domenica 16 gennaio 2022

Carus, Caritia: Voce del Verbo Accarezzare

 

       Ruote che grattano l’asfalto in un circuito di poche leghe: 20.000 a cui sottrarre zeri in quantità; l’immaginazione arrotonda per eccesso, ma la logica riduce le distanze tese a separare dall’agognata meta. Le posa su terra compatta, su asfalto rovente o freddo come i luoghi scordati dal Dio di tutti e di nessuno, fuori dai nuclei di vie esposte e abusate, coi passi accaniti e distratti; accanite pure le soste forzate di tutti e in mezzo a tutti, in fila come anelli scalcinati, legati e sconosciuti: promessa di senso mancata, soggetta all’imperativo del divertimento scansata una e cento volte in poche ore.
Lei lascia schioccare due piccoli dadi colorati nascosti nella tasca dei jeans, mentre attende che vengano a prenderla. L’automobile arriva presto, e non sembra poi così nuova e accogliente. Si accomoda con fare solenne su un sedile sgualcito, la portiera dell’auto sigilla il momento con un tonfo ovattato; La scritta Taxi campeggia insolente, incorniciata da un neon dalla luce ottusa, sbiadita. Il tassista ha una massa di capelli nero carbone, folti e riccioluti, resi perfino più scuri da una notte incipiente.
Le ruote slittano sull’asfalto, la pioggia cade dapprima riluttante, poi esita sui tergicristalli: le gocce catturano stille di luce fioca dai neon aggrappati alle schiene dei palazzi, luci gialle sul ciglio della strada, insegne di locali riempiti per metà, a stento: come bocche spalancate, fagocitano chi vi mette piede e chi vorrebbe andare altrove; eppure resta lì, con sottile incantesimo. Resta lì, perduto in voglie mai sfamate, in nostalgia dagli echi grossi come voci di orco ad ascoltare note diffuse nell’aria, a tratti cupe, grigie e quasi vive: sembra abbiano almeno cento mani in ogni frammento, pronte a toccare menti aperte ed esposte al gioco di tutti, impudiche.
 
Lasciami qui, lasciami stare, lasciami così.
Non dire una parola che non sia d’amore.
 
Lei che è donna vorrebbe scrivere una lettera con lo stesso tono biascicato, cavernoso e cupo di Lindo Ferretti. Voce uguale, vibrante e contraria, protesta graffiante contro gli elogi ai tempi quieti, mezzi morti.
Le parole scritte non hanno impedimenti ma intenzioni. E lasciti, armonie e disarmonie, risvolti da affibbiare al tempo che sfugge inclemente, come se fosse tutta sua la colpa di chi non trova pace.
Lancia i dadi e quelli corrono su un sedile dalla fodera sgualcita. È solo un gioco, si dice: ad ogni mossa corrisponde una carezza, nel tempo delle carezze negate. Nessuno osa più darle, le mani servono solo per rimboccare le maniche e per dirigere le orchestre, che sono carezze forti pure quelle: lascive, intense e intese, doloranti, pizzicate e felici, utili a fare il buono e il cattivo tempo.
Trae la somma utile da quel lancio distratto: lui le deve cinque carezze.
Gratta via una mezzaluna d’inchiostro da un dito: blu scuro quasi nero, come fondi d’oceano e tempestose notti lasciate all’orizzonte d’un calvario personale. Il tempo è da sorreggere nell’incavo dorato di un calice coi residui del vino a sugellare patti sbilenchi con chi si ama e non si ama, con le ore che sfuggono tra le dita come carezze a lungo attese.
Lei lo conosce bene, il tassista. Ride mentre bussa alle sue spalle.
«Voglio che mi porti in un posto felice».
Dalla fossetta marcata su una guancia, indovina il tendersi di labbra rosse e rotonde: si accorge che lui sta sorridendo a un’idea che non aveva contemplato. Sorride alle pose di una donna che è lì pure contrariata e odorosa di sonno e caffè tardivo, incenso e un lieve e odioso sentore di sigarette di certo rimastole impigliato tra i capelli per colpa di un passante frettoloso, della poltrona di un cinema scordato, intrisa di sogni, umori e carezze furtive. Oppure assorbito controvoglia nei locali angusti di un bar di periferia. Due donne piacenti, una taciturna e l’altra pronta a un lungo soliloquio in cui dice sempre Io: prima, assoluta e indisponente persona singolare, in un costante, vuoto, imbarazzante esercizio dell’ego. E intanto fuma come una ciminiera e non riesce a smettere. Ridono di un riso amaro quando paragona i polmoni in palese sofferenza a uno Spongebob passato al lato oscuro. Polmoni come spugne cineree, che sbuffano, tritano aria, la soffiano via già viziata.
 
Lui invece ha un odore buono, come di assaggi di colazione fuori orario: pile di piccole ciambelle e frutti rossi a pioggia. Odora pure di cannella. Del resto la notte è ancora giovane, bisogna darle un anticipo della promessa lucida del mattino: si affida al sorgere del sole o ai colpi di spatola di nubi gravide di pioggia, la preghiera silente di chi vuole arrivare, pure trascinandosi, fino al giorno dopo. Farebbe di tutto per quel dopo, pure guidare senza sosta per vie deserte e grevi come la visione oscena di un corpo ridotto a lembi di pelle e viscere annodate.
Guarda con sufficienza i Precetti dei Non-Carezzanti che appestano la città come una malattia senza cura. L’ampio cartello affisso ai pali dei semafori, sulle saracinesche dei negozi e lì dove un tempo restavano affissi i nomi delle vie, recita:
 
1.    Non accarezzare mai nei giorni pari.
2.    Nei giorni dispari, previa autorizzazione del Capo Supremo, scegli un volto amico, amante, fraterno; oppure madre, padre, animale domestico. Tocca i contorni dei volti, le ciocche di capelli, i polsi, le dita (o zampe), come per accertarti che esistano e sappiano stare al loro posto. Nulla di più. Dalle 8.00 alle 8.30 nella Sala delle Mani, la pratica verrà resa possibile salvo essere interrotta in maniera tempestiva, in caso di insubordinazione (Carezze in zone non concesse).

 
Dal vano posteriore dell’auto, un tonfo sordo, meccanico, continuava a ripetere improbabili litanie; rintocchi irregolari per giunta: bussava una volta, poi niente. Tre volte, quattro, e di nuovo silenzio. Ai colpi seguivano mormorii attutiti da altri colpi e brusche frenate di lui, che rideva un riso amaro. E intanto allungava un braccio all’indietro, tentava di raggiungere lei. Le loro dita si agganciavano per un istante: indice contro indice, due piccoli ami senza lenza.
 
I taxi in città erano appena sei. Era fatto divieto assoluto di prenderne senza criterio. Le gambe erano il primo e concesso mezzo di trasporto: mappe in mano e via, verso un cammino di un’ora o un giorno, in lungo e in largo tra le destinazioni possibili.
Passando vi erano aree di sosta per chi doveva ricorrere allo schermo di un cellulare di ultimissima generazione, per ricordarsi di essere vivo.
Vi erano angoli adibiti alla lettura degli scampoli di libri rimasti al mondo: alcuni ne facevano un vezzo, altri una necessità. Il cibo era razionato secondo bisogno, o in base alla gravità dei folli che vi si approcciavano: a certi serviva il pane per non volare via in caso di tempeste. Ad altri lo zucchero filato perché non sapevano più concedersi di franare, veder crollare le difese; e allora volevano imparare a farlo con spumosa dolcezza.
Ad ogni taxi era dovuta la presenza fissa di un guardiano che riferiva per filo e per segno percorsi, comportamenti dei presenti, capacità del tassista di rispettare consegne e divieti. L’ospite doveva essere uno e uno soltanto. Il guardiano poteva pure essere donna: alle guardiane era permesso di indossare gonne lunghe fin sotto il ginocchio e un filo di rossetto color pesca.
Ma qui nulla si anima, niente gode del respiro dei vivi ad eccezione dei due presenti sul taxi. Lui ancora guida e sogghigna, solleva e abbassa il bavero di una giacca mentre i pensieri vagano senza un ordine preciso. Lei scruta di sbieco la forma ammassata al suo fianco, forma vagamente umana a fare le veci della guardiana: cumuli di stoffe accatastate, fogli accartocciati di vecchi giornali, un cappello a tesa larga come quello degli investigatori bravi, un po’ alla Tenente Colombo, alla Maigret di Simenon. Una finzione credibile solo da lontano.
Ancora due, tre tonfi ovattati dal bagagliaio.
 
«Chi è la guardiana lì dietro?»
«Cosa vuoi che ne sappia? È una nuova».
«Non arriveremo mai al confine».
«Sì che ci arriveremo. Tranquilla, sono troppo presi col Convegno per badare a noi».
«Ci faranno molto male, lo sai?»
«Magari ne sarà valsa la pena. Magari non ci prenderanno mai», e detto questo lui devia appena dal percorso stabilito. Frena in maniera brusca, si volta e le consegna un bacio che morde, assaggia, placa le tinte di ardesia di una notte incantevole a dispetto di ogni cosa.
La guarda solo adesso per la prima volta. Gli occhi paiono uno specchio limpido: così larghi e schietti, hanno un chiarore misterioso che bisticcia con le pupille scure e a suo modo avvinghia come i contrasti che confermano per diletto la tesi incerta dalla quale prendere un avvio perplesso.
Ha una canottiera bianca a costine, lui ne sente i rilievi sulla punta delle dita, li studia in fretta uno ad uno fino alla curva docile dei seni, al turgore dei capezzoli appuntiti.
Lei lo sospinge con un riso a metà tra una sorta di febbrile anticipazione e una paura dura come lo scheletro vivo dei crostacei.
L’uomo preme sull’acceleratore, pensa alle cose appuntite mentre percorre agile un intrico di vecchi budelli di vie deserte: le cime dei monti, l’anice stellato, gli artigli dei gatti, le guglie delle cattedrali gotiche, le unghie che sente sul collo, mentre un rivolo d’aria si infila dal finestrino e sembra quasi liquido, semina scie come bave di lumaca sulla pelle intonsa. La finta guardiana porta per dispetto appeso al collo il tesserino di riconoscimento. Si chiama Aurora e ha per testa un volantino stropicciato dei Precetti. Una donna finta col suo corrispettivo in carne ed ossa infilato a forza nel bagagliaio. E una donna vera di carne tremante sul sedile, seduta accanto a una finzione conclamata, che legge ad alta voce:
 
3.    La parola Carezza e quel che ne deriva, è stato accuratamente rimosso da ogni supporto cartaceo e digitale. Qualora un documento qualunque per grave svista riporti ancora tracce di una simile pratica, siete pregati di contattare le autorità competenti ai numeri forniti.
4.    A una folla è concesso di riunirsi solo ai Convegni e per ordine del Capo Supremo.
5.    Agli amanti verrà consegnato un congegno elettronico in grado di misurare le distanze. Un segnale acustico verrà emesso ad ogni tentativo di avvicinamento oltre la soglia consentita.

 
Sospirano all’unisono, mentre lei si appiattisce contro il sedile, cerca di farsi piccola come da bambina tra le braccia di suo padre. Le ombre si allungano ai margini della strada, diventano oblunghe nei pressi delle rade pozze di luce; sono appuntite come fauci spalancate, pronte a divorare chi vi passi attraverso. Nessun congegno per loro che ufficialmente, non si conoscono neppure.
Lei infila le mani in un taschino posto all’altezza del seno. Ritrova una chiave agganciata a un piccolo e tondo supporto metallico, con due facce: in una è disegnato un faro. Nell’altra, una serie di piccole onde puntute, blu come il mare che non vede da così tanto tempo. Le pare di poter seguire da lì il filo di un’agognata libertà: nei passi posati su un sentiero di sabbia, nelle rocce tonde come gusci di lumaca franate un poco ai lati, coi modi comunque aggraziati di pesanti fiocchi di neve.
L’ennesima richiesta di aiuto alle loro spalle, assai indebolita rispetto all’inizio del loro viaggio, interrompe i suoi pensieri e la loro marcia.
La strada è scura, desolata, solo le luci fosche di due fanali in lontananza interrompono il buio pesto di quel tratto di percorso. Lui afferra due torce e gliene porge una in fretta.
Scendono dall’auto col solo intento di far respirare un po’ la vittima e farle bere almeno un sorso d’acqua con del sonnifero disciolto in gocce. Lo fanno attraverso la benda ben stretta sulla bocca, quella fa per urlare ma ha troppa sete, troppa stanchezza addosso per poter anche solo sperare di farsi sentire, e che qualcuno l’aiuti. Lei osserva la guardiana con strana benevolenza. La poca luce si allea con le molte ombre intorno, crea riflessi ipnotici; per esempio, pare che proprio alla guardiana siano cresciute delle branchie sulla pelle nuda della schiena. Ha i polsi legati e lui li massaggia un poco sovrappensiero, chiede scusa, richiude, sale sul taxi. Le luci che prima erano lontane, man mano si avvicinano. Un altro taxi.
Lei è l’ultima a salire, la sua torcia per un istante illumina il volantino di alcuni dissidenti: Amor Pedestre è scritto a caratteri cubitali, come il nome di Marcel Fabre. E sotto ancora due parole: Per Resistere.
Da tempo si proiettavano in luoghi segreti che passavano di bocca in bocca tra i pochi fidati, dei film di vecchia e vecchissima data sopravvissuti al male incessante di una censura stretta, ipocrita, infamante.
Ad un cortometraggio risalente al 1914, muto per giunta, era affidato il compito di tenere alto il morale, la fantasia, l’idea salvifica del contatto umano, e l’ammirazione per chi con poco era capace di narrare una storia dai molti risvolti. Senza contare il fatto che gli arti inferiori di quegli attori recitavano in maniera ben più talentuosa e credibile di certi altri attori spacciati per tali per eccesso di ottimismo. Perché infatti erano i piedi, i polpacci, le ginocchia, a raccontare la storia di un amore fulmineo, un’attrazione morbosa e a suo modo ironica, tra due che non erano destinati a stare insieme: la donna sfugge all’uomo che la segue, l’accarezza coi piedi, avvicina le scarpe sue composte e lucidate di fresco, a scarpe di signora con tacco moderato e vesti svolazzanti tutto intorno.
A una lettera breve e accorata, implorante, è dato il compito di risollevare le sorti dei due: è la scarpa di lei a fare da cassetta della posta; ma il messaggio viene trovato e letto dal marito, e tutto sfocia in un duello che lo vede vincitore solo in via morale; infatti i due quasi-amanti infine si trovano, si avvicinano e lasciano cadere le vesti (e non le scarpe) in un lieto fine piuttosto audace per quei tempi.
 
Sorride tra sé, non si accorge dell’altro taxi che accosta vicino al loro, dal suo lato. Chiedono qualcosa che lei non afferra, mentre lui invece sbuffa, abbassa il finestrino, risponde alle voci lì fuori che sì, va tutto bene. Solo un guasto momentaneo: riavvia il motore, quello pare protestare e riprendersi a scatti, a singhiozzo.
Per un istante, mentre salutano, vedono la faccia disperata dell’altro tassista. Occhi tristi, cravatta troppo larga, maniche di camicia arrotolate su braccia scheletriche.
Il guardiano si distingue a malapena nel buio dell’abitacolo, ma si muove, è lì; niente corpo ricostruito con fogli di giornale e vecchi stracci.
Vanno via, il sollievo si tramuta in una risata frettolosa e in perfetto sincrono. Riprendono il loro cammino mentre lei pensa ancora ad Amor Pedestre, lo racconta a lui, riflettono su quanto sia ingiusto e paradossale dover coltivare il senso e i segni di un contatto umano a legare chi ancora ricorda di esserlo: in carne ed ossa, in preda alle incertezze, al vuoto diffamante di un’esistenza spoglia di ciò che conta.
E come a scuola, come da bambini, occorre ripassare le nozioni principali, passare addirittura alla visione di una pellicola senza parole, senza volti, senza mani, ma con tanta vicinanza. Per non dimenticare la necessità dello starsi accanto, la sensazione del contatto pelle contro pelle, pure presa alla lontana e di sghimbescio come in una narrazione a suo modo rivoluzionaria.
 
È già quasi l’alba. Dei rimasugli di notte restano impigliati in un luccicore di stelle ostinate, in una falce di luna color latte e argento. La canottiera bianca a costine della sua donna, pare quasi un imperativo; ora è macchiata da ciocche di capelli mossi: fili di inchiostro e di sonno rubato al viaggio, all’angoscia del non sapere il punto di arrivo e di non-ritorno. Lei si accorge di essere guardata, si avvicina al suo orecchio, bisbiglia: «Sai cosa faccio adesso?».
Lui inghiotte a vuoto, ingrana la marcia, ravviva i ricci, con una mano insegue la sua e la trova sui jeans, tra le cosce spalancate. La preme avendo ben pochi margini per migliorare approccio e riuscita. Eppure lei sospira, «potrebbe essere l’ultima volta», dice. E a lui non resta che far sì con la testa, scalare una marcia, passare in rassegna ogni rimpianto e vederlo affievolire con la sua sola voce.
Passa poco tempo dopo l’ultima carezza, e arrivano con incredulità di entrambi al posto programmato. Scendono dal taxi con aria diffidente, guardinga. Si prendono per mano, a dispetto della prudenza usata fino ad allora. Si trovano in un lungo rettilineo con la sabbia raccolta ai lati della strada e ipotesi di vecchie canne di palude, immerse in rivoli d’acqua affatto convincenti. Alla loro sinistra, un sentiero trascurato e tuttavia percorribile con l’auto fino ad un certo punto. Devono fare in fretta, arrivare al molo e alla lingua di terra che li condurrà al faro ritratto sulla chiave che adesso lei rigira tra le mani, impaziente.
Ancora pochi giri di ruota, minuti contati alla rovescia e scanditi dai pugni dell’ostaggio chiuso nel suo inospitale alloggio.
Scendono per l’ultima volta dal taxi, vengono accolti da un fischio breve: viene dall’uomo con gli occhi tristi e le maniche di camicia arrotolate su braccia esili; le muove, queste ultime, imitando una danza sgraziata e felice. Il guardiano ha i piedi nudi e danza pure lui, seguendo una musica che ha solo in testa. Continua a spogliarsi finché, nudo, si getta nelle acque mosse del mare.
Corrono a liberare la guardiana, non avevano tempo di spiegarle tutto: conta pochi anni di vita sulle spalle, a malapena quindici, forse diciassette. Non sa nulla del Vecchio Stato.
La liberano con cautela, lei si divincola, li guarda con ferocia. Poi, per la prima volta vede il mare. Una lacrima le solca una guancia, mentre con poca fatica sciolgono un piccolo nodo alla base dei polsi: la benda non lascia il minimo segno, in quella pelle candida.
Muove passi stentorei, adesso piange, singhiozza, scorda la vendetta. Riconosce il tassista che continua a ballare e ululare a un’ombra di luna sopravvissuta alla notte. Si guarda intorno, cerca un segno d’assenso, lo trova e corre ad abbracciarlo.
 
Il piano era dare fuoco alle auto, nascondersi lì, dormire nel faro raggomitolati per terra, vicini, per difendersi dal morso freddo della notte. Curare una piccola barca a remi nascosta sotto cumuli di sabbia e sterpaglie.
Nella notte seguente, notte di luna piena e mare calmo, qualcuno avrebbe potuto vederli: stretti, nudi e felici, su una barca che pareva fabbricata da Caronte e una luce di lampara: cauti e incauti al contempo, grati per un solo scampolo di umanità ritrovata.

Laura Makabresku ♥


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