciò quando mi fermo, quando taglio, rivedo, rinuncio, ricucio, dico che se una cosa viene e non mi arriva addosso giusta, dritta, liscia e scorrevole, allora non è giusta per me. Se non mi agita, se non mi fa impetuosa e imprudente, se non mi fa guardare lontano, non può tenermi in alto come vorrei e io resto perplessa, combattuta, disordinata in tutto: a quel punto bisogna che la riconsideri.
E penso: ciò che rende irrinunciabile una cosa, un luogo, una persona, è proprio il fatto che si è pronti a rinunciarvi se una serie di particolari sensazioni, istinti, cose da irriducibili Amélie non si presentano, lampanti. Le cose di Amélie che solo a scriverlo mi pare ridicolo, ma insomma voi sapete che se io infilo le mani nei chicchi di caffè e godo in maniera inaudita, ecco: mi viene in mente lei.
Ora però torno al punto fondamentale, perché se no va a finire che mi perdo.



















Perciò mi sono detta: è ora di provare una camicia bianca, e il prossimo passo saranno due bei papillon, i capelli raccolti, un rossetto vivace. Una visione nuova di me, tra le visioni nuove.
 
Ho ficcanasato tra le pagine dei Diari di Sylvia Plath. Voglio farlo in maniera approfondita, ma un’altra volta e non adesso. Perché adesso già mi muovo in altre cose profonde, ed è un attimo ritrovarsi spalmati in un punto troppo lontano dalla superficie. Meglio che io resti qui, dove lei comunque arriva forte e chiara e mi concede linee guida deliziose, promemoria che a tratti mi paiono invincibili:
«Leggi un racconto. Pensa. Puoi farlo. Soprattutto, non devi continuamente fuggire nel sonno - dimenticare i dettagli - ignorare i problemi - costruire barriere fra te e il mondo e tutte quelle ragazze allegre e brillanti - coraggio, pensa - tirati fuori. Abbi fede in qualche forza benefica che sta oltre il tuo io limitato. (…) Non devi cercare una via di fuga in questo mondo. Devi pensare».
Certo, bisogna dire che vi sono vie di fuga allettanti. Di quelle che prestano rifugi più che sostituzioni, negazioni più che forze nocive, di quelle che intravedono l’essenziale, ciò che si brama e segretamente si implora per sé stessi e a sé stessi soltanto, e poi lo si evita per totale, oscena, implacabile paura. La stessa paura che poi perde se gareggia con le voglie, con l’autentico, con la spinta vitale che preme, preme, e fa deragliare ogni proposito di mantenersi intatti. A chi importa restare interi, in fondo, se questo significa dormire un sonno eterno anche da vivi, da svegli? A chi importa se alla fine stare al sicuro pareggia i conti col non emozionarsi mai più del dovuto? Le emozioni non hanno troppi limiti, margini di sicurezza. Errori sì, molti. E pure sviste, debolezze tra le quali muoversi a zigzag tentando di non farsi ridurre proprio a pezzi microscopici, e terreni malleabili sui quali muovere passi sconosciuti. Poi languori, languori, languori…
Era genuina e potente Susan Sontag, restando in tema di languori, quando diceva delle cose seducenti a proposito dei corpi.


Seducenti perché si resta incollati al concetto espresso, che pare un incrocio di rette parallele: un simbolo sinuoso come d’infinito, che continua, continua, si ripete, non finisce; e tuttavia lo si vede e pare sempre fresco, scattante, mai stanco. Se col mio corpo tocco un altro corpo, allora posso dare per certo che di corpi ve ne sono almeno due: il mio e l’altro. Vi è quello che tende una mano e quello che riceve un intrico di carezze fittissimo, che comincia lieve, col picchiettare di dita incerte su pelle conosciuta solo per evidenze, a un primissimo approccio. Una novità stordente, anche solo a formularla coi pensieri, anche solo volendo dare all’immaginazione un contorno straordinario, rifacendosi a piccole, sospirate cose ordinarie: la danza di uno sguardo assorto, appeso a un vasto orizzonte. Oppure la curva del collo e le onde agili dei capelli, scosse dal vento di maggio.

Ora sto proprio divagando, ma succede. Anche se come dicevo, questa non è una pagina di diario. Ma in quanto a corpi, mani su corpi, voglie di parole e persone, e pagine con dentro tutte queste cose, mi viene in mente Guido Morselli che ne ha segnate di riflessioni alte, buone, magiche e aperte come le ferite quando sono belle. Perché chi lo dice che non sono belle? Provate a raccontarle a chi di dovere e vedrete. Provate a fidarvi, bene al di là degli esiti di una cosa compiuta, fondata o infondata, fantasiosa o terrena, e vedrete quanto poi sappia di buono anche mettere insieme rivelazioni sull’altro e su sé stessi, da cocci piccolissimi sparsi in ogni dove.
Io non ho mica un gran rapporto col mio corpo, però stiamo facendo grandi cose io e lui. Stabiliamo patti più che decorosi ormai da un pezzo: se soffriamo lo facciamo insieme. Se godiamo, pure. Va bene tutto, purché non si resti soltanto nell’ombra, del tutto al chiuso. E se lo si fa, siamo d’accordo: succede. Litighiamo quel tanto che basta, facciamo una pace contorta, smezzata; poi balliamo, brindiamo ai passi fatti e a quelli che faremo. E vediamo nascere mappe astratte nell’aria che ci precede: strambe versioni di un Gulliver in debito di carezze. Carezze a misura di lillipuziani, precise e agguerrite e sonnolenti, e avventurose.
Col corpo che è nostro, col corpo affidato e confidato, prestiamo a noi stessi una visione che viene da chi scegliamo di scegliere: bisogna andarci coi piedi di piombo, divertirsi con cura e difendersi con spensierato clamore.
Questa cosa del corpo poi, Morselli la diceva in molti modi. In uno ho trovato una sorta di filo saldo e promettente che adesso lo sento che arriva. Arriva e si piazza qui in chiusura di questa cosa qui che non è una pagina di diario, così spazza via tutto il resto.
Se questa fosse stata una pagina di diario sarebbero piovute lettere, sarebbero piovute a caso, avrebbero allagato tutto, nutrito la terra vergine delle riflessioni e dei sentimenti inesplorati. Quante cose ancora potrei scrivere, ma no: lascio il mio spazio a Guido Morselli che almeno lo sa bene come si fa un diario. Io non so proprio nulla, se escludiamo un desiderio fortissimo che lo sappiamo tutti: se lo dici ad alta voce non si avvera. E io non lo dico, casomai lo faccio. E se proprio non lo posso fare, vi dirò: sono brava con le alternative. Ne costruirò di spettacolari, di scenografiche, cose da visionari. Cose da pazzi.



 
 


2 commenti:

  1. Senza nulla togliere a Morselli, ciò che scrivi tu mi piace

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    1. Della grandezza di Morselli non ho neppure un puntino. Ma se ti piace ciò che scrivo, a me piace e non protesto. ♥

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