Cronache di una Svista
Ho
confuso due nomi simili per svista, per un Yamamoto che alla fine mi ha
convinto che due fossero uno soltanto; e perché ero assente, ero in viaggio con
la fantasia, ovunque ma non qui.
Ho scoperto
un modo per riportarmi a un presente che talvolta impersono mio malgrado,
affidandomi a una conferma che giorno, dopo attimo, dopo esperienza, trovo
puntuale e in grado di salvarmi: fare le cose per impegno, per tenacia, è ciò
che dà sapore alla mia stessa buccia, all’interiorità che trapela, mi ribalta e
spesso mi soverchia; è lei che prevale, non io. Mi sembro una donna al
rovescio, per una specie di bizzarro e sconveniente caso, che vivo con una
imperturbabile eleganza, dove “imperturbabile” è l’unico punto certo, volendo
considerare ancora l’apparire. E l’eleganza la metto lì perché mi piace, nei
modi più che nelle vesti. Magari a forza di evocarla quella viene e non si
ferma a una copia sbiadita della stessa, che prende slancio da una specie di andare
quieto, dimesso, quando invece a volte implodo, a volte mi capita di incenerire
cose con uno sguardo e uno magari si trova a voltarsi dall’altra parte, e gode
delle mie reazioni placide ignorando lo scampato pericolo.
Ho il
vizio di perdermi in riflessioni arzigogolate, almeno fino a che non mi
capitano episodi di soli, sublimi slanci di un istinto che uno dice: che fai, non la metti ‘na botta di squisita
follia di tanto in tanto?
Sì
che la metto. E la voglio pure, e sia lodata quando arriva e mette in discussione
tutto. Che visione romantica ho della realtà, dell’amore, del viaggio, del bene
e pure del male. Mi viene in mente l’umano, umanissimo Satana che John Milton anima
di un soffio a dir poco eterno, a dir poco alto e ammaliante, quando dice:
«La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.
Che cosa importa dove, se rimango me stesso? (…)».
Si familiarizza pure con Belzebù in cattivissima
persona, perché assume il male in ogni tratto, diventa e continua quel male, ma
lo rende pensato, animato, ragionato: scriverei chilometri, secoli, oceani e
oceani di cose su questo, ma invece ora torno al punto iniziale. Torno al
cognome Yamamoto giusto per riprendere quel filo che troppo spesso
dimentico di seguire, e che srotolo assecondando i salti che la mia mente fa di
continuo, non meno belli di quelli dei vecchietti nel video di Hoppípolla dei
Sigur Rós.
Cercavo Masami Yamamoto, quando per sbaglio ho scritto
Masao sulla tastiera. E allora ho seguito somiglianze non per forza letterali
tra un uomo e una donna, e l’arte che nelle loro mani e menti si snoda in due
maniere non identiche ma direi quasi complementari; se non nel prodotto finito,
almeno nelle sensazioni che mi arrivano quando mi fermo a guardare ciò che
fanno. Uno mette in foto di dimensioni ridottissime la poesia del corpo e dei
luoghi, la poesia e la malinconia delle attese, il silenzio, il chiarore della
neve e il peso leggero che muove ogni essere vivente, quando non deve giustificare
il solo fatto di esistere.
L’altra impasta le mani nell’argilla ancora
morbida, anticipando la durezza di carattere di un materiale che a pensarci
pare attraversi anche lui la morbidezza e la scorza di chi si fa coriaceo e
malleabile all’occorrenza, o per sentimento.
Di Masao Yamamoto mi restano in mente i colori-non
colori, le ombre lucenti, il buio che da solo viene e infila mille cose
piccolissime negli spazi affatto angusti della fantasia: è in ciò che non si
vede a un primo sguardo, in tutto quello che si annida dietro l’angolo, nella
pagina successiva, nella sequenza di scene che viene dopo la dissolvenza e nel
buio, specie se non fa paura, che si percepisce il nuovo, l’incognita, il
potere rinfrancante della scoperta.
Certo, scoprire sé stessi e gli altri non è mai
cosa semplice. E allora ecco che le donne ritratte nelle foto si curvano, si
svelano e si celano a metà, seguendo un ritmo che non si può prevedere e che non
serve spiegare: ciascuno vede la bellezza che può e che vuole; e la danza che
sembra nascere persino da un corpo immobile, catturato in uno scatto e ormai
fermo in un tempo che è passato e non è più possibile proporre immutato. Le forme
sono sinuose, la pelle ha un pallore di luna e sorge dal buio: imita la
sensualità morbida di un fiore, i rami curvi e spogli di un albero, il sesso
che a malapena viene suggerito, e tanto somiglia al frutto maturo che cade, si
schiude, lascia colare il succo in gocce dense e vischiose come miele. Tutto
parla della natura (umana), in quelle foto. Del resto è proprio alla natura che
dovremmo fare riferimento in ogni istante. E dire: soffro come il salice che
piange, ho qui baci di fragola ma hai forse tu ciliegie più buone da addentare?
Mi fa male la testa, mi fa male ciò che manca, come a una pigna che cade dall’alto
e si schianta al suolo: cosa credi che non soffra, solo perché ha uno scheletro
duro?
Se
ti penso sai di anguria, e mi fai il solletico ai pensieri come tu fossi tutte
le spighe di tutti i campi, quando il vento le accarezza.
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Masao Yamamoto ❀ |
E invece siamo umani, siamo carne, siamo vesti
afflosciate sulle sedie, sui pavimenti; vesti a costringere e da abbandonare:
pare un movimento da poco ma sai quanto sforzo, sai quante maschere, quanto
peso, quanta agognata leggerezza. E quanti schemi, quante assurde mode da
scansare, quanto si trovi il corpo a lavorarle quelle stoffe, a piegarsi
lasciandosi piegare, a stringere e costringersi e nemmeno un abbraccio che
ritorni da tutto questo dare e prendere, e vestire, e spogliare.
Masami Yamamoto e le sue sculture morbide, che quasi
sembrano contenere ancora un frammento del respiro di chi finalmente è nudo,
pelle contro aria - o pelle contro pelle, nel migliore dei casi – racconta di quanto
di noi ci sia, in ciò che non indossiamo (più). Quanto singolare sia che le
forme insistano e insistano fino a piegare i tessuti, e che questi ultimi
raccontino di chi li ha indossati per lungo tempo: nei punti che risultano
allargati, sfibrati, bucati, scoloriti. Nei punti che dovrebbero essere ritti,
e invece conservano la forma dei fianchi, dei seni, il punto in cui le
ginocchia spingono all’infuori quasi a voler dire che il corpo si trova lì per
caso, ma eccolo che prende la rincorsa, lo scheletro spinge, prende un nuovo
slancio per scappare via.
Le cose che non indossiamo poi, assumono davvero un
significato assoluto, talvolta: io sono la gonna che resta nel mio immaginario
di stolida e dolorosa perfezione: quella che si arrampica sulle cosce, quella
che è un imperativo essere femminile; ma poi mi compiaccio se la femminilità mi
viene pure in scarpe da ginnastica, pure arrotolata in un plaid come in un
super-involtino. Comunque troppe volte sono stata con l’immaginazione in bilico
su tacchi che mi riprometto sempre di indossare per qualcuno, su superfici
piane tipo il pavimento di una casa stabile, niente scosse, ma neppure minime:
potrei rotolare per la più impercettibile inclinazione di un ipotetico terreno,
per eventuali pezzi di ghiaia, foglie, code di gatto da scansare, stelle da
dover guardare per forza, cose indicate all’ultimo istante da una mano vicina,
di quelle che poi se non le guardi subito chissà cosa ti perdi e non te lo puoi
perdonare mai per i secoli dei secoli.
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Masami Yamamoto ꧂ |
Ma non è solo un fatto di autoironia: le cose che
non indossiamo, io credo, dicono davvero molto di una visione ideale che forse
abbiamo mancato per un soffio; e della persona che forse saremo, ma anche di
quella che non saremo mai, perché si capisce che l’abito è solo un pretesto, è
solo la forma che prende il dolore quando non ha più parole da versare. In
fondo col tempo si capisce che alcuni punti sono solo una piccola, spensierata
parentesi. Un costume e una maschera, una iperbole, un soggiorno molto breve
sull’isola di Utopia. E va bene così, non è mica un dramma.
Troveremo altre vesti da scegliere, ben altre cose
avranno il compito di non costringere ma di rivelare, di non nascondere ma di
portare in superficie e avvolgere, accarezzare, divertire, alleggerire i corpi,
le forme dei corpi, le stoffe che parlano dei corpi mentre quelli respirano
altrove, in libertà.
A volte mi dico che sarebbe bello respirare così: a
pieni polmoni, come fa il vento quando soffia tra gli alberi e sposta le nubi,
rincorre le foglie, arriccia le onde del mare, e allora lo imito quel vento, ma
non so se ci riesco, se sono credibile. E penso alla bellezza di un fiore di
brughiera: magari un giorno saprò essere anche io, bella così.
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