lunedì 24 gennaio 2022

Cronache di una Svista

 
Ho confuso due nomi simili per svista, per un Yamamoto che alla fine mi ha convinto che due fossero uno soltanto; e perché ero assente, ero in viaggio con la fantasia, ovunque ma non qui.
Ho scoperto un modo per riportarmi a un presente che talvolta impersono mio malgrado, affidandomi a una conferma che giorno, dopo attimo, dopo esperienza, trovo puntuale e in grado di salvarmi: fare le cose per impegno, per tenacia, è ciò che dà sapore alla mia stessa buccia, all’interiorità che trapela, mi ribalta e spesso mi soverchia; è lei che prevale, non io. Mi sembro una donna al rovescio, per una specie di bizzarro e sconveniente caso, che vivo con una imperturbabile eleganza, dove “imperturbabile” è l’unico punto certo, volendo considerare ancora l’apparire. E l’eleganza la metto lì perché mi piace, nei modi più che nelle vesti. Magari a forza di evocarla quella viene e non si ferma a una copia sbiadita della stessa, che prende slancio da una specie di andare quieto, dimesso, quando invece a volte implodo, a volte mi capita di incenerire cose con uno sguardo e uno magari si trova a voltarsi dall’altra parte, e gode delle mie reazioni placide ignorando lo scampato pericolo.
Ho il vizio di perdermi in riflessioni arzigogolate, almeno fino a che non mi capitano episodi di soli, sublimi slanci di un istinto che uno dice: che fai, non la metti ‘na botta di squisita follia di tanto in tanto?
Sì che la metto. E la voglio pure, e sia lodata quando arriva e mette in discussione tutto. Che visione romantica ho della realtà, dell’amore, del viaggio, del bene e pure del male. Mi viene in mente l’umano, umanissimo Satana che John Milton anima di un soffio a dir poco eterno, a dir poco alto e ammaliante, quando dice:
«La mente è il proprio luogo,
e può in sé fare un cielo dell'inferno, un inferno del cielo.

Che cosa importa dove, se rimango me stesso? (…)».
 
Si familiarizza pure con Belzebù in cattivissima persona, perché assume il male in ogni tratto, diventa e continua quel male, ma lo rende pensato, animato, ragionato: scriverei chilometri, secoli, oceani e oceani di cose su questo, ma invece ora torno al punto iniziale. Torno al cognome Yamamoto giusto per riprendere quel filo che troppo spesso dimentico di seguire, e che srotolo assecondando i salti che la mia mente fa di continuo, non meno belli di quelli dei vecchietti nel video di Hoppípolla dei Sigur Rós.
Cercavo Masami Yamamoto, quando per sbaglio ho scritto Masao sulla tastiera. E allora ho seguito somiglianze non per forza letterali tra un uomo e una donna, e l’arte che nelle loro mani e menti si snoda in due maniere non identiche ma direi quasi complementari; se non nel prodotto finito, almeno nelle sensazioni che mi arrivano quando mi fermo a guardare ciò che fanno. Uno mette in foto di dimensioni ridottissime la poesia del corpo e dei luoghi, la poesia e la malinconia delle attese, il silenzio, il chiarore della neve e il peso leggero che muove ogni essere vivente, quando non deve giustificare il solo fatto di esistere.
L’altra impasta le mani nell’argilla ancora morbida, anticipando la durezza di carattere di un materiale che a pensarci pare attraversi anche lui la morbidezza e la scorza di chi si fa coriaceo e malleabile all’occorrenza, o per sentimento.
 
Di Masao Yamamoto mi restano in mente i colori-non colori, le ombre lucenti, il buio che da solo viene e infila mille cose piccolissime negli spazi affatto angusti della fantasia: è in ciò che non si vede a un primo sguardo, in tutto quello che si annida dietro l’angolo, nella pagina successiva, nella sequenza di scene che viene dopo la dissolvenza e nel buio, specie se non fa paura, che si percepisce il nuovo, l’incognita, il potere rinfrancante della scoperta.
Certo, scoprire sé stessi e gli altri non è mai cosa semplice. E allora ecco che le donne ritratte nelle foto si curvano, si svelano e si celano a metà, seguendo un ritmo che non si può prevedere e che non serve spiegare: ciascuno vede la bellezza che può e che vuole; e la danza che sembra nascere persino da un corpo immobile, catturato in uno scatto e ormai fermo in un tempo che è passato e non è più possibile proporre immutato. Le forme sono sinuose, la pelle ha un pallore di luna e sorge dal buio: imita la sensualità morbida di un fiore, i rami curvi e spogli di un albero, il sesso che a malapena viene suggerito, e tanto somiglia al frutto maturo che cade, si schiude, lascia colare il succo in gocce dense e vischiose come miele. Tutto parla della natura (umana), in quelle foto. Del resto è proprio alla natura che dovremmo fare riferimento in ogni istante. E dire: soffro come il salice che piange, ho qui baci di fragola ma hai forse tu ciliegie più buone da addentare? Mi fa male la testa, mi fa male ciò che manca, come a una pigna che cade dall’alto e si schianta al suolo: cosa credi che non soffra, solo perché ha uno scheletro duro?
Se ti penso sai di anguria, e mi fai il solletico ai pensieri come tu fossi tutte le spighe di tutti i campi, quando il vento le accarezza.


Masao Yamamoto ❀



 










E invece siamo umani, siamo carne, siamo vesti afflosciate sulle sedie, sui pavimenti; vesti a costringere e da abbandonare: pare un movimento da poco ma sai quanto sforzo, sai quante maschere, quanto peso, quanta agognata leggerezza. E quanti schemi, quante assurde mode da scansare, quanto si trovi il corpo a lavorarle quelle stoffe, a piegarsi lasciandosi piegare, a stringere e costringersi e nemmeno un abbraccio che ritorni da tutto questo dare e prendere, e vestire, e spogliare.
Masami Yamamoto e le sue sculture morbide, che quasi sembrano contenere ancora un frammento del respiro di chi finalmente è nudo, pelle contro aria - o pelle contro pelle, nel migliore dei casi – racconta di quanto di noi ci sia, in ciò che non indossiamo (più). Quanto singolare sia che le forme insistano e insistano fino a piegare i tessuti, e che questi ultimi raccontino di chi li ha indossati per lungo tempo: nei punti che risultano allargati, sfibrati, bucati, scoloriti. Nei punti che dovrebbero essere ritti, e invece conservano la forma dei fianchi, dei seni, il punto in cui le ginocchia spingono all’infuori quasi a voler dire che il corpo si trova lì per caso, ma eccolo che prende la rincorsa, lo scheletro spinge, prende un nuovo slancio per scappare via.
Le cose che non indossiamo poi, assumono davvero un significato assoluto, talvolta: io sono la gonna che resta nel mio immaginario di stolida e dolorosa perfezione: quella che si arrampica sulle cosce, quella che è un imperativo essere femminile; ma poi mi compiaccio se la femminilità mi viene pure in scarpe da ginnastica, pure arrotolata in un plaid come in un super-involtino. Comunque troppe volte sono stata con l’immaginazione in bilico su tacchi che mi riprometto sempre di indossare per qualcuno, su superfici piane tipo il pavimento di una casa stabile, niente scosse, ma neppure minime: potrei rotolare per la più impercettibile inclinazione di un ipotetico terreno, per eventuali pezzi di ghiaia, foglie, code di gatto da scansare, stelle da dover guardare per forza, cose indicate all’ultimo istante da una mano vicina, di quelle che poi se non le guardi subito chissà cosa ti perdi e non te lo puoi perdonare mai per i secoli dei secoli.


Masami Yamamoto ꧂



 

















Ma non è solo un fatto di autoironia: le cose che non indossiamo, io credo, dicono davvero molto di una visione ideale che forse abbiamo mancato per un soffio; e della persona che forse saremo, ma anche di quella che non saremo mai, perché si capisce che l’abito è solo un pretesto, è solo la forma che prende il dolore quando non ha più parole da versare. In fondo col tempo si capisce che alcuni punti sono solo una piccola, spensierata parentesi. Un costume e una maschera, una iperbole, un soggiorno molto breve sull’isola di Utopia. E va bene così, non è mica un dramma.

Troveremo altre vesti da scegliere, ben altre cose avranno il compito di non costringere ma di rivelare, di non nascondere ma di portare in superficie e avvolgere, accarezzare, divertire, alleggerire i corpi, le forme dei corpi, le stoffe che parlano dei corpi mentre quelli respirano altrove, in libertà.
A volte mi dico che sarebbe bello respirare così: a pieni polmoni, come fa il vento quando soffia tra gli alberi e sposta le nubi, rincorre le foglie, arriccia le onde del mare, e allora lo imito quel vento, ma non so se ci riesco, se sono credibile. E penso alla bellezza di un fiore di brughiera: magari un giorno saprò essere anche io, bella così.


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