Il Tempo che Resta
Vi
sono libri tersi, libri d’acqua, libri di conchiglia da ascoltare ad occhi
chiusi, poiché l’eco delle storie narrate continua in mente anche a lettura
ultimata e produce suoni: echi in aggiunta agli echi, similitudini piovute tra
le note di una canzone senza argini. Trovo una mèta perfetta in Flatlands: crocevia e metà perfetta di
direzioni multiple, spartane, così impazienti di toccare un punto e un altro
opposto in sequenza immediata e impossibile, se la distanza da coprire va di
pari passo coi ritmi del corpo. Le parole superano gli ostacoli, quando
alleviano e completano: sono medicamenti necessari senza controindicazioni.
Mark
Lanegan e Chelsea Wolfe cantano piano mentre io scrivo: le note si dilatano,
prendono la forma dei sogni ad occhi aperti e trovano intatte le pieghe e i
risvolti già percorsi tra le pagine scritte da Michelle Grillo ne Il Tempo che Resta (Alessandro Polidoro Editore). È un canto a due voci anche il racconto, eppure gli spazi e gli
eventi narrati conoscono intrecci differenti, punti di vista molteplici ma non
efficaci come quelli della protagonista che narra in prima persona i colori
della colpa, del bisogno, del volere negato ad oltranza lo stesso destino
consegnato a chi non vuole saperne di concepirlo; e tuttavia deve sottostarvi,
trovando nutrimento nella mancata generosità di una sorte avversa.
La
protagonista è Anna: ragazza e poi donna; Anna nel presente e nel passato, Anna
arresa all’amore vissuto forse dagli altri perché il bene la sfiora soltanto
con un tocco distratto, e la dimentica presto. Per lei nulla dura, nonostante
il rosso fragola delle voglie da addentare; i baci disegnati nella fantasia,
nella realtà rispondono appena a un rosa pallido, il rosa che ha la pelle quando
non è impastata col sole, diafana. La rassegnazione ha un verde acido, e Anna la
conosce bene quando per la prima volta le viene negata la possibilità di
seguire ambizioni anche letterarie: quella dei sogni e delle visioni di sé proiettate
in un mondo felice, sono rinunce alle quali farà presto il verso e l’abitudine;
perché in famiglia bisognava essere pratici: la tenerezza svaniva in un
turbinare di obblighi e piccoli gesti di intensità pari a un grigio pallido e
fangoso. La notte era tanto scura da rendere semplice appuntare sull’orlo del
cielo, ogni sorta di pensiero sfacciato. I vorrei non costano nulla, se saputi
digerire al momento opportuno.
Così
Anna cresce, Anna rinuncia, Anna percorre il giallo ocra delle strade al
tramonto, di ritorno da scuola. Anna conosce il bene spaiato e troppo tenue
delle amicizie a senso unico, le compagnie private della grazia delle
condivisioni vere e profonde: compagnie dei giorni persi, delle lenzuola
arricciate tra i piedi sui letti sfatti; letti come isole lontane. L’amore si
scava nel corpo, si prende con forza, si lascia e si placa come quando si
risponde ai morsi della fame ma non si capisce mica se quella è autentica e se
si allaccia al gusto, all’umore, al vuoto che c’è dentro e fuori. Dentro perché fuori: le cause e gli effetti
non sono sempre ovvi come si direbbe. E ne si può indagare la natura in molti
modi, anche sbagliati, come quando Anna per sfuggire a realtà indesiderate si
lascia amare di un amore sterile, a metterle in pancia un germoglio arido in
partenza.
I
want flatlands
Soft and steady breeze
Bringing scents of lined-up orchard trees
Dripping heavy with pears and dancing leaves
I want flatlands
Will you go there with me?
Si
respira a fondo tra le pagine, la ricerca inappagata della semplicità narrata
anche in Flatlands. Anelare il vento,
la danza delle foglie, i contorni gentili di un luogo amato da tornare a percorrere;
e la brezza leggera pure tra le ciglia, l’abbraccio venuto come un dolce
assalto, alle spalle: cura da non temere e che non vede nascere in gola la
protesta di ruggine di chi non sa lasciarsi andare.
«(…) Ci
incamminammo tra gli alberi color autunno, calpestando un lungo tappeto di
foglie dorate illuminato da chiazze di luce. Il vento faceva sbattere le falde
dei nostri cappotti, asciugando le minuscole gocce di sudore sulle fronti. I respiri
affannati si trasformavano in nuvole di vapore. Luca mi prese la mano
aiutandomi nell’ultimo tratto roccioso. Poggiai il piede su di un masso e,
tenendoci l’uno all’altra, arrivammo in cima, dove l’intera valle si aprì ai
nostri occhi stupiti. Inerti dinanzi a tanta bellezza, incapaci di parlare, di
dire anche un banalità, Luca ruppe ogni indugio cacciando un urlo fortissimo.
Lo guardai svuotare i polmoni, mentre l’aria gli sferzava i capelli. Allora
presi anche io una grossa boccata, strinsi i pugni lungo il corpo e urlai, più
forte che potevo, a occhi aperti, per non perdere nemmeno un secondo di quell’immagine,
con un’energia tale da far vibrare il mio corpo. Urlammo forte, come sulle
montagne russe, e man mano sentii la tristezza uscire dal mio corpo, un flusso
nero che tenevo sedimentato tra stomaco e polmoni».
Anna vive in disequilibrio
costante, tra ciò che ha perso e tutto quanto avrà da perdere. E Michelle Grillo
tratteggia la figura di una donna in pace e in guerra con sé stessa; una donna
che segna il suo tempo nonostante tutto: donna da incolpare che freme sotto le
spoglie di un’esistenza spenta a metà e lì cerca il senso, il filo
ingarbugliato, la libertà pensata dentro stanze opprimenti; con un baluginio
piccolo e grande al contempo a cui fare ritorno quando manca il respiro, unica immagine da evocare senza paura: casa senza mattoni, da abbracciare.
Casa che porta il nome delle illusioni e che per definizione, per affetto,
porta negli occhi e nei gesti ogni promessa di un futuro finalmente pieno e possibile.
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