lunedì 29 agosto 2022

Nella Stanca e Curva Schiena del Mondo

 

Vi è una sola, piccola scialuppa di salvataggio per noi che siamo quelli alla deriva, quelli spinti al margine di storie e opportunità, che alla fine però si risollevano in un guizzo: come una sirena dalla coda un poco annerita o una grossa balena, a narrare di quando un marinaio le fece il solletico alle tonsille; quei racconti hanno un respiro eterno e parlano la lingua segreta della notte. Scoprono così la meraviglia: un sentimento mai abusato perché ognuno lo vive come può, galleggiando in una dimensione che nulla toglie ad eventuali tristezze, malinconie, stanchezze da alleviare; e che anzi fa scoprire un sollievo che se solo si potesse riprodurre in una formula, sarebbe un dono perfetto per le persone che si amano: quelle che pure se poche, contano per mille. Invece si tratta di sfumature colte al volo in un pezzetto di libro, di foto, di viaggio ridotto agli sgoccioli: vi sono viaggi, perfino altrui, che sembrano disegnare in mente delle graziose liste in carta da zucchero, che dicono sia un colore ma a me piace immaginarlo come una cosa accartocciata e morbida, di nuvola, come zucchero filato. Parole d’aria e di semente, percorso da intraprendere nelle intenzioni ancora prima che nel passo.
Sfumature, ancora, da cogliere nei muti pensieri e nodi infilzati in gola, di quelli che basta andare in un museo, e le si vede ciondolare ammirate, certe persone; ritte sull’orlo dell’inarrivabile talento degli artisti che anche vivendo tra comuni mortali, proprio uguali a chiunque non si potevano dire. E poi i film: ennesima maniera di restare incollati a un destino di altri credendolo proprio, volendolo con ogni fibra. Non tanto per le trame poco attuabili nel vero, in certi casi, ma per il senso e i sensi che muovono e che le muovono, sapendo che alla fine sì: siamo davvero simili ai prodotti di una finzione, presi per metafore preziose. Siamo davvero vuoti da colmare e a tratti invece colmi fino all’orlo: col naso all’insù, collo allungato, bocca schiusa come parola incorrotta e taciuta all’improvviso, bocca di pesce, animo di lisca senza polpa intorno; nudi a volere, nudi a morire un secondo per riemergere da un buio tanto lungo, poi, e imparare un respiro disperato, necessario, da cui rinascere. Si può tornare al mondo e con vitalità rinnovata con immagini violente, pacate, rapide, trasognate. Si può farlo anche scegliendo un titolo come Il Condominio dei Cuori Infranti, Asphalte in originale, lasciandosi cullare da un passo docile, languido, senza neppure un fondo di forza prepotente da esibire. La forza è tenera, è dolce e sofferta. È umida di pianto, pallida di luna, graffia le corde vocali. Ed è agile: si destreggia tra «una libertà lucida e decisa, una vita autonoma e la felicità voluta di chi è infelice»: così scrive Biamonti ne L’Angelo di Avrigue e a me pare un gemellaggio perfetto. Le sue parole cadono dove erano attese, ricordandomi una versione di me che non sa lasciare indietro una specie di amore cantato in gola, sperato, accarezzato; e riordina foto scattate in un tempo meno distante di quanto sembri, come per baciare gli occhi e la fronte di chi le abita. Sternkowitz la penserebbe come me: un personaggio triste e tenace più di quanto appaia, che nel film sperimenta il paradosso, la punizione grande per un atto di egoismo tutto sommato piccolo, in confronto: non partecipa alle spese condominiali per la messa a punto di un ascensore, perché a lui non serve, vivendo al primo piano. Perde d’un tratto l’uso delle gambe, e a quel punto non osa sperare nella magnanimità dei condomini: usa quel mezzo quando nessuno può vederlo, a sera inoltrata. Ha fame ed è troppo tardi per sperare di trovare un posto in cui fare rifornimento di viveri. Si accontenta di un pasto frugale e insoddisfacente: un pacchetto di patatine sottratto alla bocca metallica di un distributore automatico, in un ospedale. È lì che incontra un’infermiera dalla voce piccina e con gli occhi grandi, lo sguardo sperso, una tristezza che cela nelle braccia strette a sé, a imitare un abbraccio che non riceve più da tanto tempo. Insieme, i due, imparano a camminare sul filo di intrecci incerti, storie inventate senza malizia: lei cura i mali e il sonno altrui; lui fotografa le nubi per lei, fotografa luoghi e persone mai conosciuti, per una finzione buona: verità acerba a scaldarli in notti fredde.
Il film ha molte facce, e una comunicazione che si spiega a strati, e su piani differenti non solo in senso metaforico. Vi compaiono una madre separata dal figlio, e un ragazzo caduto dal cielo in senso letterale: un astronauta che trova casa e attenzioni materne da parte di una donna che per poco e senza smania di possesso, rallegra stanze lasciate vuote in casa e in petto, chiacchierando con lui che non parla neppure una lingua familiare: si capiscono a gesti, disegni, parole mimate, ancora fotografie, odori assorbiti da vesti prese in prestito e da cibi a raccontare tradizioni ormai sbiadite. Convivialità approntata per diletto e per premura, come se fosse una piccola festa, quell’evento incredibile dato quasi per consueto. Come fosse normale cadere dal cielo, trovarsi orfani nel cuore del mondo e provare in breve una quiete risolta, dovendola lasciare sul più bello, senza strappi: con la gratitudine di chi non pretende un lieto fine.
 
Sono pochi gli ambienti e i suoni distribuiti nell’arco dell’intera narrazione. Solo uno si ripete qualche volta, battendo brevi e striduli rintocchi. Chi si ferma ad ascoltarlo si interroga sulla natura dello stesso, e lo fa sempre in presenza di un testimone perplesso, a fornire interpretazioni improbabili e presto smentite: potrebbe essere un animale, o un bambino che piange. Nulla convince davvero, ma nessuno infine avverte l’impellenza di spingersi fino all’origine di un suono misterioso e conosciuto al contempo. Neppure Jeanne e Charly lo fanno: pure loro, come gli altri personaggi, si trovano a sommare due solitudini senza forzature, per mezzo di un’alchimia salda e silente: lei è un’attrice che impara molto da un ragazzo con un mucchietto di anni in meno sulle spalle; su tutto, la genuinità di chi deve e può arrivare al cuore delle cose, cambiando il punto di osservazione: bisogna affermare ciò che si è, non per gli altri ma per sé stessi. Ed è in uno scambio dapprima scorbutico e con l’andare dei giorni complice, che riescono a scambiarsi lacrime, impressioni, racconti di vita filtrati dagli sguardi e dalle età diverse, che rappresentano una ricchezza di visioni più che un limite. E carezze senza sesso, da premere forte tra i capelli e sul viso, come fossero una missione: ricordarsi di essere vivi; ricordarsi di essere ancora capaci di sentire, per quanto vi siano eventi che funzionano all’inverso e insegnano a bastarsi ad oltranza, a fare tutto da soli, contare su di sé come non vi fosse altro di possibile; come una fede senza dio, un’assurda somma di elementi senza risultato.
Poche note fanno da sottofondo al film: minimali e languide, versate in punta di dita, malinconiche: appartengono a Raphaël Haroche, e sono bellissime.
E si ripete ancora e ancora, fino all’ultima scena, il suono stridulo che per tutti ha un’origine differente, di cui nessuno vorrà avere certezza. Sempre meglio sentire ciò che si vuole, lasciando spazio allo stupore in mezzo a regole fatte per chiuderci in scatola, come in un condominio-alveare con le sue api operose. Come sopravvissuti in costante debito di bene, intenti ad averne almeno un pizzico e ancora un po’. E se qualcosa stride, non importa: si fa presto a pensare si tratti di uno scricchiolare di vertebre, nella stanca e curva schiena del mondo.





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