Ora
mi metto qui a raccontare la storia che mi viene e non quella che so, su
Giacomo Manzù e Inge Schabel.
Quella che mi viene, perché prima di approfondire qualunque spunto, lacuna, incontro, gioco, mi viene voglia di accoccolarmi, planare, capitolare sulle cose; finirci con dolce schianto, così il bernoccolo è tutto mio e la dolcezza spero risulti almeno da fuori, per una sorta di etereo disordine, di caos bambino ed entusiasta che forse concede poco o nulla, ma nulla toglie davvero. Spero sempre ci sia per me una forza, un’energia latente e ben tenace, che mi ravvivi all’improvviso e a tratti si addormenti; tanto poi ci risvegliamo insieme ed è così che ha senso vivere: in una sorta di vertigine buona, un sali-e-scendi che non si sa mai cosa capita, ma qualcosa capita. Capita perfino di farsi male e lo si prende, quel dolore. Lo si accompagna e lui accompagna a sua volta, perché la strada da fare è sempre una per entrambi. Una soltanto. Il patto valido per sempre, è quello di sporgersi a guardare gli orizzonti, le altezze e le lunghezze da punti che l’altro non può prevedere in ogni momento. Ogni tanto fermarsi per capire quando è stata “l’ultima volta che”… e via coi verbi e le supposizioni a riempire gli spazi vuoti tra i puntini. L’ultima volta che hai sorriso, abbracciato, letto, protestato. L’ultima volta che hai baciato qualcuno senza baciarlo per davvero, quando è stata?
L’ultima
volta che ho pensato a quanto morbido può essere un materiale solido e ostico,
è stato al museo Manzù. Mi capita spesso lo stupore, e in questo caso viene,
cresce e si crogiola nella visione di un corpo teso come la corda di un arco: corpo
di statua che imita l’essere umano, essendo immobile e apparentemente morto,
senz’anima; eppure così vivo, che a seguire l’intrico di vene su un polso pare
quasi di vederle pulsare; pare quasi che vi sia poco distante una mano che
partecipa al gioco e accetta un invito neppure pronunciato. Dita pronte a
relegare tutto sullo sfondo, oltre la parentesi divina e presente di due che
stabiliscono un contatto e restano lì a reggerlo forte, senza temere nulla, né temersi
loro.
Mi piace quel prodigio, non voglio sapere la teoria adesso; e pure sapendola poi, non cambierebbe proprio niente. Direi ugualmente ciò che mi arriva di un Giacomo Manzù col suo sguardo aperto e fugace al contempo, l’attenzione selettiva, il guardare per capire e riprodurre secondo una mistura di carne e sentimento. L’artista che serve una causa comune, scavalca la gloria in favore di una cosa che funzioni, che rimanga a raccontare a uno o a cento, la verità emotiva di un solo attimo, di una scintilla: eccola qui una sorta di sehnsucht, la malattia del doloroso bramare. La realtà delle cose che formano la persona e la sana follia che lo anima; i ricordi come un insieme di coordinate che a seguirle si capisce perché siamo sempre così finiti e incompiuti: un compromesso, un accordo smezzato; in continuo divenire ma quasi del tutto inermi davanti alle tempeste del volere e del bisogno, intenti ad afferrare il guasto, la tenacia, e la miscela delle due parti in dosi casuali ma impetuose, ponderate e impetuose di nuovo: non avrebbe incontrato la sua Inge, Manzù, se si fosse fermato a una bellezza che deve essergli apparsa molto alta, pronta a intimorire. Un po’ come le sue statue dei cardinali: grosse, imponenti montagne scure, coi volti scavati e le stoffe a piovere su un corpo visto largo e maestoso dal basso e via via più sottile: piramidi umane in salsa sacra dall’aspetto quieto e pensieroso, a fare capolino da mucchi di stoffe adagiate sui loro corpi in copiosi drappeggi. L’idea dei colori d’oro e di terra, trapela perfino da una visione uniforme: il bronzo smette di essere tale e veste tinte abbaglianti solo nella fantasia.
Una
morbidezza uguale nei significati e nelle forme, sfugge facilmente da una
natura morta poggiata su sedia. Una sedia che a vederla lì pare solo funzionale,
e invece Manzù la raccontava così: «La sedia è l’eredità che mi ha lasciato mio
padre. La sedia che è diventata un amore formale, un tema di scultura. Perché tutto
quanto è venuto dopo viene dalla povertà, dalla povertà di una povera sedia. Io
sono felice di essere nato nella povertà. Per povertà intendo essere uomini,
quelli che siamo e non illuderci di poter essere diversi per le cose che
possediamo».
Quella che mi viene, perché prima di approfondire qualunque spunto, lacuna, incontro, gioco, mi viene voglia di accoccolarmi, planare, capitolare sulle cose; finirci con dolce schianto, così il bernoccolo è tutto mio e la dolcezza spero risulti almeno da fuori, per una sorta di etereo disordine, di caos bambino ed entusiasta che forse concede poco o nulla, ma nulla toglie davvero. Spero sempre ci sia per me una forza, un’energia latente e ben tenace, che mi ravvivi all’improvviso e a tratti si addormenti; tanto poi ci risvegliamo insieme ed è così che ha senso vivere: in una sorta di vertigine buona, un sali-e-scendi che non si sa mai cosa capita, ma qualcosa capita. Capita perfino di farsi male e lo si prende, quel dolore. Lo si accompagna e lui accompagna a sua volta, perché la strada da fare è sempre una per entrambi. Una soltanto. Il patto valido per sempre, è quello di sporgersi a guardare gli orizzonti, le altezze e le lunghezze da punti che l’altro non può prevedere in ogni momento. Ogni tanto fermarsi per capire quando è stata “l’ultima volta che”… e via coi verbi e le supposizioni a riempire gli spazi vuoti tra i puntini. L’ultima volta che hai sorriso, abbracciato, letto, protestato. L’ultima volta che hai baciato qualcuno senza baciarlo per davvero, quando è stata?
Mi piace quel prodigio, non voglio sapere la teoria adesso; e pure sapendola poi, non cambierebbe proprio niente. Direi ugualmente ciò che mi arriva di un Giacomo Manzù col suo sguardo aperto e fugace al contempo, l’attenzione selettiva, il guardare per capire e riprodurre secondo una mistura di carne e sentimento. L’artista che serve una causa comune, scavalca la gloria in favore di una cosa che funzioni, che rimanga a raccontare a uno o a cento, la verità emotiva di un solo attimo, di una scintilla: eccola qui una sorta di sehnsucht, la malattia del doloroso bramare. La realtà delle cose che formano la persona e la sana follia che lo anima; i ricordi come un insieme di coordinate che a seguirle si capisce perché siamo sempre così finiti e incompiuti: un compromesso, un accordo smezzato; in continuo divenire ma quasi del tutto inermi davanti alle tempeste del volere e del bisogno, intenti ad afferrare il guasto, la tenacia, e la miscela delle due parti in dosi casuali ma impetuose, ponderate e impetuose di nuovo: non avrebbe incontrato la sua Inge, Manzù, se si fosse fermato a una bellezza che deve essergli apparsa molto alta, pronta a intimorire. Un po’ come le sue statue dei cardinali: grosse, imponenti montagne scure, coi volti scavati e le stoffe a piovere su un corpo visto largo e maestoso dal basso e via via più sottile: piramidi umane in salsa sacra dall’aspetto quieto e pensieroso, a fare capolino da mucchi di stoffe adagiate sui loro corpi in copiosi drappeggi. L’idea dei colori d’oro e di terra, trapela perfino da una visione uniforme: il bronzo smette di essere tale e veste tinte abbaglianti solo nella fantasia.
Ho
amato in maniera smodata la serie di sculture sugli amanti, unita a litografie
e acqueforti viste in un piccolo museo dedicato all'artista. L’audacia e la struttura delle composizioni, che pure essendo
immobili muovono chi le osserva. Si è costretti a girarvi intorno, perché sarebbe
un peccato perdere un solo dettaglio; un peccato vero non sapere cosa accade,
dove si posa una mano e come fa un braccio a cingere il corpo di chi ama
sapendo che non è solo carne, non è solo pensiero, istante, voglia che lenta si
innalza, si assopisce e si risveglia ancora, in un cerchio immaginario ben
rodato. Tutto insieme, senza un preciso ordine. Si notano e innamorano la curva
di un ginocchio, la bocca da cui sfugge un sospiro, le mani aggrappate,
addossate: ogni cosa dei due amanti aderisce al tutto che si offrono
reciprocamente.
E ovunque appare Inge: Inge regale, fiera, svettante; Inge amata, superba, sensuale e sinuosa, Inge che invita la mano amata a riprodurre le forme che percorre con sospirate cure, e si presta di volta in volta al gioco dell’artista e dell’amore di molti anni: terreno e ultraterreno, verrebbe da supporre. Oppure siamo noi irriducibili romantici, a doverlo supporre per forza di cose e di fatti. Senza crederci, non muoveremmo un passo, non crederemmo neppure a ciò che è possibile: perché l’impossibile lo abbiamo già in tasca e fischiettiamo incuranti per finta, mentre affermiamo che non ci importa nulla del nascondiglio di un amore da intendere e coltivare con la precisa intensità che plasmiamo sottovoce: chiediamo che vi sia, e la inventiamo ovunque con la forza bruta di un dio capriccioso, chinato ad ammirare il petalo di un fiore caduto ai suoi piedi; mentre intorno è tutta bufera e apocalisse: un pezzetto di sciagura piazzato lì con finta indifferenza, in attesa che Cupido venga e rimescoli tutto col solito, sublime ciarpame rosso cuore. Con le vittime in perpetuo idillio e ancora un’illusione, una soltanto, prima di dormire.
E ovunque appare Inge: Inge regale, fiera, svettante; Inge amata, superba, sensuale e sinuosa, Inge che invita la mano amata a riprodurre le forme che percorre con sospirate cure, e si presta di volta in volta al gioco dell’artista e dell’amore di molti anni: terreno e ultraterreno, verrebbe da supporre. Oppure siamo noi irriducibili romantici, a doverlo supporre per forza di cose e di fatti. Senza crederci, non muoveremmo un passo, non crederemmo neppure a ciò che è possibile: perché l’impossibile lo abbiamo già in tasca e fischiettiamo incuranti per finta, mentre affermiamo che non ci importa nulla del nascondiglio di un amore da intendere e coltivare con la precisa intensità che plasmiamo sottovoce: chiediamo che vi sia, e la inventiamo ovunque con la forza bruta di un dio capriccioso, chinato ad ammirare il petalo di un fiore caduto ai suoi piedi; mentre intorno è tutta bufera e apocalisse: un pezzetto di sciagura piazzato lì con finta indifferenza, in attesa che Cupido venga e rimescoli tutto col solito, sublime ciarpame rosso cuore. Con le vittime in perpetuo idillio e ancora un’illusione, una soltanto, prima di dormire.
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