martedì 14 luglio 2020

Il Tempo che Resta




Vi sono libri tersi, libri d’acqua, libri di conchiglia da ascoltare ad occhi chiusi, poiché l’eco delle storie narrate continua in mente anche a lettura ultimata e produce suoni: echi in aggiunta agli echi, similitudini piovute tra le note di una canzone senza argini. Trovo una mèta perfetta in Flatlands: crocevia e metà perfetta di direzioni multiple, spartane, così impazienti di toccare un punto e un altro opposto in sequenza immediata e impossibile, se la distanza da coprire va di pari passo coi ritmi del corpo. Le parole superano gli ostacoli, quando alleviano e completano: sono medicamenti necessari senza controindicazioni.
Mark Lanegan e Chelsea Wolfe cantano piano mentre io scrivo: le note si dilatano, prendono la forma dei sogni ad occhi aperti e trovano intatte le pieghe e i risvolti già percorsi tra le pagine scritte da Michelle Grillo ne Il Tempo che Resta (Alessandro Polidoro Editore). È un canto a due voci anche il racconto, eppure gli spazi e gli eventi narrati conoscono intrecci differenti, punti di vista molteplici ma non efficaci come quelli della protagonista che narra in prima persona i colori della colpa, del bisogno, del volere negato ad oltranza lo stesso destino consegnato a chi non vuole saperne di concepirlo; e tuttavia deve sottostarvi, trovando nutrimento nella mancata generosità di una sorte avversa.
La protagonista è Anna: ragazza e poi donna; Anna nel presente e nel passato, Anna arresa all’amore vissuto forse dagli altri perché il bene la sfiora soltanto con un tocco distratto, e la dimentica presto. Per lei nulla dura, nonostante il rosso fragola delle voglie da addentare; i baci disegnati nella fantasia, nella realtà rispondono appena a un rosa pallido, il rosa che ha la pelle quando non è impastata col sole, diafana. La rassegnazione ha un verde acido, e Anna la conosce bene quando per la prima volta le viene negata la possibilità di seguire ambizioni anche letterarie: quella dei sogni e delle visioni di sé proiettate in un mondo felice, sono rinunce alle quali farà presto il verso e l’abitudine; perché in famiglia bisognava essere pratici: la tenerezza svaniva in un turbinare di obblighi e piccoli gesti di intensità pari a un grigio pallido e fangoso. La notte era tanto scura da rendere semplice appuntare sull’orlo del cielo, ogni sorta di pensiero sfacciato. I vorrei non costano nulla, se saputi digerire al momento opportuno.
Così Anna cresce, Anna rinuncia, Anna percorre il giallo ocra delle strade al tramonto, di ritorno da scuola. Anna conosce il bene spaiato e troppo tenue delle amicizie a senso unico, le compagnie private della grazia delle condivisioni vere e profonde: compagnie dei giorni persi, delle lenzuola arricciate tra i piedi sui letti sfatti; letti come isole lontane. L’amore si scava nel corpo, si prende con forza, si lascia e si placa come quando si risponde ai morsi della fame ma non si capisce mica se quella è autentica e se si allaccia al gusto, all’umore, al vuoto che c’è dentro e fuori. Dentro perché fuori: le cause e gli effetti non sono sempre ovvi come si direbbe. E ne si può indagare la natura in molti modi, anche sbagliati, come quando Anna per sfuggire a realtà indesiderate si lascia amare di un amore sterile, a metterle in pancia un germoglio arido in partenza.
 
I want flatlands
Soft and steady breeze
Bringing scents of lined-up orchard trees
Dripping heavy with pears and dancing leaves
I want flatlands
Will you go there with me?
 
Si respira a fondo tra le pagine, la ricerca inappagata della semplicità narrata anche in Flatlands. Anelare il vento, la danza delle foglie, i contorni gentili di un luogo amato da tornare a percorrere; e la brezza leggera pure tra le ciglia, l’abbraccio venuto come un dolce assalto, alle spalle: cura da non temere e che non vede nascere in gola la protesta di ruggine di chi non sa lasciarsi andare.
 
«(…) Ci incamminammo tra gli alberi color autunno, calpestando un lungo tappeto di foglie dorate illuminato da chiazze di luce. Il vento faceva sbattere le falde dei nostri cappotti, asciugando le minuscole gocce di sudore sulle fronti. I respiri affannati si trasformavano in nuvole di vapore. Luca mi prese la mano aiutandomi nell’ultimo tratto roccioso. Poggiai il piede su di un masso e, tenendoci l’uno all’altra, arrivammo in cima, dove l’intera valle si aprì ai nostri occhi stupiti. Inerti dinanzi a tanta bellezza, incapaci di parlare, di dire anche un banalità, Luca ruppe ogni indugio cacciando un urlo fortissimo. Lo guardai svuotare i polmoni, mentre l’aria gli sferzava i capelli. Allora presi anche io una grossa boccata, strinsi i pugni lungo il corpo e urlai, più forte che potevo, a occhi aperti, per non perdere nemmeno un secondo di quell’immagine, con un’energia tale da far vibrare il mio corpo. Urlammo forte, come sulle montagne russe, e man mano sentii la tristezza uscire dal mio corpo, un flusso nero che tenevo sedimentato tra stomaco e polmoni».
 
Anna vive in disequilibrio costante, tra ciò che ha perso e tutto quanto avrà da perdere. E Michelle Grillo tratteggia la figura di una donna in pace e in guerra con sé stessa; una donna che segna il suo tempo nonostante tutto: donna da incolpare che freme sotto le spoglie di un’esistenza spenta a metà e lì cerca il senso, il filo ingarbugliato, la libertà pensata dentro stanze opprimenti; con un baluginio piccolo e grande al contempo a cui fare ritorno quando manca il respiro, unica immagine da evocare senza paura: casa senza mattoni, da abbracciare. Casa che porta il nome delle illusioni e che per definizione, per affetto, porta negli occhi e nei gesti ogni promessa di un futuro finalmente pieno e possibile.



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