Nothing's Gonna Hurt You Baby
Ricorda di colorare forte sopra i
muri. Tu non ne sei capace, tu muovi le mani come in una danza sospetta,
sorvoli l’aria con faccia contrita, con faccia distratta, turbata e in estasi.
Ma l’aria non trasuda la tempera, gli acquerelli sbiadiscono ai primi cenni
d’umido; il gesso si impasta con la pioggia, crea miscele che vedi solo tu, al
netto delle vesti: la sera quando nessuno ti vede; la notte, quando ai pensieri
si accosta a malapena il tuo respiro.
Niente
potrà più ferirti: Nothing’s Gonna Hurt You Baby, le diceva lui. Poi precisava quanto fosse da rivedere la follia
del pensarsi indenni davanti ai fatti della vita. E che ferirsi era una pratica
come un’altra, un male necessario, la vanità rivista e da esibire dopo averci
fatto pace due o tre secoli più in là. Niente
potrà più ferirti fino a ucciderti, ecco. Come quelle smagliature: merletti
senza lode e tanta infamia, messi lì per dire a tutti quanto costa
sopravviversi, e quanto viversi invece, tagliando di netto le cose che nessuno
vede, strato su strato, fino a raggiungere un segno e un senso più profondo.
Vivere prestando fede al gioco crudele di chi si espande e si ritrae, come
l’onda che abbraccia lo scoglio, il fiore che beve il sole e poi si piega,
piccino, a baciare la terra.
Lei
non sapeva colorare solo i muri, però. Allora pensò bene di imprimere bocconi
di esistenza sulla pelle, significati emersi di soppiatto, racconti concessi
con sole metafore sparse: non vi è niente da spiegare per intero a tutti, in
fondo. Non serve rendere partecipe chiunque della propria intimità. Uno vede un
groviglio di fiori, ghirigori simili a un acchiappasogni astratto e un pianeta
appeso al nulla, sulla carne, alle spalle, dove gli occhi per vedere devono
proprio cercare a fondo, la testa ruotare, impuntarsi, indagare i riflessi
negli specchi che altrimenti mica lo saprebbe lei stessa, cosa ha lasciato lì
dietro e come è arrivata a superarsi. Sono disegni sparsi che durano minuti e
invece bisogna prenderli per quello che sono: giorni, mesi e forse anni, condensati
in pochi tratti.
Una
folata di vento ferma il tempo un istante: i suoi capelli inventano un’onda
gentile, il capo cade su un lato, chiede una risposta che plachi l’insistere di
una domanda mai osata. Cosa saremmo se
non fossimo io e te?
Lui
si china a raccogliere un’ipotesi, la rivela a capo chino, con voce biascicata,
non può mica fornire la formula esatta col bianco candore delle certezze.
Bianco accecante, anonimo, troppo pulito. Chi le vuole le cose sempre giuste? Chi
desidera che sia soltanto intonso, il tempo speso a disegnare carezze sulla
pelle? Dove lo sporco non è un affronto ma un’alleanza che leva briciole di
sogni depositati nell’incavo delle labbra. Labbra di fragola che non si possono
vedere perché lei lo guarda ancora, guarda solo lui così ostinato, chinato su sé
stesso, mentre scrive per terra con un sasso appuntito: come eravamo. Così, senza punto di domanda. Senza respiro, senza perché.
Il
tempo slitta, scivola, sguscia i frutti di un destino maturo da contraddire: se
contiamo le rughe sul volto, percorriamo da capo le volte in cui siamo rimasti
impigliati in un sospiro d’anfora, terroso e antico; e poi le voglie negate e
taciute, fino a che quelle prendono l’iniziativa, levano la brina addossata ai
gesti scordati, muovono un passo timido che infine diviene una danza.
Le tue braccia sono come radici, gli diceva. Lui era albero,
mente liscia, salda, con le parti nascoste da non dire mai, da percorrere in
segreto: su invito o piano, per tentazione indicibile da non poter trascurare.
E
insomma: come eravamo.
Eravamo
in due in un giorno qualunque. Due senza nome per i passanti: se mi sporgo ci
vedo ancora, eravamo due da sembrare uno, da sembrare niente. Due da fare
invidia ai sassi, al silenzio, alle stelle, al capo chino di una luna d’argento,
al sole quando sorge e già pensa al sonno d’ambra da riversare, liquido, su
colline di un verde da prendere boccate d’aria ampie prima di tuffarcisi; come
se fossero blu, come se fossero un oceano. Eravamo quelli che non temono l’oggi,
sapendo che il domani verrà perché si ha sempre sete di speranza. E la speranza
ha fili gracili da intrecciare, colori sgargianti da celebrare con dita
gentili. Eravamo quelli che urlavano forte l’offesa di un fiore rubato alla
terra; e c’era una scommessa fatta e da rinnovare ogni volta: se si trovava un
fiore con la corolla appannata, lo stelo spezzato, i petali socchiusi per la vergogna
di non avere più un posto nel mondo, lo si doveva raccogliere, ringraziare,
baciare petalo per petalo, baciare labbra per labbra, così quello restava
appeso alle mani, sapeva che era proprio un dolce addio, una dolce scadenza.
Guardava il mondo per la prima volta a testa in giù, si trovava piantato su un
cielo senza fine, tra nubi sfilacciate, bianche come cotone. E la testa a
vedere i piedi di quei due a farsi vicini, e quanti baci, tanti baci; e onde d’abito
a spezzare le onde immobili del suolo: che novità assoluta, un cambio di
prospettiva in fin di vita. Come si dice: morire in grande stile, morire coi
fuochi d’artificio nella testa, morire sottosopra fino ad imparare che invece
essere umani significa non farne mai o quasi mai una dritta, ma saper
raddrizzare le cose, se non altro. Il fiore risale, la mano che lo tiene è
gentile ma distratta; è una sola perché l’altra percorre linee differenti,
ugualmente soffici, da segnare un sorrisetto obliquo sulle labbra e volerne
ancora. Il fiore impara l’arte della sospensione: galleggia senza acqua, senza
onde, solo aria. Impara la vista dritta e lunga, presa per il verso giusto; l’equilibrio
sopra una vertigine che forse non lo vedrà mai più con lo stelo per terra, ma
coi petali sulle nuvole, quello sì, E il suo buon odore di vegetale bello,
bellissimo. Lui è unico, è solo, e lo sa bene. Così chiude gli occhi e ascolta
il mormorare di quei due alla sua destra. Si sono sdoppiati: due prima, due dopo.
Due coppie che ne fanno una, nel perpetuo dubbio dell’essere e del divenire.
Come
eravamo conta giusto un poco. Solo per capire come siamo adesso, e come si deve
andare per parlare insieme la stessa lingua, per trovare in due lo stesso
passo. Uno che non escluda le differenze ma le accomuni.
Poi
svaniscono in un soffio, attratti da un alito di vento pregno dell’ultimo
respiro di un fiore contento, nonostante tutto. Finiscono di giocare a
nascondino, finiscono di contare, nessuno deve più nascondersi. Nessuno deve
più cercare. Uniscono le mani, chiudono gli occhi: al tre sono già due senza
riflesso. Due soltanto, a cominciare da un bacio e un abito bianco, senza
moine, senza riti, due che si baciano sapendo di baciarsi, mentre il tempo si dilata,
si vergogna, si ripiega, manca un battito di lancette come il cuore certe
volte, quando la bellezza è tanta da non poterla proprio sopportare.
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Foto di Estéban Puzzuoli |
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