giovedì 13 gennaio 2022

Il Doloroso Bramare di Giacomo Manzù

 

Ora mi metto qui a raccontare la storia che mi viene e non quella che so, su Giacomo Manzù e Inge Schabel.
Quella che mi viene, perché prima di approfondire qualunque spunto, lacuna, incontro, gioco, mi viene voglia di accoccolarmi, planare, capitolare sulle cose; finirci con dolce schianto, così il bernoccolo è tutto mio e la dolcezza spero risulti almeno da fuori, per una sorta di etereo disordine, di caos bambino ed entusiasta che forse concede poco o nulla, ma nulla toglie davvero. Spero sempre ci sia per me una forza, un’energia latente e ben tenace, che mi ravvivi all’improvviso e a tratti si addormenti; tanto poi ci risvegliamo insieme ed è così che ha senso vivere: in una sorta di vertigine buona, un sali-e-scendi che non si sa mai cosa capita, ma qualcosa capita. Capita perfino di farsi male e lo si prende, quel dolore. Lo si accompagna e lui accompagna a sua volta, perché la strada da fare è sempre una per entrambi. Una soltanto. Il patto valido per sempre, è quello di sporgersi a guardare gli orizzonti, le altezze e le lunghezze da punti che l’altro non può prevedere in ogni momento. Ogni tanto fermarsi per capire quando è stata “l’ultima volta che”… e via coi verbi e le supposizioni a riempire gli spazi vuoti tra i puntini. L’ultima volta che hai sorriso, abbracciato, letto, protestato. L’ultima volta che hai baciato qualcuno senza baciarlo per davvero, quando è stata?
L’ultima volta che ho pensato a quanto morbido può essere un materiale solido e ostico, è stato al museo Manzù. Mi capita spesso lo stupore, e in questo caso viene, cresce e si crogiola nella visione di un corpo teso come la corda di un arco: corpo di statua che imita l’essere umano, essendo immobile e apparentemente morto, senz’anima; eppure così vivo, che a seguire l’intrico di vene su un polso pare quasi di vederle pulsare; pare quasi che vi sia poco distante una mano che partecipa al gioco e accetta un invito neppure pronunciato. Dita pronte a relegare tutto sullo sfondo, oltre la parentesi divina e presente di due che stabiliscono un contatto e restano lì a reggerlo forte, senza temere nulla, né temersi loro.
Mi piace quel prodigio, non voglio sapere la teoria adesso; e pure sapendola poi, non cambierebbe proprio niente. Direi ugualmente ciò che mi arriva di un Giacomo Manzù col suo sguardo aperto e fugace al contempo, l’attenzione selettiva, il guardare per capire e riprodurre secondo una mistura di carne e sentimento. L’artista che serve una causa comune, scavalca la gloria in favore di una cosa che funzioni, che rimanga a raccontare a uno o a cento, la verità emotiva di un solo attimo, di una scintilla: eccola qui una sorta di sehnsucht, la malattia del doloroso bramare. La realtà delle cose che formano la persona e la sana follia che lo anima; i ricordi come un insieme di coordinate che a seguirle si capisce perché siamo sempre così finiti e incompiuti: un compromesso, un accordo smezzato; in continuo divenire ma quasi del tutto inermi davanti alle tempeste del volere e del bisogno, intenti ad afferrare il guasto, la tenacia, e la miscela delle due parti in dosi casuali ma impetuose, ponderate e impetuose di nuovo: non avrebbe incontrato la sua Inge, Manzù, se si fosse fermato a una bellezza che deve essergli apparsa molto alta, pronta a intimorire. Un po’ come le sue statue dei cardinali: grosse, imponenti montagne scure, coi volti scavati e le stoffe a piovere su un corpo visto largo e maestoso dal basso e via via più sottile: piramidi umane in salsa sacra dall’aspetto quieto e pensieroso, a fare capolino da mucchi di stoffe adagiate sui loro corpi in copiosi drappeggi. L’idea dei colori d’oro e di terra, trapela perfino da una visione uniforme: il bronzo smette di essere tale e veste tinte abbaglianti solo nella fantasia.
 
Una morbidezza uguale nei significati e nelle forme, sfugge facilmente da una natura morta poggiata su sedia. Una sedia che a vederla lì pare solo funzionale, e invece Manzù la raccontava così: «La sedia è l’eredità che mi ha lasciato mio padre. La sedia che è diventata un amore formale, un tema di scultura. Perché tutto quanto è venuto dopo viene dalla povertà, dalla povertà di una povera sedia. Io sono felice di essere nato nella povertà. Per povertà intendo essere uomini, quelli che siamo e non illuderci di poter essere diversi per le cose che possediamo».



Ho amato in maniera smodata la serie di sculture sugli amanti, unita a litografie e acqueforti viste in un piccolo museo dedicato all'artista. L’audacia e la struttura delle composizioni, che pure essendo immobili muovono chi le osserva. Si è costretti a girarvi intorno, perché sarebbe un peccato perdere un solo dettaglio; un peccato vero non sapere cosa accade, dove si posa una mano e come fa un braccio a cingere il corpo di chi ama sapendo che non è solo carne, non è solo pensiero, istante, voglia che lenta si innalza, si assopisce e si risveglia ancora, in un cerchio immaginario ben rodato. Tutto insieme, senza un preciso ordine. Si notano e innamorano la curva di un ginocchio, la bocca da cui sfugge un sospiro, le mani aggrappate, addossate: ogni cosa dei due amanti aderisce al tutto che si offrono reciprocamente.
E ovunque appare Inge: Inge regale, fiera, svettante; Inge amata, superba, sensuale e sinuosa, Inge che invita la mano amata a riprodurre le forme che percorre con sospirate cure, e si presta di volta in volta al gioco dell’artista e dell’amore di molti anni: terreno e ultraterreno, verrebbe da supporre. Oppure siamo noi irriducibili romantici, a doverlo supporre per forza di cose e di fatti. Senza crederci, non muoveremmo un passo, non crederemmo neppure a ciò che è possibile: perché l’impossibile lo abbiamo già in tasca e fischiettiamo incuranti per finta, mentre affermiamo che non ci importa nulla del nascondiglio di un amore da intendere e coltivare con la precisa intensità che plasmiamo sottovoce: chiediamo che vi sia, e la inventiamo ovunque con la forza bruta di un dio capriccioso, chinato ad ammirare il petalo di un fiore caduto ai suoi piedi; mentre intorno è tutta bufera e apocalisse: un pezzetto di sciagura piazzato lì con finta indifferenza, in attesa che Cupido venga e rimescoli tutto col solito, sublime ciarpame rosso cuore. Con le vittime in perpetuo idillio e ancora un’illusione, una soltanto, prima di dormire.



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